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Autore: LB Shadow    22/07/2016    9 recensioni
IN PAUSA REVISIONE (REVISIONE IN CORSO, L'ULTIMO CAPITOLO ANCORA DA CORREGGERE)
*
Questa storia parla di ossessione, di orgoglio ferito, di passioni che scavano nel profondo.
Ma anche di hamburgers mastodontici, cuochi incompetenti, giudici psicotici, magia nera e vendette efferate quanto, alla fin fine, improbabili.
O forse no, chi lo sa, magari il destino ha in mente qualche scherzo. Partiamo dall’inizio, vi va?
Un terribile evento ha allontanato Arthur Kirkland, chef inglese di dubbie speranze, da Londra e di lui non se n'è saputo più nulla.
Fino ad ora.
Dopo un anno, infatti, Arthur è tornato, portando con sé un giovane studente straniero al fine di ospitarlo. Dietro ai suoi modi gentili sono però nascosti un bruciante desiderio di rivincita verso chi l'ha costretto a fuggire e molti, troppi segreti.
I piani, però, verranno messi duramente alla prova. Incidenti di percorso e sentimenti che si credeva ormai appartenenti al passato travolgeranno sia lui che chi gli sta attorno in una spirale da cui nessuno uscirà illeso.
È davvero possibile vincere contro dei mostri quando in realtà fanno parte di noi? Chi è l'eroe e chi il cattivo della storia?
*
(presenti più possibili ship, anche oneside, a vostro piacere)
Genere: Commedia, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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No Place Like London
 
I


 
 
Il buio li accolse nella nuova città. 
Una pioggerellina fitta asfissiava il bus avvolgendolo nel suo opaco velo. Gli edifici si erano trasformati in fantasmi che sbucavano all’improvviso durante il percorso, ghermendo passanti ignari.
Al di fuori del finestrino, il mondo andava a rallentatore in quella serata di autunno inoltrato.
Nonostante le palpebre si fossero fatte terribilmente pesanti nelle ultime ore, una mancanza di riposo dovuta tutt’al più al jet lag, l’eccitazione impediva a Toris di abbandonarsi al sonno lì sul sedile. Staccò le dita dal vetro, lasciando i segni circolari dei polpastrelli impressi nell’alone di umidità prodotto dal suo respiro. Li rimirò. Pure quelle impronte avevano assunto il fascino della novità, ora che era giunto sul suolo inglese. Sospirò, felice.
− Non può immaginare quanto le sia grato che si sia offerto di ospitarmi qua a Londra. Ѐ stato un rischio decidere di venire qua, lo so, ma non m’importa.− Spiò di sfuggita il suo compagno per vedere la sua reazione, prima di aggiungere in un apice di gioia − Ho scelto tra un sacco di luoghi dove trascorrere l’Erasmus, dai freddi Paesi del Nord a quelli mediterranei, ma nessun posto è come Londra!
− No, nessun posto è come Londra.
− Mr Kirkland?
Arthur si girò verso il ragazzo, le folte sopracciglia corrucciate tracciavano un’ombra sugli occhi verdi.
− Tu sei giovane. Finora la vita ti ha sorriso... ma imparerai.
Toris era perplesso. Come non comprenderlo? Era puro come un filo d’erba spuntato grazie a poche gocce di rugiada la mattina stessa, privo di qualsiasi veleno che lo proteggesse dagli artigli del mondo. Il tipo di persona che si fida ancora del prossimo. Era così diverso da lui...
Prima che gli venisse domandata l’origine di quella frase così drammatica, Arthur continuò il suo discorso guardando davanti a sé, la voce bassa e tagliente come quella di un rasoio: − ... che esiste un grande pozzo nero abitato dalla feccia del mondo, la cui morale non vale lo sputo di un maiale, questo posto si chiama Londra. In cima al pozzo vive un pugno di privilegiati, si fanno beffe della feccia di sotto e trasformano la bellezza in lordura e ingordigia. Anch’io ho visto il mondo e le sue meraviglie, sai? – si girò nuovamente verso l’altro, un sorriso piegava le labbra sottili – Decisamente più di te che le hai viste solo dal pc, mio caro, – sospirò al ricordo, un attimo di dolcezza prima di tornare al tono avvelenato – la crudeltà dell’uomo è raggelante come i ghiacci del Nord, ma nessun posto è come Londra!
Strinse i pugni nel pronunciare quell’ultima affermazione, sotto lo sguardo preoccupato di Toris che lo stava squadrando come se fosse stato un animale pericoloso, in procinto di mordere chiunque si fosse avvicinato troppo. Forse aveva esagerato un tantino. Arthur rilassò i lineamenti tesi del volto, senza riuscire a togliersi di dosso quell’ombra che gli oscurava le iridi, facendolo apparire più vecchio. Spiragli nel suo cuore lasciavano intravedere piccole ma essenziali tracce dell’alterazione avvenuta.
− Tutto bene, Mr Kirkland? – domandò Toris, evidentemente spaventato da quelle parole. Intorno a loro, sul bus, nessuno si era accorto del loro discorso, poiché in altre faccende affaccendati, ma l’impressione era comunque che la coppia fosse al centro dei loro sguardi giudicanti. Sciocchezze, certo, ma Arthur non la pensava allo stesso modo e se in qualsiasi momento uno di quei passeggeri gli avesse puntato il dito contro urlando “Ehi, guardate chi è tornato! Sì, è proprio lui!” non ne sarebbe rimasto sorpreso. Sarebbe stata una punizione meritata per quell’atto sfacciato che era tornare sul suolo londinese dopo ciò che era successo. La parte di sé ancora legata alla vita precedente scalpitava, lo invocava di fermarsi prima che l’irreparabile avesse luogo e la via del ritorno gli fosse negata per sempre. Le Tenebre si erano insinuate nel regno dove non tramontava mai il sole.
Bentornato a casa.
Arthur si strinse il ponte tra i due occhi con l’indice e il pollice, sospirando pesantemente. Ancora quella dannata voce.
− Imploro, la tua indulgenza, Toris. La mia mente è nient’affatto serena. In queste strade, un tempo familiari, io avverto... Ombre.
− Ombre, dite?
− Spettri.
Il ragazzo rimase in silenzio, giocherellando con la cerniera della valigia che teneva tra le gambe. Si sentiva a disagio. Sapeva che il suo ospite era un tipo particolare, strano a volte, ma aveva sempre pensato fosse un tratto interessante del suo carattere. Non era arrivato al punto di voler disdire l’accordo che aveva con l’uomo, in cui in cambio di una somma mensile gli sarebbero stati offerti vitto e alloggio nella sua casa, ma vi era vicino. Forse, le case per studenti non erano così male... Scrollò la testa quando vide l’espressione sconsolata dell’altro, preda di un acuto senso di compassione. Doveva essere davvero difficile per lui tornare a casa dopo così tanto tempo. A proposito, come mai aveva lasciato la città? Come per rispondere alla sua muta domanda o forse per togliersi un peso che lo tormentava da tempo, Arthur ricominciò a parlare: in una cantilena malinconica, raccontò la sua storia.
− C’era una volta un giovane cuoco con il suo bel ristorante. Un povero idiota pieno di ambizioni. Il ristorante era la sua unica ragione di vita, ma evidentemente lui non era all’altezza di questo luogo, tanto era ingenuo da essere convinto di saper effettivamente cucinare. Come poteva solo pensare una cosa del genere? Solo perché la sua gente apparentemente apprezzava i suoi piatti? Illuso! Un altro uomo notò il bel ristorante, uno di quegli arroganti giudici culinari che si divertono a commentare i piatti altrui come se fossero rifiuti biologici. Un viscido smorfiosetto abituato all’arrosto di colibrì, che con la sua lingua biforcuta sentenziò il suo giudizio negativo sul lavoro del cuoco e poi non ci fu altro da fare che aspettare! Che tutto crollasse, che tutti scoprissero improvvisamente che quello che avevano mangiato per tanto tempo e apprezzato, dannazione!, non li soddisfacesse più. −
Fece una pausa. Voleva evitare il rischio di mettersi a urlare in mezzo alla gente, ciononostante avrebbe giurato che tra i volti presenti ce ne fossero anche di suoi ex-clienti ipocriti. Il piano stava funzionando: Toris aveva smesso di tormentare il bagaglio e lo guardava con la bocca aperta. Sporgeva con il torso verso il sedile dell’altro come per raccogliere le parole direttamente dalle sue labbra.
− E poi? Il ristorante ha dovuto chiudere?
Arthur abbassò il capo, cercando di nascondere la voce incrinata quando rispose: − Ѐ successo tanto tempo fa. Dubito che a qualcuno sia importato qualcosa allora, figuriamoci adesso.
Toris tornò composto sul suo sedile, emotivamente demoralizzato. L’eccitazione che lo aveva pervaso fino a pochi minuti prima era stata sostituita da un istintivo compatimento per quello che sarebbe diventato il suo ospite nel paese straniero. Come doveva aver sofferto! Chissà se quella ferita si era rimarginata oppure bruciava ancora?
Gettò di nuovo un’occhiata all’inglese e lo trovò a guardarlo con occhi stanchi, esausto dal peso di un passato schiacciante. Il messaggio muto che passava era uno e uno solo: “Perdonami”. Per cosa, ancora non era dato sapere. Ma il ragazzo era troppo buono per non rispondere positivamente. Stolto, forse. Come un bambino che tende la mano all’uomo nero, vedendo in lui ciò che la gente non riesce o non vuole riconoscere. Se fosse la scelta giusta, solo il tempo l’avrebbe detto.
Il bus cominciò a rallentare per una nuova fermata e Arthur fece segno di prepararsi per scendere. Erano giunti in una strada meno frequentata del centro vero e proprio, ma comunque il flusso di gente era apprezzabile. I marciapiedi umidi riflettevano la luce dei lampioni nelle pozzanghere, visibili fino in lontananza. Un bambino si divertiva a saltarci dentro, ridendo quando i cerchi gialli si spezzavano in piccole onde che si spostavano oltre i limiti della conca, allargandosi e schizzando qualche goccia di fanghiglia sulle scarpine da ginnastica bianche. Sua madre lo richiamò prima che riuscisse a insozzarle del tutto e lui dovette interrompere il gioco con suo sommo disappunto. Sorrise a Toris quando notò che il trolley della sua valigia lanciava anch’esso dei minuscoli schizzi quando inceppava nelle pozzanghere, ma non ebbe l’occasione di coinvolgerlo nell’attività perché la madre lo afferrò per il polso e lo trascinò via, tra strilli e piagnucolii. Toris gli fece ciao ciao con la mano libera, prima di girarsi verso Arthur. Quest’ultimo aveva recuperato un’espressione serena e lo guardava sorridente. Si avviarono lentamente verso la casa di Arthur, godendosi la brezza serale che accarezzava il loro volto ancora accaldato dall’interno del bus.
− Devo ringraziarti, Toris. Se non fosse stato per te, chissà dove sarei ora. – disse Arthur – Chissà, chissà, forse addirittura all’inferno tra i miei simili −. Scoppiò a ridere.
Toris scosse la testa e replicò, ignorando la sua macabra battuta: − Oh, non dica così! Avrebbe comunque trovato un’altra occasione per tornare. Sbrighiamoci ad arrivare a casa, piuttosto, vedo che è stanco quanto me.
 
Arrivarono dalla fermata del bus all’abitazione che il cielo andava scurendosi, lasciando posto a una notte serena. Nonostante l’abitazione fosse piuttosto appartata dalle altre, c’erano comunque un paio di lucerne all’esterno che aiutavano a sconfiggere il buio. La casa era una villetta protetta da un cancello chiuso da un lucchetto, oltre ad esso, tra le sbarre che terminavano appuntite, s’intravedeva un sentiero asfaltato che si stendeva tra la ghiaia più chiara. Toris non badò troppo quando Arthur tirò fuori una piccola chiave per consentire loro di entrare: avrebbe potuto anche aprire un varco spazio-temporale attraverso le sbarre di ferro e lui non se ne sarebbe curato, rimpiangeva il sonnellino che non si era concesso e tutto intorno a lui cominciava ad assumere le somiglianze di un sogno. Toris non smetteva di guardarsi intorno, cercando punti di riferimento sia dentro che fuori la dimora, continuando a sforzarsi per imprimere particolari nella mente; d’altronde, quella sarebbe stata casa sua per i mesi successivi e prima si fosse abituato meglio sarebbe stato. Forse a causa del sonno, la dimora gli sembrava una di quelle case nel bosco protetta da un incantesimo contro sguardi indiscreti. Da vicino aveva un aspetto molto più rassicurante che dalla strada, nonostante le ombre di alberi lì accanto formassero inquietanti forme sulle finestre e piante rampicanti avessero cominciato la loro conquista dei muri. Stavolta anche Toris percepì quel bisbiglio flebile, che si confondeva con i suoi pensieri annebbiati.
Bentornato a casa.
Ce n’è voluto di tempo, uh?
Rabbrividì. Liquidò all’istante la sensazione che ci fosse effettivamente qualcosa laggiù, incolpando l’allucinazione uditiva alla stanchezza. Dovette farlo. Non osò neppure domandare ad Arthur se avesse sentito anche lui quelle parole, forse perché, in fondo, aveva paura della sua risposta e in quel momento la sua mente era troppo indebolita per sentire storie dell’orrore, anche se tutto un tratto il sonno era scivolato via.
Arthur aiutò Toris a portare dentro i bagagli, nonostante le proteste di quest’ultimo che sosteneva di esserne capace da solo. Inutile, era sveglio sì, ma la forza fisica gli si era abbassata a livello ottantenne e Arthur lo sapeva. Alla fine l’uomo dovette togliergli la valigia dalle mani (era abbastanza ingombrante ma niente di esagerato) e portarlo con sé all’interno, con sollievo dell’altro che non si era ancora ripreso dalla strana voce sentita poco prima. Era come se avesse previsto tutto.
Arthur premette come per un riflesso automatico l’interruttore della luce, per un secondo il timore che avessero tolto l’elettricità gli invase il cervello ma subito fu confortato dalla lampadina che, seppure con uno sfarfallio, illuminò tutt’intorno.
L’impatto non fu terribile come pensava: le cose erano lì, tutte lì. L’ingresso era lo stesso come ricordava di averlo lasciato e così sarebbero state tutte le altre stanze, tutte identiche a come le aveva viste poche ore prima, quando aveva fatto il primo ritorno. Era stato come se avesse svolto tutto in trance: il rifornimento di alimentari in dispensa, il controllo dei servizi energetici che funzionassero, la pulizia della camera degli ospiti. Aveva avuto l’impressione che fosse stata un’altra persona a fare tutto questo e solo ora, con Toris, il vero sé fosse entrato nella casa, in un vortice di emozioni tale da fargli girare la testa.
L’occhio cadde sullo stampo di una cornice rimasto sulla parete dove era stato appesa e poi tolta. Ricordava che la cornice in questione conteneva una foto che lo ritraeva. Ricordava anche il sentimento di rabbia, disgusto e tristezza che aveva provato rimuovendo la foto. Era un suo ritratto vestito da chef, felice, mentre mostrava al fotografo una teglia di scones appena sfornati. Il fotografo aveva gentilmente declinato la proposta di assaggiarne uno. Ora sapeva il perché. Maledetto ipocrita, perché non mi hai detto sin da subito cosa pensassi davvero, io che ti offro il frutto dei miei sforzi e tu celi dietro alla tua gentilezza solo marcio e ingiuria...
− Mr Kirkland?
Toris l’aveva superato, la sua voce arrivava dal soggiorno poco più in là.
−  Perdonami, mi ero perso nei miei ricordi – tagliò corto l’altro quando lo raggiunse, − ora seguimi, ti mostro un po’ la casa e dov’è la tua camera. L’ho sistemata in modo che tu la possa utilizzare da subito. −
Il tour fu molto svelto, c’erano due piani: piano terra cucina, sala da pranzo e salotto e un minuscolo bagno con la lavatrice; piano superiore le due camere e un bagno più grande, con la doccia. Lo accompagnò nella sua stanza, gli indicò dove fosse il bagno dove poteva lavarsi e rinfrescarsi dopo il lungo viaggio e lo lasciò da solo che si arrangiasse. Lui invece si rintanò in cucina. Aveva un disperato bisogno di farsi una tazza di tè, dopo tutto lo stress accumulato in quella giornata che fino a quel momento se n’era rimasto nascosto ma ora lo stava buttando a terra. In dispensa erano accumulate minimo una ventina di varietà di miscele, separate in base ai gusti e al momento in cui erano più adatte.
Scelse un Pure Darjeeling Tea: mise a scaldare l’acqua a 95 gradi aiutandosi con un termometro, preparò la teiera in porcellana e vi aggiunse l’infusore con le foglie, dopodiché vi verso l’acqua bollente con una delicatezza infinita. Aveva impostato il timer d’infusione su quattro minuti. Quel rito aveva qualcosa di rilassante nel suo insieme, come ce lo hanno tutte le cose quotidiane che non stufano mai, non importa si eseguano ogni giorno da anni. Era grato a quella normalità ritrovata.
Decise che avrebbe bevuto nella sala da pranzo, Si servì il tè nella tazza preferita, un mug bianco decorato con una rosa, gratificato sia nella vista sia nel profumo delicato della bevanda cui non aveva aggiunto né zucchero né latte per non alterarne il sapore. Portò il tutto alle labbra, assaporando il silenzio che lo circondava, le palpebre serrate.
Non vide la piccola ombra che entrava.
− Mr Kirkland?
Arthur aprì un occhio: sulla porta stava affacciato Toris, indeciso se entrare o meno nella stanza. Era ancora vestito, non aveva neppure accennato ad andare a letto.
− Le dispiace se resto un po’ qui con lei, signore?
− Figurati. Siediti pure. – gli indicò la sedia al lato opposto del tavolo. Toris si abbandonò su di essa, appoggiando i gomiti sulla superficie legnosa del tavolo. Tirò un sospiro.
− Non riesco a dormire – confessò, arrossendo leggermente come se fosse una colpa.
− Posso capirlo, sei agitato al pensiero di dormire in un posto nuovo.
− Sì... deve essere così...
Toris non sembrava molto convinto. Arthur lo fissò con un occhio solo aperto, sorseggiò il suo tè e posò il mug, tornando a guardarlo come se stesse cercando di leggergli nella mente. Si schiarì la voce. – Ti va una tazza? Ѐ molto buono, ne ho fatto un po’ in più nel caso. Ti calmerebbe un po’.
− Molte grazie, ho proprio bisogno di qualcosa di caldo e dolce.
Arthur andò a recuperare un’altra tazza per il ragazzo. Era consapevole di cosa lo stesse tenendo sveglio, ma non aveva intenzione di parlarne ad alta voce: ci sono cose di cui è meglio non parlare, altrimenti si rischia di peggiorare la situazione. Parlare di certe cose con uno studente universitario, una persona che deve fare della razionalità se non del metodo scientifico il suo pane quotidiano, è da suicidi. Come avrebbe potuto spiegargli di cosa vedeva lui ogni giorno? Degli unicorni, del coniglietto verde alato, delle fate e via dicendo?
Lo avrebbe preso per matto.
O forse no?
Sapeva solo che in sua compagnia la voce aspra che si era infiltrata nel suo animo appariva più flebile. Come se il di lui barlume dell’innocenza potesse sconfiggere l’immensa oscurità dell’Odio, seppure quella forza benigna apparisse debole davanti a un simile mostro. Un alibi, ecco cos’era il ragazzo: niente di più. Glielo aveva raccomandato la voce di procurarsene uno, per non finire in guai seri una volta che...
Arthur tornò con la tazza e servì anche il giovane ospite. Silenzio, solo il suono fluido accompagnato dalle mosse posate dell’inglese, un rito quasi magico nel suo insieme mentre sollevava la teiera e ne faceva fuoriuscire il liquido ambrato ancora bollente.
Toris assaggiò il tè al naturale ma non sembrò gradirlo granché, poiché fece una piccola smorfia e agguantò la zuccheriera li accantò, scusandosi: − M-mi dispiace, non riesco a berlo così. –
Forse intimorito da quel silenzio innaturale, forse dall’occhiata di rimprovero dell’inglese nel vederlo alterare così il pregiato tè, cercò qualcosa di cui parlare per spezzare la tensione. Si guardò intorno e rimase stupito di notare solo ora di come fosse tutto straordinariamente in ordine, sebbene con un visibile strato di polvere sopra.
− Questa casa è davvero bella. Cioè, voglio dire... mi aspettavo fosse in uno stato pietoso dopo più di un anno di abbandono... davvero è tornato solo oggi?
Arthur annuì: − Ho solo controllato fosse tutto a posto. Durante la mia assenza l’avevo messa in affitto, così ci sono state altre famiglie che se ne sono presi cura al posto mio. La cosa un po’ triste era che restassero tutte per poco.
Toris per poco non si strozzò con il tè andato di traverso: – Come mai? −
Arthur ridacchiò. Si sporse leggermente oltre il tavolo, un sorriso misterioso sulle labbra.
− Molti credevano che questa casa fosse stregata – bisbigliò.
Toris spalancò gli occhi, le mani entrambe strette attorno alla tazza come se volesse romperla, il respiro azzerato.
Poi scoppiò a ridere.
− Stregata? Oh, ma andiamo! Dove siamo, in una puntata di Scooby-Doo?
Anche Arthur rise, anche se la sua risata suonò forzata: – Come dar loro torto? Questo posto ha molti anni sulle spalle. Forse lo spirito delle persone che hanno vissuto qui prima di me ha impregnato le mura, e ora l’intera casa ne è infestata... fatto sta che dopo due mesi al massimo levavano le tende. So che esiste questa diceria da prima che abbandonassi Londra. –
Sorrise dolcemente, gli occhi sognanti al ricordo. – I ragazzini dei quartieri vicini spesso utilizzavano questo posto nelle loro prove di coraggio: solitamente di notte o sera tardi, dovevano scavalcare il cancello, arrivare fino al portone e poi suonare il campanello o bussare, prima di scappare a nascondersi. Piuttosto patetica come cosa, no? E allora ho voluto aiutarli: per dimostrare il mio incredibile senso altruistico non solo li lasciavo scavalcare il cancello, ma tenevo anche socchiusa la porta perché potessero entrare. Anzi, ero così generoso che ho fatto anche di più, spendendo di tasca mia per comprare dei mostri finti, cd con rumori agghiaccianti e altre amenità. Poi bastava che chiudessi la porta principale a chiave e, zac! Avevano la prova di coraggio che tanto desideravano! –
Arthur sghignazzò al ricordo. − Ah, che bei tempi... c’erano volte in cui io stesso producevo i rumori o le voci demoniache per un effetto più realistico. Non puoi immaginare le loro facce quando accendevo la luce e loro, invece di scusarsi vedendo il padrone di casa, si mettevano a strillare cose come “Signore, signore, c’è un mostro qui, lo abbiamo visto!” e io li buttavo fuori di casa rispondendo che i mostri non esistono. Che dici, ragazzo, non è davvero strano che si sia diffusa la leggenda che questa casa fosse infestata?
− Davvero. – replicò Toris con un sorriso divertito. – Io non potrei mai spaventarmi per simili sciocchezze.
− Ah sì? E com’è che ne sei così sicuro?
− La realtà è quello che è e appare. I mostri, i fantasmi non fanno parte della realtà, non possono farti del male.
Arthur annuì, pensieroso. Avrebbe voluto aggiungere che ci sono cose più spaventose di quelle partorite dall’immaginazione, cose reali con l’aspetto di agnelli ma con il cuore di pietra. Gli venne in mente una persona che corrispondeva alla descrizione, ma prima di potervi accennare fu distratto da Toris che raccoglieva le tazze. Lo guardò interrogativo.
− Vado in cucina a lavarle, così non deve farlo lei – spiegò lui – Per toglierle il disturbo.
− A... aspetta! Prima che mi dimentichi, ti devo informare di una regola della casa.
− Uh? Sarebbe?
Arthur arrossì al pensiero che la cosa suonasse ridicola, però dai! Era o no il padrone lì? In ogni caso, questo paletto avrebbe potuto scongiurare molte conseguenze in futuro... e in quel momento non immaginava neppure quante. Non avrebbe mai potuto.
Forse, se avesse saputo prima cosa sarebbe successo, non sarebbe mai neppure tornato in quella casa, ma così è la vita e non sempre le scelte che si fanno sono le più felici.
La sua voce risultò ferma e decisa quando, fissando il ragazzo direttamente negli occhi, disse: − Ti chiedo di non andare mai, dico mai in cucina se non sotto il mio controllo. Devo esserci lì anch’io e vedere quello che combini. Non m’importa se ci vai per aprire il frigo e prenderti uno spuntino, o per sistemare le cibarie dopo la spesa: non ci vai da solo, per nessunissimo motivo. Sono stato chiaro? 
Toris restò un attimo interdetto, le tazze che ciondolavano appese alle dita a sottolineare la pausa nelle sue azioni. Certo, come richiesta era un po’ insolita... ma Kirkland era stato uno chef, giusto? Certe manie dovevano essergli rimaste attaccate, pensò.
− D’accordo, signore. Allora io lavo le tazze, lei si occuperà della teiera – rispose, alzando le spalle e riavvicinandosi alla porta della cucina.
Arthur, che si era aspettato una serie di domande inquisitorie o almeno un’opposizione, rimase vagamente stupito dalla tranquillità con cui l’altro aveva aderito alla sua pretesa. Forse il ragazzo era fin troppo manipolabile, meglio così, no? Un leggero senso di colpa lo punse al petto, ma lo scacciò subito. Bisognava ignorare qualsiasi distrazione che lo allontanasse dal piano, ogni ostacolo andava prontamente eliminato. Non poteva permettersi che sospettasse nulla.
Si avviarono entrambi in cucina, l’unico rumore che si sentiva era quello dei loro passi sulle piastrelle poiché nessuno dei due aprì più bocca.
Toris poteva essere sorpreso, perfino sconcertato dal comportamento bizzarro del suo ospite, ma l’idea che egli potesse avere una seconda vita, una di cui non sapeva nulla, non gli passò mai per la mente. Non in quel momento.
 
*  *  *
 
I giorni che seguirono furono decisamente vivaci. Toris dovette adeguarsi al ritmo frenetico della grande città e Arthur riprese posto dietro ai fornelli domestici. Non che ci stesse poi così tanto, però, perché Toris, dopo aver assaggiato uno dei suoi piatti, si era sempre offerto di aiutarlo anche nella sua postazione ed era così insistente che non se la sentiva di allontanarlo. Il ragazzo apprezzava quello che preparava l’inglese, ma doveva ancora “abituarsi a cibi diversi da quelli di casa”, o almeno così affermava.
Ogni tanto Arthur gli chiedeva se non lo stesse sfruttando troppo, ma quello rispondeva sempre con un sorriso che era un piacere dare una mano in casa. In pochissimo tempo l’abitazione riacquistò vita grazie al lavoro di entrambi.
Man mano che i giorni passavano la voce perdeva un po’ del suo potere, senza mai però sparire del tutto. Ricordava costantemente il piano e quanto fosse necessario che Arthur non si affezionasse troppo al giovane. L’inglese obbediva, ignorava la luce emanata dal ragazzetto e si rifugiava sempre più nell’oscurità, nonostante di tanto in tanto il vecchio sé cercasse di intromettersi. Era difficile resistere alla tentazione di mollare tutto, avrebbe sicuramente sciolto il macigno che portava dentro lasciarsi andare e dimenticare. Ricominciare da capo. Approfittare dell’occasione per iniziare una nuova vita.
Ma la luce del bene emanata da Toris era davvero troppo fragile per combattere contro tenebre ben più profonde di quanto un comune mortale potesse immaginare. Essa, però, continuava a brillare senza che il proprietario ne fosse cosciente e Arthur gliene era, sacrilegio!, grato.
− Sei una manna dal cielo. – ripeteva.
− Faccio quello che posso, signore. Finché non trovo un lavoro con cui pagarle l’affitto, questo mi pare il minimo. – rispondeva con modestia Toris, mentre curava il giardino o toglieva le ragnatele dal soffitto del soggiorno o preparava la colazione, sempre con un sorriso gentile sulle labbra. Non sembrava mai stanco.
Una sera, dopo l’ultima giornata di peripezie varie, anche il ragazzo cedette; sprofondò nel piccolo divano posto nel soggiorno, annunciando di essere sfinito. Arthur era appena tornato dal piccolo bagno, dopo essersi lavato le mani. Lo guardò, quasi sorpreso di vederlo così spossato, e sorrise intenerito.
− Ci credo, con tutto quello che abbiamo fatto oggi! Meriti di riposare, anzi: adesso ti preparo una cenetta squisita per premiarti.
− A-aspetti! L’aiuto io... – Toris tentò di alzarsi dal divano ma i suoi muscoli non erano d’accordo. Guardò supplichevole Arthur, in un messaggio silenzioso che doveva significare “No, tutto ma una cena preparata da lei no!”. Era troppo stanco per trovare qualcosa di più gentile per distoglierlo dalla cucina e non poteva utilizzare la scusa dell’aiuto ai fornelli per prepararsi da sé il pasto. Forse doveva rassegnarsi alla cena fatta dallo chef.
− Non sei nelle condizioni adatte, Toris. Però, adesso che mi ci fai pensare... – Arthur posò l’indice sul labbro. Toris tornò speranzoso. Un’ombra scura calò sul volto dell’inglese, ma si sforzò lo stesso di sorridere.
− ... sai, neppure io ho tanta voglia di cucinare. Che dici se prendo qualcosa d’asporto? Non mi sembra che ti vada neppure di uscire, giusto?
Toris scosse la testa. Aveva caldo, sentiva la testa pulsare, ciocche di capelli si erano appiccicate sulla fronte e guance sudaticci. Non era proprio al massimo.
− Allora tu sta qua, riposati prima di beccarti la febbre che io vado. Torno tra circa mezz’ora.
− Sissignore.
Toris chiuse gli occhi, il respiro si acquietò poco a poco. Arthur lo guardò addormentarsi, il viso di pietra. Da quando era tornato egli non aveva mai accennato a uscire per mangiare fuori, principalmente a causa della mole di lavoro che aveva tenuto occupati entrambi.
Ora però non poteva più rimandare. Stava per compiere qualcosa di più rilevante delle faccende domestiche, qualcosa di legato saldamente al suo passato che lo riempiva di angoscia; prima tappa era stato rincasare a Londra.
La seconda sarebbe stato tornare in Fleet Street.
Infilò la giacca verde, mani in tasca, testa china e uscì, il cuore che batteva impazzito, diretto verso l’ignoto. O quasi.
 
*  *  *
 
Se lo era immaginato più volte ma vederlo di persona lo scosse ugualmente.
Aveva appena girato l’angolo che l’evidenza gli era stata schiaffata in faccia, senza se e senza ma, come un cerotto tolto in un colpo solo: il suo vecchio ristorante era stato deturpato. Imbambolato, Arthur squadrò da cima in fondo la sua facciata che non era cambiata poi molto e nello stesso tempo si era trasformata. Trattenne un conato mascherato da singhiozzo.
Da luogo dove gustare piatti squisitamente inglesi, il locale era divenuto una versione tarocca del McDonald. L’insegna non era più la splendida, classica “Arthur’s kitchen”, eleganti caratteri giallo chiaro su uno sfondo in legno; al suo posto vi era una pacchiana scritta formata da tubi al neon colorati che si accendevano e spegnevano a intermittenza, visibili anche attraverso la più fitta delle nebbie londinesi: “THE EAGLE”. L’aquila. Nella mente malata del nuovo proprietario quella parola doveva esprimere l’essenza intrinseca del locale, ma il nome ricordava più una discoteca anni ’80 che un fast-food.
Ridicolo, semplicemente ridicolo.
Nonostante il ribrezzo istintivo, Arthur non riuscì a trattenere la curiosità e si avvicinò, ripetendo a se stesso che nessuno lo obbligava a restare lì e che la sua era una scelta consapevole. C’erano vari locali aperti a quell’ora che gli avrebbero servito volentieri due porzioni d’asporto, locali che non portavano nomi di bestie alate o terrestri, eppure una forza invisibile lo spinse lì ugualmente. Aveva rimandato fin troppo quella decisione.
Il secondo shock avvenne quando osò sbirciare attraverso il vetro delle ampie finestre, l’unica cosa rimasta al suo posto. No, quello non poteva essere il luogo che aveva lasciato a malincuore. “Ѐ uno scherzo?” pensò.
Entrò cautamente, facendo trillare un campanello posto sullo stipite.
Era tutto dannatamente reale: le luci accese illuminavano tavoli e sedie di alluminio e divanetti in finta pelle; appesi alla parete c’erano enormi poster di supereroi dei fumetti, giocatori di baseball e football, cantanti anni ‘60 e vari logo, tra cui ne riconobbe solo uno gigante della Coca Cola. In fondo alla sala troneggiava un lungo bancone attorniato da seggiole colorate, che terminava con la cassa dove, però, non c’era nessuno ad accoglierlo. Il locale era completamente deserto.
Posò la punta delle dita su una seggiola con il sedile arancio fluo. Mentre accarezzava quell’arredamento di dubbio gusto, domandandosi dove fossero finiti i mobili che c’erano prima e maledicendo tra sé chiunque avesse osato alterare così il suo nido, una voce allegra lo fece sobbalzare: − Hello!
Alzò lo sguardo fingendo di stare rimuovendo un granello di polvere. Dall’altra parte del balcone lo osservava sorridente un giovane uomo con un paio di occhiali che facevano da contorno a due vispi occhietti azzurri. “Allora sarebbe lui l’artefice di tutto questo?” pensò esterrefatto Arthur. Non aveva mai incontrato di persona il nuovo proprietario, sapeva solo che fosse americano. Pensava sarebbe stato troppo doloroso e ora rimpiangeva la sua scelta. Retrocesse istintivamente verso la porta da dove era entrato, ma era troppo tardi. 
− Un cliente! Fermo, perché tanta fretta? Mi avete spaventato, la credevo un fantasma. Sedetevi, un attimo solo, non vedevo un cliente da settimane! Ѐ qui per mangiare un hamburger? Mi perdoni se ho la testa un po’ altrove. Che bello, questi inglesi di solito sono troppo fighetti per venire qua, l’Inghilterra è la madrepatria degli snob. – Il ragazzo uscì irruentemente dal balcone e in un lampo lo raggiunse. Lo prese con forza per un braccio e lo fece sedere su una sedia che traballò sotto il suo peso, mentre lui ritornava alla sua postazione. Arthur lo fissò con uno sopracciglio alzato, cercando di raccapezzarsi.
– Sembrerebbe che abbiamo la peste da come la gente continua a evitarci, ma qui non entra nessuno, neanche a dare un’annusata. Allora, vuole un sorso di Cola? Mi creda, li biasimo. Questi sono probabilmente i migliori hamburger di Londra! E allora perché nessuno li compra? Del resto sono io che li preparo. Sono buoni? Sì! I migliori hamburger di Londra! E non è neanche un giudizio generoso, se non ci crede dia un morso. Cosa le porto? – esclamò il ragazzo con entusiasmo sopra le righe. Arthur sentì il sangue salirgli alla testa mentre decodificava quella raffica di parole e ne coglieva il poco velato insulto rivolto alla sua gente. Riuscì, però, in qualche modo a mantenere la calma e non mollare un cazzotto in faccia a quello spudorato: era un gentleman, dopotutto, altro che snob.
Si schiarì la voce, facendo una fulminea carrellata con lo sguardo lungo la lista di panini illustrati sul muro, splendide bombe di calorie e grassi saturi. – Salve. Vorrei due menù da portar via, più una lattina di Coca. Anzi no, due lattine... uhm, Toris ha detto di aver fame, magari gli porto un menù sostanzioso... –
Studiò più attentamente le foto e si sentì mancare. Dio, quanta roba. Sentiva di poter diventare obeso con il solo contatto visivo. Il giovane seguì i suoi occhi e sorrise soddisfatto: − Abbiamo l’imbarazzo della scelta, qui. Ha già qualcosa in mente?
− Pensavo a qualcosa di semp-
− Ho questo che le consiglio – e indicò una foto in particolare, raffigurante un allettante panino iperfarcito di hamburger, prosciutto, formaggio, funghi e salse.
– Si chiama “Supreme”. Una squisitezza!
Arthur impallidì e si schiarì la voce. Forse l’altro non aveva sentito bene. − Ehm, il “Supreme” dice? N-non fa per me, sorry.
− Ah, capisco... beh, allora quello con salsiccia, bacon, angus,  pomodoro, crauti, cipolla, peperoni e patatine? Come si chiama... il “Monster”? Eh? Non le viene l’acquolina in bocca? − Il ragazzo fece il gesto di massaggiarsi la pancia.
− Lasci perdere. Non fa per me... per noi.
Il ragazzo sembrò deluso.
− Ok... allora punto sul light. Doppio cheeseburger con cheddar, bacon croccante, fettina di pomodoro e fogliolina d’insalata? Le verdure sono importanti.
− Neanche. Oh, ma insomma!
Arthur era confuso e irritato: c’erano più di trenta tipi di piatti elencati sul menù attaccato alla parete, per non parlare di quelli stampati sul menù cartaceo. Possibile che tra questi non avessero niente di quello che volesse lui? Qualcosa con meno di ottomila calorie a morso, possibilmente. Decise di ritentare.
− Potrebbe farmi un paio di porzioni di “fish&chips”? Una con molto aceto, grazie.
Il ragazzo da deluso divenne letteralmente furente, ma la sua posizione non gli consentiva di manifestarlo in maniera esplicita. Non che non si notasse il suo mugugno a denti stretti quando rispose: − Non si fanno “fish&chips” qui. Si fanno hamburger. Prendere o lasciare.
Arthur aggrottò le sopracciglia: − E allora vada per degli hamburger. Normali, però, non quei cosi enormi, mi raccomando. Ne faccia due, patatine a parte.
− Certo, certo – ringhiò l’altro. Ma che aveva da essere così scorbutico? Il cliente non aveva sempre ragione? Il ragazzo sparì in cucina lasciandone aperta la porta, abbandonando Arthur in compagnia di quell’ambiente così pieno di ricordi e allo stesso tempo così estraneo. Chissà quanto ci era voluto per trasformarlo, per sostituire il mobilio classico con quello moderno, per personalizzare tutto e dare un’impronta nuova al tutto. L’attenzione tornò ai panini del menù: anche per escogitare certe ricette così complesse probabilmente erano stati impiegati tempo e fatica. Vuoi vedere che il mocciosetto s’era offeso perché non aveva onorato i suoi sforzi? In effetti anche quando lui stesso lavorava come cuoco era molto suscettibile riguardo alla questione, tanto che diventò il motivo per cui si trovò senza ristorante e una fedina macchiata. Si sentì un pochino in colpa.
− Comunque, anche se non prendo nessuno di quei cosi, le rendo merito per la fantasia – disse ad alta voce, quasi senza pensarci. Dalla porta girevole sbucò fuori la testolina bionda.
− Dice sul serio? – domandò. Accidenti, l’aveva sentito?!
− ...ugh. Sì, dai, anche se non so chi prenda simili panini in questo quartiere. Non ci sono molti giovani dallo stomaco forte, qui, è più che altro abitato da avvocati e giudici. L’ho scoperto quando anch’io lavoravo come cuoco.
− Me ne sono accorto, signore −. Il nuovo proprietario, un filo imbarazzato, spiegò: − Vede, non abbiamo... non sempre ho abbastanza clientela per permettermi tutti gli ingredienti di questi panini. E nonostante abbia il necessario, rischiano di andare a male perché i pochi clienti che vengono qui non prendono nulla di speciale. Ah, signore, sono tempi duri! Chissà se uscirò mai da questa fase... – Il ragazzo s’illuminò. – Ehi, ma anche lei è del mestiere! Ha qualche consiglio per me?
− Mollare questo lavoro se non lo si sa fare, lasciandolo a chi è più competente, sarebbe una buona scelta. Su, torni in cucina che avrei fame. – tagliò corto l’altro. − Devo tornare presto a casa, anche un santo come Toris si potrebbe domandare se mi sia perso per strada andando a prendere la cena.
Il ragazzo sbuffò e obbedì controvoglia. Nonostante il tono brusco della risposta, Arthur era rimasto talmente spiazzato che non poté far altro che scrollare la testa. Cavoli, il moccioso era messo così male? La situazione gli ricordava gli ultimi giorni di vita dell’Arthur’s Kitchen, con la differenza che quel tizio non sembrava così preoccupato, anzi, continuava a sorridere come se il locale fosse stato colmo. Mentre lo sentiva grigliare i due hamburger e friggere le patatine nella cucina adiacente, provò a indagare su di lui.
– Ѐ da tanto che lavora qua? – domandò, simulando noncuranza.
− Da quando ho acquistato il locale, più o meno dieci mesi fa. L’ho un po’ rinnovato, prima era una specie di tavola calda.
− Non... non era un ristorante questo? Anche abbastanza di classe, se vogliamo aggiungere...
− Tavola calda, ristorante, fatto sta che il proprietario ha fallito e ha dovuto vendere tutto. Dicono che sia pure scappato dalla città per la vergogna. Poveraccio!
− E sa anche per quale motivo abbia chiuso?
La voce del ragazzo si abbassò improvvisamente, rendendosi quasi inudibile da oltre la porta: − Ѐ stata per colpa di quel critico culinario di cui tutti hanno timore. Ha presente, quel tipo di persona che riesce a farti avere successo o farti andare in rovina solo scrivendo una recensione su quei stupidi giornaletti per la gente in. Ѐ venuto nel ristorante che c’era prima, non gli è piaciuto e...
− E...?
Il ragazzo si allontanò un attimo dal cibo sfrigolante e tornò dietro il bancone. Avvicinò il volto a quello di Arthur, tanto che questi arretrò leggermente. Il suo tono era basso, come quello di un cospiratore.
− Dicono che i due abbiano litigato di brutto. Alcuni dicono che stessero per venire alle mani ma ci sono alcuni che sono sicuri di aver veramente visto volare qualche cazzotto, o peggio addirittura. I giornali hanno ingigantito non poco la faccenda, ho letto gli articoli, uno scandalo in piena regola. Quell’uomo... Kirkland, credo si chiamasse, non accettava il giudizio del critico. Capirà, quest’altro è subito andato a scriverlo sulla sua rivista e pochi giorni dopo, puff! Chiusa la baracca!
Per enfatizzare il suo discorso allargò le braccia, compreso quello che impugnava la paletta, facendo schizzare un po’di unto sul pavimento. Il suo sguardo infiammato si dissolse in un’espressione di rammarico: − Credo però che il motivo per cui abbia chiuso è perché è dovuta intervenire la polizia, tanto è stato il casino. Quel critico stava per recensire anche me una volta, ma avevo aperto da poco, quindi mi ha detto che sarebbe ripassato. Ho un po’ paura di cosa possa scrivere su di me, ma dubito possa andarmi peggio che a quell’altro.
Arthur tremava. Si alzò dal suo posto e si avvicinò fino ad appoggiarsi al bancone.
– Quando ha detto che sarebbe venuto qui? – disse, con le guance arrossate e gli occhi verdi diventati improvvisamente più grandi. L’altro ci pensò un po’ su.
− Vediamo... è stato circa sei mesi fa. Ha detto “Tra un anno, Alfred, tieniti pronto!” e si è messo a ridere. Non so se fosse divertito dal fatto che, probabilmente, avrebbe fatto chiudere due volte lo stesso locale ma io l’ho comunque rassicurato che non avrei fatto la stessa fine del proprietario precedente, allora lui ha detto “Sarebbe difficile ripetere un simile disastro!” e ha riso di nuovo. Ha una risata strana, ricorda un caval-
− NOOO! QUELL’IDIOTA! −. Arthur sbatté una mano sul bancone, facendo sobbalzare Alfred. Nei suoi occhi vibrava una fiamma viva, le labbra tremavano. – Quell’imbecille non aveva diritto di dire certe cose! E per di più si è messo a RIDERE DI ME! Ah, ma se prova a rimettere piede sul suolo di questa parte della città, giuro che gli strappo tutti i peli della barba!
Alfred lo guardò per qualche secondo, ammutolito. Poi capì tutto.
− Aspetta, aspetta... Non sarà mica lei quel Kirkland?! – domandò con un filo di voce.
Arthur si lasciò cadere su una seggiola verde acido lì accanto. Annuì mestamente, senza avere il coraggio di alzare gli occhi e incontrare lo sguardo incredulo di quel ragazzo. Cosa gli era saltato in mente, lasciarsi scoprire così, come uno sciocco?
Il silenzio lo costrinse comunque a sollevare il volto: lo conosceva da appena un quarto d’ora ma era sicuro che Alfred non fosse il tipo da rimanere spesso a corto di parole. Lo ritrovò con gli occhioni azzurri spalancati, ma la sua espressione non era né di timore né di disapprovazione. Brillava in essi invece una certa eccitazione, come se gli avesse rivelato di essere una spia in incognito.
− Lei è davvero... Arthur Kirkland? Wow!
Wow?
− Ehi, se me lo diceva subito...  no, non ci avrei creduto lo stesso. Ha troppo l’aria da vecchio signorotto rachitico. Com’è possibile che uno come lei sia andato in escandescenze in quel modo? Avrei giurato che l’offesa massima per lei fosse schiaffeggiare qualcuno con un guanto bianco e sfidarlo a duello. Sul serio ha alzato le mani? − Scrollava la testa, scettico.
Arthur era veramente sul punto di scavalcare il bancone e fargliela vedere a quello sbruffone, ma si trattenne, seppure con immane fatica. – Se proprio non ci credi, posso mostrartelo ora – sibilò fra i denti. Alfred ghignò, soddisfatto. Evidentemente traeva una gran soddisfazione nell’infastidirlo. Come Francis, d’altronde.
Anche quel ghigno, però, si spense quando entrambi si accorsero della puzza di bruciato proveniente dalla griglia, mentre un allarme suonava a intervalli regolari.
− Gli hamburgeeer! Cavolo, me ne ero dimenticato!
Troppo tardi. Erano andati, carbonizzati su un lato e crudi dall’altro, immangiabili. Le patatine, invece, si riuscirono a salvare.
− Cazzo – sbottò Alfred restando fermo sulla porta della cucina, esibendo i due “cadaveri” in bilico su una spatola. – Mi dispiace un casino, ero tutto preso dalla storia e non mi sono accorto che qua la roba andava avanti a cucinare. Manco il timer ho sentito, mannaggia! −. Tornò alla sua postazione. – Le offro gli altri due hamburger gratis per il disturbo, ok?
Arthur agitò la mano davanti al volto.
− Ma si figuri, non ce n’è bisogno. Piuttosto, come ex proprietario, posso farle qualche altra domanda? Non so molto di lei, se non che ha acquistato il locale per ridurlo a una bettola... volevo dire, un fast-food, come ce ne sono tanti in giro.
Alfred se offeso dalla definizione di “bettola” non lo diede a vedere. Il suo tono quando rispose, però, non risultò entusiasta come prima.
− Prima di tutto, questo non è un fast-food come tanti. Ѐ il mio. Ѐ solo questione di tempo prima che faccia furore in questo paese, non c’è alcun dubbio a riguardo. Io vengo dagli USA, di certe cose ce ne intendiamo! Per l’appunto, sono arrivato all’incirca l’anno scorso in Inghilterra. Non so perché abbia deciso di venir qua, forse sentivo che era il mio destino preparare squisiti panini per il vecchio continente. Oh beh. Ci sono miei coetanei che lavorano al McDonald, io invece sono in proprio! Sono un self-made man, l’eroe del sogno americano! −
Scoppiò in una vivace risata. Il suono riempì l’ambiente, saturandolo al punto che sembrò non ci fosse più posto se non per esso. “Perché fa così? Ѐ impazzito?” pensò Arthur.
Non riusciva a capire. Quel ragazzetto era venuto da oltre oceano con la speranza di sfondare, si era trovato a tirare avanti un locale in cui entrava un cliente ogni morte di Papa e comunque si metteva a ridere? Alfred era così bizzarro. Forse era proprio questa caratteristica che non lo aveva fatto mollare e dopo mesi probabilmente durissimi ancora resisteva con il sorriso sulle labbra e l’autostima a mille. In fin dei conti non era malaccio. Arthur provò un certo orgoglio nel vedere che fosse stato qualcuno di così tenace a occupare il suo posto; forse questa volta sarebbe riuscito a fargliela a vedere al mangia-lumache...
Un brivido lo scosse, quando l’idea assurda apparve per la prima volta nella sua mente.
No, non poteva farlo.
O forse sì? Chissà. Prima di metterla in pratica ci avrebbe dormito sopra: era un progetto troppo azzardato per metterne subito al corrente anche Alfred. Però, magari...
− Ehi.
− Sì? – rispose l’altro dalla cucina.
− Non è che le serve aiuto per gestire l’Eagle?
Dall’altra stanza arrivò una sonora risata di scherno.
− Perché mai? Ho pochissimi clienti che posso gestire tranquillamente da solo.
− Appunto perché ha pochi clienti. Non è che magari il motivo è che non sa gestire un locale?
L’americano si allontanò per la seconda volta dai fornelli, stavolta con un’espressione poco rassicurante sul volto.
− Vorrebbe forse insinuare che sono un incapace?
Arthur balzò all’indietro, intimorito da quel repentino cambio d’umore. Avrebbe dovuto stare più attento con le parole. Si morse la lingua.
− Certo che no! Quello che voglio dire è... – fece una pausa, indeciso se continuare o meno – Quello che voglio dire è che se avesse bisogno di qualcuno con più esperienza, non che lei non sia stato bravissimo fino ad adesso, eh!, io sarei disponibile.
Alfred tornò calmo, fissandolo diretto negli occhi. Un ghigno arricciò le sue labbra.
 – Guardi che ho capito.
− Cos’avrebbe capito?!
− Ho capito il suo piano. Lei vuole rubarmi il posto. S’infiltra qui, impara le mie ricette e dopo un po’apre un nuovo locale tutto suo con i miei piatti. Non mi frega, sa? Nel mio paese esiste un reality che si chiama “Mistery Dinners” dove quelli come lei li sgamano subito: piazzano un sacco di telecamere e, dopo averli colti sul fatto, li acciuffano e per loro non c’è quasi mai più futuro nel campo della ristorazione. Quindi occhio!
− C-cosa?! Che le salta in mente? Non ho la minima intenzione di imbrogliarla! In realtà... – Arthur si bloccò di nuovo, accorgendosi con orrore che cominciava a perdere il controllo delle sue emozioni – ...a me manca questo posto. Mi manca cucinare. Hai idea di cosa significhi girovagare per il Paese senza sapere che fine ha fatto il luogo cui hai dedicato anima e corpo? Senza sapere se ci tornerai mai, perché la vergogna ti tiene lontano? Hai idea di cosa vuol dire sentirti rivelare che il tuo unico talento probabilmente non è che una grande menzogna? Anzi, senza il “probabilmente”. Francis ha detto chiaramente che il mio cibo era orribile. Non ho intenzione di dar credito a un simile essere ma questa cosa mi ha fatto molto male. Io sono bravo a cucinare, lo so. Ѐ lui che non l’ha capito! Lui che ha sbagliato! −. Stavolta un paio di lacrime erano riuscite a sfuggire al suo controllo e gli avevano inumidito gli occhi, la voce diventata roca graffiava nella sua gola. Il petto si alzava e si abbassava a intervalli irregolari, come un mantice che esalava aria infuocata. Fece fatica a riconquistare un minimo di sangue freddo. Si pulì il viso in fiamme con una salvietta presa da un tavolino vicino, ridacchiando nervosamente: − Devo essere un disastro, eh?
Alfred annuì, allungandogli un panno carta. Fatto questo, si dileguò in cucina a recuperare il cibo prima che andasse di nuovo bruciato.
Arthur era preda dell’imbarazzo: si era lasciato andare così, senza pudore e ora se ne pentiva amaramente. Ma come gli era saltato in mente? Avrebbe dovuto trattenersi, come aveva fatto sempre più spesso negli ultimi tempi. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e non si stupì di vedere incisi sui palmi gli stampi delle unghie: la rabbia esplosiva che covava fin dal giorno fatidico premeva ancora forte sottopelle, era magma che aspetta di inondare le pendici di un vulcano. Sarebbe dovuto andare via subito, fuggire da quel luogo pieno di ricordi ora occupato da uno sconosciuto. Scappare prima che fosse troppo tardi, prima che quel ragazzo si convincesse quanto patetico lui fosse, non poteva fare una figura simile, doveva evitare il peggio anche se forse il peggio era già avvenuto. In alternativa poteva ucciderlo e nascondere il cadavere, così non ci sarebbero stati testimoni. Era un’idea valida.
Che cosa strana, però: se con Toris aveva esternato il suo tormento per irretirlo, stavolta le parole erano uscite come un fiume di spilli dalla sua gola, partendo direttamente dallo squarcio dentro il cuore. Era come se avesse azionato un interruttore e le difese si fossero di colpo abbassate.
Notò un’altra cosa, ancora più bizzarra: in quel locale la voce maligna che bisbigliava sempre nella sua testa, che lo aveva consigliato sulle mosse da eseguire per portare a termine il piano, si era zittita. La risata prorompente del moccioso l’aveva soffocata togliendole lo spazio vitale dove agire.
Il rumore dei passi interruppe il corso dei suoi pensieri: Alfred era tornato con i panini, stavolta ben cotti e sistemati dentro a due scatoline insieme alle patate e a delle monoporzioni di ketchup e maionese. Si sentì morire.
− Scusami per la scenata che ho fatto. Giuro, non so che mi sia preso – si giustificò.
Alfred annuì, assorto nell’erogazione dello scontrino.
− Figurati. Dude,finalmente hai perso quell’aria da damerino inglese e hai cominciato a rivolgerti a me normalmente, senza il “lei”! Non sono ancora abituato a certe formalità coi clienti e non mi aspetto che loro le usino con me. Cavoli, però, devi avercela proprio a morte con quel tipo! −. Ridacchiò. – Ti sei arrabbiato in un modo tale che ho pensato ti saresti trasformato in Hulk con le sopracciglia folte. Sarebbe stato divertente. Ehi, dimenticavo, sono ventisette sterline e ottantotto pence, prego –
Arthur tirò fuori i soldi, borbottando piano. Da una parte si sentiva sollevato, dall’altra ancora il sapore amaro del rancore lo tormentava. E poi, quasi trenta sterline per due menù con patatine? Che prezzi folli c’erano lì?
L’altro sembrò notare il suo disappunto e gli porse lo scontrino, quasi offeso. Arthur lo controllò: lattine di Coca 3,68£, le patatine 1,84£, quattro hamburger 22,36£...
− Ehi, perché mi hai contato quattro hamburger? Sono due! – protestò.
− Sì, ma ci sono quelli che ho buttato. Quattro in tutto.
− Avevi detto che me li offrivi, dal momento che è stata colpa tua se sono andati in malora!
− E tu mi hai detto “Si figuri, non c’è ne bisogno”, perciò li paghi.
Alfred aveva il talento innato di far saltare i nervi. Arthur tirò fuori di malavoglia le undici sterline e diciotto e li lanciò sul bancone, dove furono subito presi e messi in sicuro in cassa. – Ladro che non sei altro... – sibilò. L’altro per tutta risposta rise.
− Prendilo come un prestito, Kirkland. Ti verrà restituito con gli interessi quando prenderai il primo stipendio.
Arthur lo fissò con gli occhi spalancati. − Come? Stipendio?
− Eh già! Sei assunto! Da domani puoi venire a lavorare di nuovo qui, con me, non sei contento?
Arthur spalancò la bocca, esterrefatto. Cosa diavolo stava dicendo? Aveva preso una tale decisione così, su due piedi? Che razza di bambino impulsivo era quel tipo?
− Ma... insomma... – non trovò neppure le parole poiché le emozioni si accavallavano troppo veloci nella sua mente.
− Hai già un lavoro? Perché se non ce l’hai dovresti trovartelo in fretta, qua nessuno ti regala niente e i soldi se non ce li hai sei finito. − fece Alfred con l’aria di chi sa già tutto prima di sentire la risposta.
− Sono disoccupato, effettivamente, ma non ho problemi di denaro. Non ancora, per lo meno... Ma assumermi così, dalla sera alla mattina, mi pare un po’ azzardato!
− Allora è deciso! Domani torni qua e ne parliamo con più calma, ok? Farai un periodo di prova, ma tanto ho già stabilito tutto, quindi non cambia −. Gli fece un occhiolino sornione.
− Parola di Alfred F. Jones, e se lo dico io puoi contarci! Ah ah ah! −
Sì, quel moccioso decisamente sapeva come innervosire il prossimo, ma per quella volta Arthur lo avrebbe perdonato; diciamo che non sapeva se strozzarlo o abbracciarlo per la gratitudine.
Prese il sacchetto e ci inserì i panini, un gesto con le mani che tremavano tanto era inquieto e rischiò di rovesciare il contenuto delle scatoline. Alfred fu costretto ad aiutarlo, prima che combinasse un macello. Quando arrivò alla porta e l’aprì, facendo trillare il campanello, Arthur si girò verso il bancone come per avere la conferma definitiva. Alfred alzò il pollice nella sua direzione, strizzandogli l’occhio.
Era fatta, era fatta davvero.
Fu così che alle otto di sera Kirkland uscì dal The Eagle con la cena e un nuovo lavoro nel suo vecchio locale. Più ci pensava e più ne era elettrizzato, nonostante all’inizio non volesse ammetterlo: era la sua occasione per vendicarsi e non ce ne sarebbero state altre.
Probabilmente non era stato un caso, probabilmente (anzi, sicuramente!) era tutto già predisposto nel piano e anche Alfred era una pedina preposta al solo scopo della sua realizzazione. Era la sola spiegazione logica a un evento così fortuito: doveva essere tutta opera sua.
– Mmmhhhahahaha! Preparati, Bonnefoy... – rise tra sé, tirando fuori dal portafogli un articolo di  giornale ormai spiegazzato dall’usura e osservando dolorosamente la foto raffigurata. Ogni volta che la guardava una fitta lo colpiva al cuore, ricordi di tempi migliori in cui mai si sarebbe sognato di arrivare a tanto gli instillavano dubbi pungenti. Perché doveva andare a finire così? Il sapore salato delle lacrime e l'amaro della bile si mescolarono sulla sua lingua.
NO! Una decisione era stata presa. Non sarebbe tornato indietro, aveva oltrepassato il limite e ora si trovava avvolto dalle calde tenebre della vendetta. I patti con il Diavolo non si sciolgono così facilmente.
– Questa volta i miei piatti saranno buoni da morire – sussurrò.
 
*  *  *

Tornato a casa trovò Toris addormentato sul divano davanti alla tivù spenta. La testa era caduta sulla spalla sinistra e le mani posate in grembo gli davano l’aspetto di una bambola abbandonata. Arthur quasi si era dimenticato di avere un inquilino, tanto il ritorno nel passato lo aveva preso nel profondo, facendogli scordare che non era più da solo. Guardandolo così quieto, così diverso dal moccioso che gli aveva fatto saltare i nervi poco prima, gli si strinse il cuore. Lo svegliò scuotendolo leggermente e gli piazzò davanti il panino e le patatine quando ancora non aveva aperto completamente le palpebre.
– Oh, ha preso qualcosa di buono? – domandò il ragazzo, stropicciandosi gli occhi. Sorrise incerto quando vide il contenuto dei pacchetti, non perché non gli andasse il cibo, ma perché incuriosito dall’inglese: gli occhi dell’uomo brillavano in un modo assai bizzarro.
− Ho comprato tutto al fast-food che ha sostituito il mio ristorante – annunciò Arthur aprendo le lattine sul tavolo da pranzo, Toris seduto al suo posto in procinto di assaggiare la cena. – Dimmi se ti piace, così posso andare a dirglielo al proprietario.
Toris per poco non si soffocò con il primo morso, tentando di rispondere con la bocca piena. Allora era per questo che era così felice! Era tornato al suo vecchio posto  di lavoro. Beh, in ogni caso il cibo era buono, sì, ma non tutto questo granché: un semplice hamburger acquistabile in qualsiasi McDonald con delle patatine strafritte. L’altro invece sembrava sinceramente apprezzarlo ma non c’era da fidarsi delle sue preferenze in fatto di cibo... Non voleva negare che l’inglese fosse colmo di ottime qualità, ma non riusciva neppure a distinguere un anello di cipolla fritto da un peperone.
Il lato positivo erano le dimensioni decisamente apprezzabili del panino: avevano tenuto in conto che con quel coso, in teoria, bisognava farci un pasto intero e non sporcarsi semplicemente lo stomaco. Appena ebbe ingoiato metà del boccone aprì la bocca per riferirlo, ma Arthur lo anticipò sul tempo: − Non fa mica parte delle solite catene. Lo gestisce un ragazzo giovane ma molto intraprendente, si chiama Alfred, avrà forse la tua età. Poveraccio, non ha quasi clienti ma non importa perché da domani lavorerò con lui e forse con la guida di un esperto riuscirà a risollevarsi. −
Per la seconda volta Toris rischiò di strozzarsi, stavolta perché si voleva complimentare con l’amico. Buttò giù un sorso di Coca cola. – Sono davvero contento per lei – farfugliò tra i colpi di tosse.
− Grazie, grazie. Ehi, come diavolo fai a bere questa roba? Non so cosa darei per una Ale – Arthur fece una smorfia, allontanando da sé la lattina da cui aveva appena bevuto. Aveva sempre detestato la Coca cola ma aveva pensato che, dopo tanti anni, potesse aver cambiato gusti. Invece no.
− Forse ne è rimasta una bottiglia nel frigo in cucina, signore. – accennò Toris, intingendo una patatina nel ketchup. Arthur si alzò dal suo posto, lasciando tre quarti della cena sul piatto e si avviò verso la sua “tana”. Toris lo ignorò continuando a servirsi di patatine. Si era abituato che ogni tanto l’uomo sparisse in cucina, anche senza una motivazione precisa.
Superata la porta e lasciato il mondo fuori, Arthur si passò la mano sul volto in segno di disapprovazione. Quel ragazzo sembrava non intuire di nulla: era davvero così ingenuo? O forse era il suo comportamento ad essere convincente, le sue paranoie inutili? Beh, almeno non avrebbe sospettato di lui facilmente in futuro.
Rise tra sé, il solito senso di colpa ancora lieve che gli pungeva nel petto, mentre nella mano tintinnò un oggetto ben più prezioso di qualsiasi gioiello presente in casa. Quando sentì che al di là della porta, in salotto, Toris aveva acceso la tivù, si permise di ridere più forte. Rise tanto da provare un lancinante dolore all’addome ma non importava, non più, perché era tornato a casa e ogni tassello stava andando uno alla volta al proprio posto e nessuno sarebbe riuscito a fermarlo. Se qualcuno avesse avuto dei dubbi poteva sempre utilizzare il ragazzo come scusa. Geniale. Doveva aspettare solo fino all’indomani.
Nel frattempo impugnò la chiave dorata nascosta nel palmo e aprì la porticina nascosta dietro a una delle credenze, il vero motivo per cui non avrebbe mai permesso a nessuno di entrare in cucina da solo, con il rischio che la scoprisse. Quella era la vera “stanza X”.
La sua risata si dilagò nell’antro scuro mentre la porticina si chiudeva dietro di lui, leggera come il passaggio di uno spettro, e venne risucchiata in un vortice di aria infernale.
 
*  *  *
 
Salve a tutti, qui è L.B. Shadow che parla!
Mamma mia quanto ci ho messo per decidere di pubblicare... questa è la mia prima fic, e non solo nel fandom Hetalia ma in generale. Spero che possiate capire il mio nervosismo...
Mi auguro che il primo capitolo vi sia piaciuto, i consigli sono sempre graditi!
Alla prossima!
 
*Aggiornamento luglio 2017*
Ho pubblicato il primo capitolo di questa fic circa un anno fa, ho pensato avesse bisogno di una revisione ed eccola qua. Ho apportato qualche modifica, se avete qualcosa da commentare fatelo pure! Per esempio ho iniziato la storia shippando delle coppie in particolare, ora come ora sono “pace e amore per ogni ship” (anche se la Gerita continua a far rima con “vita”) (scusate, sto divagando)
Ringrazio tutti quelli che mi hanno accompagnato in questo primo anno da “fanfictioner”, spero di non deludervi. :D
A presto!
Vostra L.B. Shadow
   
 
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