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Autore: ffuumei    29/07/2016    1 recensioni
XiuChen
Dove Kim Jongdae è un cantante mentre Minseok è invisibile: non può far altro che osservarlo da lontano, in silenzio.
O almeno, così crede.
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Chen, Chen, Xiumin, Xiumin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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침묵
     Silence.    
 
 
 
 
2.
 
 
 
La mamma non gli parlava mai di suo padre. Pensandoci, non aveva mai trovato nemmeno una foto dell'uomo nella casa in cui vivevano. C'erano momenti in cui Minseok desiderava poterlo conoscere, accertarsi di che persona fosse, parlarci anche solo per un pochino, vedere con i propri occhi che quell'uomo esisteva davvero. In altri momenti, invece, avrebbe preferito che una persona del genere non ci fosse mai stata, che davvero non fosse mai esistita.
 
Capì il motivo per cui sua madre era sempre stata restia nel parlargli di suo padre solo durante l'estate che precedette il suo secondo anno di superiori, quando fu costretto dagli assistenti sociali a preparare velocemente i bagagli con tutte le sue cose e trasferirsi definitivamente proprio da lui. Da quel momento in poi tutto cominciò ad avere un peso diverso.
 
Minseok non ricordava bene come venne accolto nella casa di quell'uomo. Non aveva memorie precise di come egli lo salutò o di come gli mostrò le stanze fino a farlo accomodare in quella che sarebbe stata la sua, ammesso che fece tutto ciò. Minseok si ritrovò seduto su un lettino singolo addossato ad una parete di un bianco sporco, con un armadio d'ebano di fronte, la porta chiusa, le tapparelle quasi interamente serrate e la mente libera di vagare in meandri che mai avrebbe voluto visitare. Oltre a quello, il nulla. Solo un silenzio diverso che non lo accompagnava più nei suoi sogni ad occhi aperti. Un silenzio che lo prendeva per mano e lo trascinava nel mondo degli incubi.
 
Così passò l'estate. Terminò senza che se ne rendesse davvero conto.
 
§
 
Minseok continuava a domandarsi quel perchè anche a distanza di una settimana. Una settimana nella quale Kim Jongdae aveva continuato a presentarsi nel parco, più precisamente ai piedi della collina dove lui era solito occupare una delle due panchine di legno presenti, sedersi a gambe incrociate e suonare la chitarra.
La sua routine giornaliera non aveva subito alcun mutamento. Minseok continuava a svegliarsi presto la mattina, saltare la colazione, lavarsi e vestirsi con cura con giacca e cravatta per poi prendere la metro e raggiungere il suo posto di lavoro in una trentina di minuti. Si trattava di un ufficio dall'aria molto pulita e professionale, immagine che rifletteva precisamente la mansione che gli impiegati vi svolgevano. Minseok era uno di loro, era un impiegato in quell'ufficio sempre ordinato e profumato da un fresco deodorante per ambienti. L'unico problema in questo quadretto perfetto era che Minseok non avrebbe mai e poi mai immaginato che nella vita sarebbe finito a fare l'impiegato. Per di più, l'impiegato di un ufficio immobiliare. Sembrava quasi uno scherzo crudele del destino, ma Minseok non ci credeva, nel destino. Si era semplicemente trattato di un raro caso di sfortuna, si diceva da solo, il fatto che avesse studiato per tre anni architettura all'università sperando di poter vivere lavorando come architetto -come diceva la materia centrale che aveva studiato, per l'appunto- e invece si era trovato a ricoprire il ruolo di agente immobiliare, pur di guadagnare i soldi necessari a pagarsi l'affitto del suo appartamento. Così, i suoi sogni di progettazione di case, strutture e cose del genere non avevano nemmeno potuto avere modo di sfumare nel nulla. Erano rimasti lì, nascosti da qualche parte dentro di lui, ed uscivano allo scoperto ogni volta che lavorava sulla vendita di un immobile, quasi come se volessero ricordargli quanto i suoi desideri fossero vicini eppure intoccabili.
Lavorava solo mezza giornata, per cui non appena il suo turno terminava tornava con una certa fretta a casa con il primo vagone della metro che passava a quell'ora, oppure si fermava in un fast food lì vicino, in entrambi i casi con l'unico scopo di riempirsi finalmente la pancia.
Dopo pranzo, nel pomeriggio, aveva da anni l'abitudine di recarsi in uno dei parchi della città, ai piedi della collinetta che separava la strada di ghiaia dal laghetto al centro dello spazio verde. Di restare a casa non se ne parlava: il silenzio di quelle mura talvolta era assordante. Tremendamente fastidioso. Così tanto che nemmeno il suono della sua chitarra riusciva a cancellarlo. E Minseok non poteva e non voleva sopportarlo, per questo prendeva il suo strumento e se ne andava al parco, dove la sua musica si fondeva con la luce del giorno e non sarebbe stato avvolto dal silenzio nemmeno se avesse smesso di suonare.
Kim Jongdae venne anche quel giorno. Arrivava circa due ore dopo Minseok, a metà pomeriggio, e aveva preso velocemente l'abitudine di correre giù per la collina sventolando la mano in segno di saluto.
«Minseok!» urlava mentre continuava a mettere un piede davanti all'altro così rapidamente che il biondo aveva paura potesse inciampare, cadere e rompersi qualcosa da un momento all'altro. «Ciao!»
«Ciao» gli rispondeva sempre Minseok con meno entusiasmo, ma con un sorrisetto a stirargli le labbra rosee. Per qualche strano motivo, il suo nome gli rimaneva sempre incastrato nella gola e non ne voleva sapere di uscire.
Mentre Jongdae si sedeva accanto a lui e si lisciava la stoffa morbida dei pantaloni grigi della tuta, Minseok non poteva fare a meno di domandarsi ancora quel dannato perchè. Perchè Jongdae continuava a fingere di non essere il cantante del pub? Perchè Jongdae continuava a presentarsi ogni giorno al parco? Perchè Jongdae continuava a venire da lui?
Domande che lo torturavano tutto il pomeriggio, tutti i pomeriggi, da quando il moro era entrato a far parte della sua routine giornaliera. Era tutto perfettamente immutato, tranne quel piccolo particolare che restava accanto a lui a ridere e scherzare fino al tramonto, come quel giorno. Da sette giorni.
«Stavo pensando una cosa».
Forse Minseok avrebbe fatto meglio a smettere di farsi domande. Dopotutto, non avrebbe mai dato voce a tutti quei quesiti che minacciavano di fargli venire un'emicrania.
«Che cosa?»
«Lo conosci il testo di Let It Be
Ancora con quella canzone. Era incredibile come, a distanza di una settimana, Jongdae continuasse ancora a chiedergli di suonarla.
«So alcune frasi, credo. Non tutte. Perchè?»
«Pensavo che potresti provare a suonarla mentre la canti. Sarebbe stupendo. E poi, mi piacerebbe davvero tanto conoscerne le parole».
Ancora più incredibile, però, restava il fatto che Jongdae continuasse a fingere di non conoscerla, come se non la cantasse almeno una volta al mese. E Minseok lo osservava da sei mesi.
«Non sono bravo a cantare» più che altro era una cosa che non faceva spesso e nessuno lo aveva mai ascoltato, per cui si sentiva piuttosto insicuro riguardo alle sue abilità canore.
E si sentiva anche in imbarazzo, sapendo perfettamente di trovarsi di fronte ad un cantante dalla voce talmente bella da fargli diventare gli occhi lucidi e battere forte il cuore nel petto. Non sarebbe mai stato abbastanza bravo.
«Sono sicuro che non sia così. Non ti ho mai sentito cantare, ma la tua voce mi piace davvero tanto. La trovo bellissima. Sono certo che con una voce così non puoi che cantare bene».
Minseok distolse lo sguardo, arrossendo visibilmente. Tutto si aspettava fuorchè un complimento così esplicito. Non potè negare nemmeno a sè stesso quanto gli avesse fatto piacere riceverlo.
«Io...» disse piano, stringendo le mani lungo il bordo della cassa della chitarra che teneva sulle gambe.
Non me la sento. Mi vergogno. Tu sei così bravo che ascoltare la tua voce mi fa sentire ad un passo dal paradiso. Io sono mediocre. Non posso.
«Per favore» Jongdae gli mise una mano sulla spalla, lasciando che il palmo della stessa scorresse lungo tutto il braccio di Minseok e che le sue dita gli carezzassero piano la pelle. «Almeno provaci. Va bene anche solo una volta».
Quel semplice tocco, unito alla voce più bassa e morbida usata dal moro, ebbe il potere di convincere Minseok. Si voltò solo un secondo verso Jongdae, rischiando di incantarsi nell'osservare il caldo sorriso che gli stava rivolgendo.
Aveva ancora il fantasma del suo tocco sulla pelle quando iniziò a pizzicare le corde per creare la melodia e le prime parole che ricordava gli uscirono probabilmente troppo basse e troppo tremolanti dalle labbra.
«When I find myself in times of trouble, mother Mary comes to me, speaking words of wisdom, let it be. Let it be, let it be. Whisper words of wisdom, let it be».
Sperò con tutto il cuore che anche Jongdae non fosse un genio in inglese, perchè sicuramente la sua pronuncia non era perfetta e in alcuni punti faceva errori terribili. O magari stava dicendo tutto bene e quello era solo l'ennesimo viaggio mentale dettato dall'insicurezza. Fatto sta che Jongdae continuava a restare in silenzio ad ascoltarlo e allora Minseok si convinse a continuare, cercando di migliorarsi parola dopo parola. Nota dopo nota.
«And when the broken hearted people living in the world agree, there will be an answer, let it be».
Minseok sentì uno spostamento accanto a lui e per un attimo pensò di smettere di suonare e cantare per controllare cosa stesse succedendo. Alla fine optò per guardare con la coda dell'occhio e vide Jongdae scivolare lentamente e sedersi in maniera più scomposta sulla panchina, gettare la testa indietro e chiudere gli occhi, con un sorriso compiaciuto ed appagato sulle labbra.
«And when the night is cloudy, there is still a light that shines on me, shine on until tomorrow, let it be».
Il biondo si umettò le labbra passandoci la lingua sopra. Si sentiva improvvisamente così accaldato e con la gola così secca. Cantare non era stata esattamente una buona idea. O forse sì, considerando quanto fosse bello l'uomo che sedeva accanto a lui, con i capelli spettinati, gli occhi chiusi e il sole al tramonto che gli baciava la pelle bianca proiettandovi sopra le ombre delle sue ciglia lunghe. Ma questo non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a sè stesso.
«Let it be, let it be. There will be an answer, let it be. Let it be, let it be, whisper words of wisdom, let it be».
Jongdae lo sorprese cantando in coro con lui le ultime parole della canzone, lasciandolo senza fiato come tutte le volte che l'aveva ascoltato al pub.
Non che fossero impossibili da ricordare, le parole del ritornello di quella canzone, quella parte in particolare era piuttosto orecchiabile. A lasciarlo stupito, però, era sapere che Jongdae fosse un cantante e portasse sul palco quella stessa canzone che diceva di non conoscere almeno una volta al mese. E Minseok era così che l'aveva imparata.
Non appena terminò le ultime note della canzone, mise da parte la chitarra, allungò le gambe e si sedette normalmente, sgranchendosi i muscoli intorpiditi. Poi il suo sguardo si posò su Jongdae e Minseok si perse in quegli occhi scuri, così profondi, così pieni di domande a cui non avrebbe dato voce e risposte che non avrebbe ottenuto.
«Minseok».
«Dimmi».
«Oggi è sabato».
L'espressione sul viso di Minseok era confusa, prima di fare un piccolo collegamento.
È sabato. Questa sera Jongdae si esibisce al pub, come tutte le settimane. Perchè me lo sta dicendo, se continua a fingere di non essere quel cantante?
«Lo so» ma come al solito, non disse nulla dei pensieri che gli attraversavano la mente.
«Lo so che lo sai».
Jongdae rise appena, subito seguito da Minseok.
«Devo andare, ora» disse, come al solito. Jongdae si congedava sempre così. Gli diceva che doveva andare, si alzava, si lisciava la stoffa dei pantaloni nello stesso modo in cui lo faceva quando si sedeva sulla panchina, poi gli sorrideva, scuoteva la mano, si voltava e spariva di là dalla collina.
Chissà perchè quella volta il suo sorriso durò più a lungo. O forse era soltanto una sensazione di Minseok. Il tempo sembrava essersi fermato mentre osservava Jongdae sedersi di nuovo, avvicinarsi a lui e dargli un bacio sulla guancia.
«Ci vediamo domani».
Il sole stava tramontando e le risate dei bambini erano sempre di meno, sempre più lontane. Sfumavano nel silenzio che andava a crearsi persino in quel parco, una volta trascorso il tramonto. Minseok non si sarebbe mai liberato di quella mancanza di suoni. Eppure, per una volta, c'erano pensieri diversi che occupavano la sua mente e il silenzio vi faceva solo da placido sfondo inconsistente.
Le labbra di Jongdae erano davvero belle e morbide come aveva immaginato in tutte quelle sere passate ad osservarlo mentre le schiudeva davanti al microfono, e in tutti quei pomeriggi in cui lo guardava parlare e sorridere a qualche centimetro di distanza da lui.
 
Alle dieci di sera, Minseok era già seduto al bancone del pub che frequentava ormai da anni, sullo sgabello più marginale, punto migliore dal quale poteva osservare meglio il piccolo palco scenico in fondo al locale.
Un gruppo di musicisti che avranno avuto all'incirca una cinquantina d'anni suonava musica jazz e le persone sedute ai tavolini preferivano parlare tra di loro piuttosto che guardarli. La loro musica faceva da sfondo alla serata e a loro sembrava andare bene anche così.
Minseok stava terminando di bere il suo secondo bicchiere, mezz'ora dopo, quando Jongdae salì sul palco con il microfono tra le dita e il suo sorriso gentile come accessorio sempre presente. Si sistemò con calma prendendo un respiro profondo e aspettando che dalle casse partisse la melodia della sua prima canzone. Le persone smisero di produrre il tipico chiacchiericcio di fondo da bar e prestarono interamente la loro attenzione al cantante, questa volta.
Chissà perchè, Minseok non rimase affatto sorpreso che le note che partirono appartenessero a Let It Be, dei The Beatles. La voce del moro era sempre stupenda, talmente bella che Minseok non sapeva nemmeno come descriverla. Si adattava così bene a quella canzone e ogni volta che la cantava sembrava sempre che ci fossero dei miglioramenti.
È davvero possibile migliorare la perfezione?
A stupire Minseok, però, fu il testo della canzone. Più breve, coinciso. Sembrava vi mancassero delle parti.
Le stesse parti che ho saltato io.
Lo sguardo di Jongdae si incatenò fin da subito con il suo e raramente si posò altrove. I loro occhi erano irrimediabilmente attratti da una calamita che li legava insieme, non c'era altra spiegazione.
Tuttavia, non si dissero mai nulla.
Nemmeno al termine dell'esibizione. Nemmeno il giorno dopo. Nemmeno quelli a venire.
 
§
 
Minseok non piangeva mai, nemmeno quando avrebbe tanto voluto farlo.
Seduto su quel lettino con la testa appoggiata al muro e le ginocchia al petto, pensava alla nuova città, alle nuove strade, alla nuova scuola, ai nuovi volti, ai nuovi compagni. Tutte cose che Minseok prese in analisi solo molto tempo dopo la sua sistemazione in casa di suo padre. Si disse che non era tanto la novità non richiesta quanto il fatto che tutto somigliasse così tremendamente a ciò che era stato costretto a lasciarsi alle spalle, a fargli male. Da quel momento in poi, essere ignorato divenne dannazione e benedizione in egual modo. Le prese in giro erano costanti. Fingeva di non sentirle, mentre gli si depositavano nel petto come ruggine lungo la superficie ammaccata del cuore.
Il vero dolore, però, arrivava solo dopo. Lo percepiva sulla pelle, lungo le ossa, attraversagli la colonna vertebrale penetrando al di sotto dei vestiti, nella carne. Gli scuoteva il corpo come un brivido senza fine. La sensazione di non esistere nemmeno tra le mura della casa in cui viveva. La sensazione di essere meno palpabile di un soffio di vento. La consapevolezza che il silenzio, tra quelle mura, esisteva e Minseok no. Minseok non c'era, anche se c'era. Suo padre non lo guardava, non gli sorrideva, non lo salutava, non gli chiedeva come era andata la giornata, se si era fatto degli amici. Suo padre non si sedeva sul divano con una chitarra in grembo, non suonava nessuna canzone, non rideva fino alle lacrime. Suo padre non riempiva il silenzio. Suo padre non era la mamma e la mamma non tornava. Non sarebbe mai più tornata, ma questo Minseok lo realizzò solo con il tempo. Non era stupido. Aveva solo preteso di poter tenere gli occhi chiusi per sempre, fallendo e sprofondando poi nella triste realtà.
I morti, una volta tali, non camminano più nel mondo dei vivi. Non suonano più la chitarra. Non sorridono più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Hello!
Credo che questo sia il capitolo più amaro di tutta la fic. Mi sento male per quello che ho fatto a Xiumin- a mia discolpa, posso solo dirvi che… no, niente, qualunque cosa io dica a questo punto sembra uno spoiler, quindi evito c.c
Non so voi, ma io da quando ho sentito Chen cantare Imagine, non sono più riuscita a frenare l’immaginazione e ora sono convinta che la sua voce sia perfetta per quel genere di canzoni (è perfetta e basta, veramente). Mi piacerebbe tantissimo sentirlo mentre canta Let It Be, oh dio *piange*
Teoricamente avrei dovuto postare questo capitolo martedì prossimo, a distanza di una settimana precisa dal primo, ma alla fine ho deciso di pubblicarlo prima perché nei prossimi giorni sarò in vacanza e non so se avrò un computer con la connessione ad internet laggiù. Quindi, eccomi qui in anticipo ad un orario indecente (sono le 5 di mattina, aiuto), sperando di non ritardare troppo nella pubblicazione del prossimo capitolo- dipende tutto da quando torno, cosa che spero succeda nel giro di una settimana, non di più. Spero anche che questo aggiornamento vi sia piaciuto e, come al solito, di aver fatto un buon lavoro! 
Goodbyee ♪
  
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