Wenn die Sterne leuchten.
Capitolo Quarto.
I wanna scream ‘Is this
a dream?’
How could this happen, happen to me?
This isn't fair, this nightmare
This kind of torture, I
just can't bear
I want you here…
https://www.youtube.com/watch?v=SWww880E9wU
Anno 846
Oltre il Wall Rose, nella
terra dei giganti.
Nina aveva avuto modo di visitarsi
per bene, per capire quali fossero esattamente le sue condizioni.
Si era liberata
dell’imbragatura e delle stecche di fortuna che aveva assicurato al costato,
facendo non poca fatica a sciogliere i nodi che aveva fatto per tenere insieme
tutta quella garza. Si ritrovò a pensare che fosse uno spreco e doveva essere
parsimoniosa, seppure il suo kit medico d’emergenza fosse lì, accanto a lei.
Si era privata del modulo per
lo spostamento a terra e una volta aperta la camicetta bianca smanicata aveva iniziando a passare le mani sul busto con
attenzione, passando sopra alle bende che le comprimevano il seno fino alla
fine del costato, cercando di sentire se
ci fossero dei rigonfiamenti sotto pelle o una rottura delle costole.
La fortuna sembrava essere
dalla sua perché, nonostante il livido violaceo che si estendeva per quasi
tutto il fianco sinistro a causa del colpo che aveva preso cadendo sul carro,
non sembrava avere niente di davvero rotto.
Quella era un’ottima notizia.
La missione che si era prefissa
non avrebbe quindi avuto molti intoppi, essendo in salute, anche se ancora un
po’ stordita dagli accadimenti. Il suo obiettivo principale era quello di
cercare il modo più efficace per sopravvivere nell’attesa di una squadra di
salvataggio. Il fatto di essere una sola persona era un grosso vantaggio,
sarebbe passata inosservata se avesse ridotto al minimo i rumori.
Doveva solo aspettare e
mettersi nella condizione migliore per vivere e poi chi lo sa, in un impeto di
ottimismo avrebbe anche potuto ricavarne qualcosa di fruttuoso. Essere un
membro dell’esplorativa aveva un ventaglio di diversi significati, ma il più
importante non era di certo il più famoso. Più che soldati, dovevano essere
degli osservatori.
Mentre si rivestiva,
allentando appena le cinghie dell’imbragatura per evitare che facessero
pressione sul fianco ferito, Nina decise che avrebbe annotato scrupolosamente
tutto ciò che avrebbe visto o sentito in quel periodo. Sapeva che al suo
ritorno, Hanji ne sarebbe stata felice, anche se
sperava di rimanere lì per il periodo più breve possibile.
Chiedere i permessi per
uscire dalle mura richiedeva del tempo e delle risorse, ma era sicura che Levi
avrebbe trovato un modo. Sapeva che si sarebbe mosso in fretta.
Erwin invece…
Lo capiva. Non poteva avercela
con lui, perché sapeva che se l’aveva lasciata indietro, era solo perché era
certo che fosse morta. Doveva aver trovato la compagnia dell’avanguardia
distrutta e doveva aver pensato – non a torto- che in quella situazione nessuno
ne sarebbe potuto uscire vivo. Davvero, lo capiva, era il Comandante e non
poteva fare preferenze e rimanere in un luogo tanto pericoloso solo perché
aveva perso sua sorella. Nina non valeva né più né meno di qualsiasi altro dei
suoi ufficiali.
Più di ogni altra cosa, però,
Nina sapeva che suo fratello si stava incolpando.
E si sentì male al pensiero
di averlo fatto patire così.
Passò una mano sul viso,
scostando i capelli che erano sfuggiti alla treccia arrangiata alla meno peggio
e si alzò, tenendosi con una mano il costato. Per iniziare, doveva trovare una
disposizione migliore. Lì c’erano troppe finestre.
Mettersi in sicurezza era il
primo passo per arrivare al giorno successivo e da lì sarebbe andata avanti.
Avrebbe vissuto alla giornata, cercando anche di tenersi occupata nel
frattempo.
“Assurdo come sia bastato del
miele a calmarmi” soppesò sottovoce, raccogliendo il bigliettino che Levi le
aveva lasciato e rileggendolo. Cercare nelle case qui attorno era un’ottima
idea. La borgata era piccola e le abitazioni erano tutte costruite sulla
medesima roccia. Non sarebbe stato difficile entrare da una porta e uscire
dall’altra.
Senza contare che la
posizione sopraelevata rispetto alla campagna e al bosco aveva numerosi
vantaggi.
Un passo alla volta, però.
Stava già mettendo troppa carne al fuoco.
Il rifugio. Doveva partire da
lì.
Ripensò alla cucina
interrata, costatando che quello sarebbe stato senza ombra di dubbio il luogo
più sicuro. C’era un odore molto forte di umidità al piano di sotto, che
avrebbe coperto il suo profumo. Se era quella la sua preoccupazione, ci avrebbe
pensato anche l’impossibilità di farsi un bagno decente, cosa che la demotivò
parecchio. Non era il caso di essere schizzinosi, dato che i giganti erano
bravi a fiutare gli esseri umani.
Se doveva puzzare, per non
essere mangiata, sarebbe stata felicissima di puzzare.
Prese la mantella verde,
avvolgendosela attorno alle spalle, avvertendo subito un dore
famigliare che la portò ad accarezzare il tessuto morbido dell’indumento,
sollevandolo poi contro al naso. Non era brava come Mike a fiuta, ma avrebbe
potuto scommettere entrambi i suoi occhi che quella era la mantella di Levi.
Quella fragranza la rincuorò
ancora di più.
Strinse la stoffa fra le
mani, prima di avvicinarsi cauta alla finestra, affacciandosi da essa. Tutto
sembrava tranquillo, forse anche troppo, ma non si sarebbe di sicuro lamentata
se non avesse visto nessun gigante. Tirò la tenda, decidendo di non prendere il
modulo per lo spostamento tridimensionale, per il momento e lasciò la stanza, tornando
al piano di sotto.
Non aveva osservato molto
bene la cucina quando c’era entrata la prima volta, troppo presa dallo
sconforto e dalla paura di essere prossima a una morte solitaria. Quando vi rientrò
nuovamente, invece, colse dei dettagli che lasciavano trasparire la storia dei
precedenti abitanti. Nell’angolo sulla destra c’era un tavolo enorme, ancora
apparecchiato per il pranzo. Nina raccolse con la mano il pane ammuffito e un
piatto contenente quelle che sembravano patate andate a male da tempo e si
chiese come doveva essere stato.
Come doveva essere l’inferno
vero, vissuto con gli occhi di qualcuno che non l’ha scelto, ma si è ritrovato
di fronte il male all’improvviso.
I giganti erano arrivati in
fretta in quella zona, nessuno doveva essere riuscito a giungere per avvertirli
di cosa stava succedendo. Nessuno aveva detto a quelle persone che il Wall Maria era caduto, perché non doveva essercene stato il
tempo.
Avevano lasciato il pranzo, la
loro vita, tutto ciò che possedevano e avevano cercato la salvezza nella fuga.
Nina sperò che quella famiglia ce l’avesse fatta, ma non si sentiva molto
positiva in quel frangente. Erano in pochi quelli che vivevano all’interno di
quei piccoli villaggi stanziati per le campagne, che in qualche modo si erano
salvati arrivando alla prima porta. A Trost.
La strada era lunga e i
giganti erano più veloci.
Era passato solo un anno da
quella follia, ma la pesantezza di quel ricordo riecheggiava ancora per le mura
di pietra del borgo. Quello era stato l’evento più drammatico provocato dalla
furia dei giganti, che si avvicinava tristemente alla ‘crociata degli sciagurati’ organizzata dalla corona per sfollare i
tanti esuli del Wall Maria e garantire un rancio in più
agli abitanti delle mura interne.
Erano stati quelli
dell’esplorativa a denominarla così.
Crociata degli sciagurati.
Nina ringraziò di non essere
mai stata invitata di istanza a dare supporto a quelle persone, non avrebbe mai
sopportato la vista di contadini armati di forconi che venivano sbranati.
Erwin aveva detto che era
stato tremendo, ma era sicura che stesse minimizzando come sempre.
Smise di pensarci quando
terminò di togliere tutto dalla tavola, ammucchiando le stoviglie ormai
inutilizzabili e il cibo scaduto dentro a una cesta che trovò poco lontano,
accanto alle scale. Iniziò ad aprire gli sportelli delle credenze, liberandosi
anche di tutto il cibo andato a male che trovava, constatando che non c’era
molto altro da salvare.
Qualche foglia di te e un
sacchetto di riso bianco.
Sempre meglio di niente.
Spostò le sedie e cercando di
non fare rumore e spinse il tavolo fin sotto alla finestra, salendoci poi in
piedi sopra e affacciandosi dal quell’unica, piccola fessura che dava
sull’esterno della cucina, a livello della pavimentazione stradale. Scese con
un saltello, dandosi della scema per tutti i dolori che ancora provava, prima
di andare al piano di sopra.
La parte divertente venne a
quel punto.
Trascinare un materasso per
le scale, strapazzata come era, non fu divertente. Però ci riuscì.
Non sarebbe mai guarita da
tutti quei dolori se avesse dormito su un tavolo e l’antifona era chiara:
sarebbe rimasta lì per un po’.
Il passo successivo fu quello
di trasferire tutte le cose che Levi aveva lasciato per la sua sopravvivenza e
in sei o sette viaggi per le scale fece anche quello. In ultimo, rubò quanti
più cuscini possibili e qualche coperta dalle stanze. Solo quando riuscì a
sfilare gli stivali, stendendosi su quel materasso, comprese quando davvero
fosse sfinita.
Appoggiò un braccio sugli
occhi, realizzando che ancora non aveva mangiato niente dalla mattina
precedente e che quel pane non sarebbe stato buono per molto, ma poteva
concedersi un pisolino dopo aver corso una notte intera. Il profumo di Levi le
arrivò di nuovo alle narici, mentre chiudeva gli occhi, accoccolandosi sul
fianco sano e per un attimo le sembrò di sentire le sue dita fresche scostarle
i capelli dalla fronte con gentilezza.
La sua mente insisteva, in
modo del tutto razionale, che il profumo veniva dalla mantella, ma il pensiero
che lui fosse lì a vegliare sul suo sonno la fece crollare.
Il risveglio fu brusco.
Un gigante che passava di lì
la destò con la sua infinita grazia, facendo rombare la terra e tremare la
pavimentazione della cucina.
Nina scattò seduta,
ringhiando per il dolore e cadendo dal materasso. Portò entrambe le mani alla
bocca, mentre sentiva il corpo tremarle e il cuore batterle all’impazzata. I
ricordi di ciò che era successo le tornarono in mente, così come la morte di
Nick e di Ed, la sua prima missione e il senso di smarrimento, i pezzi di
cadavere dei membri della quarta divisione e ogni singolo soldato che era morto
fra le sue mani, il corpo straziato di Farlan alla sua destra e la fascia di Renson
impregnata di sangue. Tutte queste memorie vivide che aveva conservato
all’interno della sua mente, insieme con la sensazione di abbandono che aveva
provato nel momento in cui era arrivata lì e non aveva trovato nessuno,
rischiarono di far crollare il delicato equilibrio che Levi aveva cercato di
costruirle attorno con le sue accortezze. Si sporse sulla cesta piena di cibi
avariati, credendo che avrebbe vomitato bile e saliva dato lo stomaco vuoto,
mentre cercava disperatamente di rimettere insieme i pezzi del suo mondo.
Quando riuscì a farlo, si
sedette con la schiena al muro, sentendo le lacrime agli occhi per lo sforzo,
tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il biglietto di Levi.
Lo lesse e lo rilesse,
nonostante ormai lo sapesse a memoria, fino a che non tornò ad essere padrona
di se stessa.
A quel punto si trascinò di
nuovo sul materasso, tirandosi la coperta fino al mento e fissando il soffitto
della cucina con intensità. Il cuore le batteva ancora forte e la nausea era
accompagnata da un senso di debolezza diffuso. Chissà da quanto tempo non
mangiava, non aveva idea di quanto avesse dormito.
Si alzò, trovando
difficoltoso l’orientarsi per la casa e salì le scale, arrivando alla stanza.
Attenta a non farsi vedere da niente, scostò la tenda, alzando gli occhi al
cielo.
Dalla posizione del sole
dovevano essere circa le nove del mattino.
Aveva dormito una giornata e
una notte intera e non mangiava da due giorni, quindi.
Per forza si sentiva debole, aveva
corso così tanto che era un miracolo che non fosse svenuta per le scale.
Il pane era ancora buono o
forse, molto semplicemente, si ritrovò con lo stomaco così vuoto che avrebbe
trovato delizioso qualsiasi cosa. Mangiò velocemente, divorando la pagnotta,
mentre seduta sul tavolo con il suo quaderno appoggiato sulle gambe incrociate,
annotava ciò che era successo il giorno precedente e come si era arrangiata
dentro a quella casa. La penombra perenne nella stanza le fece registrare che
doveva cercare delle candele. Una era rimasta sul tavolo, mezza consumata e non
le sarebbe durata per molto.
Solo dopo aver messo di nuovo
mano al miele raccolse l’attrezzatura, sistemandosela al bacino e si preparò a
fare un giro. Aveva nove lame, contando quelle extra che Levi le aveva fatto
trovare e quattro bombole di gas. Se Erwin aveva sempre detto che dovevano
essere parsimoniosi, Nina avrebbe dovuto battere ogni record. Laddove era
possibile, non avrebbe ingaggiato uno scontro, per iniziare.
Prese la sua sacca di cuoio e
ci mese dentro il necessario, qualche garza e la boraccia, insieme alla candela
e una scatolina di fiammiferi. In ultimo recuperò quaderno e matita, insieme a
un coltello a serramanico. A quel punto sollevò il cappuccio della mantella,
nascondendoci dentro i capelli e si avviò alla porta.
La strada era libera.
Per prima cosa, doveva
tracciare un perimetro, cosa che solitamente spettava a Mike.
Salì sul tetto di una casa
sfruttando solo il potere trainante delle corde, andando ad inginocchiarsi
rapida accanto al comignolo, per rimanere nascosta. Dalla sacca prese un
binocolo, un vecchio rudere con una potenza visiva limitata che suo padre le
aveva fatto avere anni prima e che non aveva mai usato davvero. Non le era mai
servito, aveva altri che le facevano da occhi e orecchie. Lei era una segaossa, dopotutto.
C’era due giganti nella
pianura, un classe sei metri e un classe tre, totalmente disinteressati a lei.
Avrebbe lasciato le cose
esattamente così. Attirare la loro attenzione era l’ultima cosa che voleva
fare.
Come ogni volta che era
agitata, prese fuori dal colletto della camicia il medaglione dorato che
portava sempre al collo e lo infilò fra le labbra, giocherellando con la
catenina che pendeva sul suo mento.
Nella borgata non c’erano
pericoli.
Ne approfittò subito,
scendendo dal tetto e infilandosi nella finestra del terzo piano del palazzo su
cui si era posizionata.
Era una palazzina di medie
dimensioni, ma con una posizione
sopraelevata grazie a uno sperone di roccia, con poco o niente da prendere.
Trovò qualche candela, altro riso, delle posate e dei fogli da lettera, che
prese per ogni evenienza.
Un po’ delusa, Nina continuò
la sua ricerca, girovagando anche per le stanze dei vari piani. Infondo a un
corridoio stretto ma luminoso ne era rimasta una sola, colorata e piena di
disegni. I fogli su cui erano stati fatti, purtroppo, erano ingialliti a causa
del tempo, ma mostravano tutto l’estro di un bambino. Doveva essere una
famiglia ricca o benestante per potersi permettere i pastelli a cera e gli
acquerelli di tutte quelle tonalità. Nina lo sapeva bene, considerato che
disegnava fin da quando era piccola e suo padre, per potersi permettere di
viziarla un po’, nascondeva i soldi a sua madre, tornando poi a casa con
scatoline di latta contenenti veri tesori, carboncini e tele.
Non c’è nulla che un genitore
non avrebbe fatto per suo figlio e Nina sapeva che, presto o tardi, anche lei
avrebbe voluto crearsi una famiglia con piccoletti da vezzeggiare.
Con la vita che faceva
sarebbe stato difficile, ma non si voleva precludere la possibilità di avere
dei figli suoi.
Forse aveva anche già trovato
la persona giusta con cui farlo.
Comunque sia, non sarebbe
potuto essere altrimenti, visto il suo carattere. Era cresciuta in una famiglia
numerosa, così tanto che alla nascita di sua sorella Mieke
erano arrivati a toccare le diciannove persone in casa, più i cani e i cavalli
nel cortile interno.
Si sedette sul letto con una
manciata di disegni trovati su una scrivania di noce verniciata, iniziando a
sfogliare alberi dalla corolla brillante e soli luminosi. In qualche foglio
c’erano dei cavalli, in altri fiori dai colori così vividi come solo un bambino
li può immaginarne. Sorrise intenerita di fronte a forse due tipi diversi di
tratto, fatti da due mani diverse e quindi da due diversi piccoli artisti,
scorgendo solo in seguito, in basso sulla destra di uno dei fogli, delle firme
scarabocchiate alla meno peggio.
“Marianne e Karoline” lesse a voce alta, domandandosi come dovessero
essere quelle bambine, quale fosse la più grande e se fossero delle pesti così
come lo era lei alla loro età.
Nina era una peste a quasi
vent’anni, ma da bambina era un demonio.
Sua madre sosteneva che era a
causa sua se aveva passato un travaglio così lungo per Mieke;
temeva di averne due, poi, di bestie a correre per casa urlanti.
Peccato che il travaglio fu
difficile perché sua madre aveva superato i quarantacinque quando era nata sua
sorella minore, dopo otto anni dalla nascita di Nina, ma allora non poteva
saperlo e ci rimase comunque male. Adelaide Müller
era sempre stata una madre rigida, la faceva impazzire e Nina per dispetto
portava lei ad ammattire.
Non andavano d’accordo quando
era piccola, figurarsi crescendo, quando aveva sviluppato un animo tutt’altro
che accondiscendente ai desideri di sua madre, che voleva una figlia che
facesse la moglie, invece che il medico in prima linea. Mentre Alma e Frieldhem era i ‘figli
di suo marito’, e per questo li aveva sempre
trattati in modo diverso, delegando a Wilhem Müller l’incarico di crescerli, con lei e Mieke era stata inflessibile e severa. Per Erwin la storia
era molto diversa.
Nina se lo ricordava poco,
quando era piccola. Era partito per l’addestramento quando lei aveva sì e no
due anni. Aveva imparato a conoscerlo nelle visite a casa, quando parlava della
Legione nonostante fosse un tabù imposto da Adelaide, che però non aveva mai
tarpato le ali del figlio prediletto. Erwin era nato per diventare un soldato,
il fatto che sua madre avesse sposato un uomo che nonostante non facesse parte
dell’esercito, venisse da una lunga discendenza di gendarmi, non poté che
aiutare l’ascesa del Capitano Smith.
L’orgoglio di casa.
Poteva sembrare un capriccio,
ma Nina sapeva che sua madre non avrebbe mai amato nessuno come amava Erwin.
Glielo aveva detto, una volta. ‘Non
amerai mai nessuno quanto amerai il tuo primo figlio’,
era stata la frase che la giovane aveva comunque incassato, sentendosi più
amareggiata dal fatto che se lo aspettava che dalle parole in sé. Le credeva,
perché sua madre non guardava nessuno come guardava Erwin, era il suo vanto più
grande, il suo orgoglio.
Perché assomigliava molto al
padre, il suo primo marito, ma questo Adelaide non lo aveva mai detto.
Nina non era mai stata gelosa
di Erwin, perché lui era tutto ciò che lei voleva diventare. Aveva lavorato
tanto, studiato e faticato per arrivare dove era arrivata e lo aveva fatto sì
per amore di scoperta, per essere libera e lontana da quei muri che rendevano
la vita claustrofobica e lenta, ma anche per stare con lui.
Per seguirlo nelle sue
battaglie, per curare le sue ferite e per godere della compagnia che non aveva
potuto avere quando era una bambina.
Non c’era una persona al
mondo che Nina adorasse più di Erwin. Non c’era stata mai, prima dell’arrivo di
Levi nella Legione.
I fogli le caddero di mano,
destandola da quei ricordi dolci e amari, dall’immagine del volto di sua madre
che la guardava ferita indossare le Ali della Libertà sulla schiena.
Da quella vita che le
sembrava così lontana, così come lo era Stohess.
Chissà se sapevano già che
era dispersa. Chissà se pensavano che non sarebbe tornata.
Forse sua madre l’avrebbe
pianta, pensata. Si sarebbe pentita di ogni schiaffo che avrebbe potuto
tramutare in un abbraccio, di ogni urlo che poteva essere una canzone cantata
insieme nel cortile, attorno al falò che suo padre accendeva ad ogni prima
nevicata per scaldare il vino aromatizzato.
Si alzò sentendosi
malinconica, chinandosi su un ginocchio e iniziando a raccogliere i fogli. Se
avesse potuto esprimere un desiderio, sarebbe stato quello di poter tornare
indietro per poterle parlare. Per dirle che la perdonava di non essere stata
una buona madre come lo era stata la zia Lucille.
Avrebbe voluto un abbraccio,
per una volta, avrebbe voluto sedersi davanti al camino e parlare di ragazzi,
delle missioni e di intricate diatribe mediche, come faceva sempre con suo
padre.
Si asciugò una lacrima al
lato dell’occhio e in quel momento notò qualcosa di strano, sotto al lettino.
Curiosa, alzò la coperta, chinandosi meglio per osservare cosa mai potesse
esserci di nascosto in quella stanza.
Perse la presa sul resto dei
fogli, mentre gli occhi sbarrati fissavano la piccola mano appassita che si
intravedeva appena dalla posizione in cui si trovava. Sembrava protesa verso di
lei, cristallizzata in un momento eterno, in una incompiuta richiesta di aiuto.
Sembrava che quel luogo le stesse mostrando il risultato di un’attesa infinita.
Il respiro le si bloccò in
gola.
Non diede il tempo all’odore
della decomposizione di investirla.
In un attimo, uscì dalla
finestra, lasciando i disegni sparsi e la stanza vuota e silenziosa.
Come una tomba.
La casa accanto divenne un
rifugio per almeno una decina di minuti.
Nina ci mese un po’ a
riprendersi da quell’immagine, certa che se la sarebbe sognata quella notte,
insieme a tutte le altre bellissime situazioni che aveva vissuto durante quella
missione.
Che fosse un messaggio della
provvidenza? Era destinata ad aspettare fino alla morte?
Era assurdo pensarlo, non
poteva permettere a se stessa di abbattersi.
Si appoggiò con il bacino a
un tavolo e si costrinse a concentrarsi sulla sua ricerca di viveri e beni.
Prese la borraccia dalla saccoccia per tirare un sorso di acqua e pensò al
pozzo che aveva visto al centro della piazzola.
Doveva verificare se fosse o
meno funzionante, ma avrebbe atteso la notte per quello.
La strada per arrivare al
torrente, seppur breve, sarebbe stata pericolosa. Doveva sperare che il pozzo
fosse ancora funzionante e che ci fosse ancora la carrucola.
Dopo essersi passata le mani
sul viso almeno dieci volte, decise di
muoversi.
La casa in cui si era
infilata questa volta sembrava contenere molti tesori, affacciandosi
dall’ingresso.
Selle, briglie e armi per la
caccia.
Nina prese un pugnale dalla
lama grande e lo guardò attentamente, notando che era sporco di sangue
rappreso.
Forse lo stesso che
imbrattava la porta. Non c’erano corpi,
però. Iniziava a farsi troppe domande circa cosa era successo in quel villaggio
e dopo l’esperienza nella camera delle bambine, decise che non voleva le
risposte.
Prese il pugnale, decidendo
di lasciare il resto della roba lì, per il momento in cui magari le sarebbe
servita.
Prese a camminare per il piano
terra, guardandosi attorno e trovando alcune foto su un ripiano. Un uomo e una
donna, vicini. Lui era sorridente, lei più seria, ma dallo sguardo buono.
Dovevano essere dei
guardia-boschi a giudicare dal quantitativo di oggetti per le escursioni.
Sul camino trovò qualcosa di
inaspettato.
Incorniciata, c’era una
mantella identica a quella che indossava in quel momento.
Dovevano avere avuto un
figlio nella Legione, forse un fratello.
La giovane sentì una stretta
allo stomaco.
Chissà se Erwin aveva trovato
la sua giacca imbrattata del sangue di Sankov e
l’aveva portata a casa.
Sperò di no.
“Sarebbe di cattivo gusto,
visto che sono ancora qui, no?” chiese al suo stesso riflesso, quando si
ritrovò di fronte a uno specchio.
Aveva un aspetto pessimo, ma
non si aspettava di meglio. Era pallida, aveva gli occhi cerchiati di nero e la
treccia sfatta. Si sistemò una ciocca
giusto per pudore, prima di riprendere il giro.
Sotto ai suoi piedi, il
pavimento in legno scricchiolava un po’ troppo, ma sperò di non dare lo stesso
nell’occhio. Doveva esserci stata un’infiltrazione di acqua dal tetto rotto,
perché le sembrava di camminare su dei gusci di uovo.
Arrivò di fronte a un
mobiletto, nel quale trovò delle chiavi, forse della stalla.
Fece un passo indietro per
tornare verso la porta, quando un’asse del pavimento si ruppe, inghiottendole
la gamba. Trattenne a stento un urlo per la sorpresa e cercò di tirarsi su, ma
anche l’asse affianco era danneggiata, così cadde sotto al pavimento, al buio.
Tossì per il quantitativo di
polvere che si sollevò, riuscendo in qualche modo a trovare nella sacca la
candela che aveva intelligentemente portato e dei fiammiferi. Al terzo
tentativo, riuscì ad accenderla.
Doveva essere finita in
cantina e per fortuna aveva l’attrezzatura per tornare di sopra.
Scrollò alla meno peggio la
mantella, prima di alzare gli occhi sulla parete di fronte a lei per cercare un
appoggio.
Ciò che vide la colse di
sorpresa, tanto che le fece sgranare gli occhi e socchiudere le labbra.
“Non posso crederci, è incredibile…”
I waited so long, for you to
come
Then you were here, and now you're gone
I was not prepared, for
you to leave
me
Oh this is misery. Are you still there?
Anno 844
Ventitreesima spedizione oltre le mura.
“Vedo che ti hanno dato Meruka.” La mano di Nina si allungò verso il muso della
cavalla nera che, dopo averla annusata rumorosamente, iniziò a leccarle le
dita.
“Cosa ha di speciale, questo
cavallo?”
La bionda non voltò il viso
verso Levi, mentre iniziava ad accarezzare il manto lucido del collo.
“Era la cavalla di un caro amico…” fece una piccola pausa, mentre i suoi occhi
venivano attraversati da una leggera ombra. Quando si voltò verso di lui, però,
sulle labbra aveva il solito sorriso “Spero che a te porterà più fortuna che a
lui.”
“Incoraggiante.”
Nina ridacchiò sotto ai
baffi, tornando al carro, dopo aver controllato che tutte le bestie legate lì
avessero la biada e l’acqua. Prese una grossa cassa e la tirò verso il bordo,
proprio davanti a sé, per poi aprirla iniziando ad estrarre uno alla volta,
tanti sacchettini marroni.
“Se sei qui ad aiutare con la
spartizione del rancio, devi aver fatto incazzare Flagon.”
Il commento a voce alta della
giovane arrivò forte e chiaro a Levi, che non si stava dando un gran da fare
per aiutare quelli delle provvigioni. Ovviamente non rispose, ma era vero.
Nonostante avesse lasciato tutti a bocca aperta quella mattina stessa – si
erano lasciati Shigashina alle spalle molto presto e nemmeno due ore
dopo lui aveva già atterrato un gigante anomalo- il suo modo di rispondere
insolente al caposquadra gli aveva fatto guadagnare quella punizione.
Non si poteva lamentare,
però.
Quello in cui si stavano
accampando per la notte era un vecchio castello in rovina. Gran parte dei muri
era crollata e il tramonto che bagnava di rosso sangue il cielo aiutava a
dipingere un’atmosfera sinistra. Era comunque uno spettacolo, per una persona
abituata a vivere in un luogo dove la luce aveva un unico colore ed era quello
riprodotto dal fuoco di una candela.
Fino a che poteva rimanere
con la testa coperta solo dalla volta celeste, a Levi stava bene e Nina lo
sentiva. Iniziava quasi a credere che si sarebbe anche offerto per il primo
turno di vedetta.
Osservò il profilo dell’uomo,
spiandolo mentre iniziava a mischiare la farinata all’acqua dentro al tegame di
rame, notando come tenesse spesso il naso rivolto verso le nuvole. Chissà cosa
si provava, dopo una vita di buio, a vedere la luce.
Nina ipotizzò che doveva
essere risanante come riprendere fiato dopo una lunga apnea sott’acqua.
“Levi?” lo chiamò, incurvando
le labbra in una smorfia divertita “Lo abbiamo perso” insistette poi, rivolta
verso Nick, che rise a sua volta.
Ed, invece, non sembrava per
niente tranquillo con il moro attorno “Sayram mi ha
detto che è completamente fuori controllo” sibilò con tono basso alla volta dei
compagni, ricevendo come ricompensa a tutta quella malevolenza il cucchiaio di
legno in bocca. Dalla sua espressione, quella farinata d’avena doveva essere
davvero pessima.
Nina si riprese l’utensile,
tornando a mescolare il miscuglio pastoso, “Smettila, parli di uno di noi.”
“Non è uno di noi.”
“Lo è. Ora inizia a mettere
questo schifo nelle ciotole.”
Lasciò tutto nelle mani dei
due compagni, andando ad affiancarsi a Levi, che ancora fissava assorto la
pianura di fronte a loro. Da quella visuale rialzata potevano vedere tutta la
lunga vallata priva di vegetazione.
Poteva sembrare un posto poco
sicuro, ma era il luogo più grande in cui potevano dormire rimanendo tutti vicini
e senza rimanere allo scoperto. Era una rarità oltre il Wall
Maria.
“Sto per farti una domanda,
quindi preparati a darmi una risposta soddisfacente” iniziò la bionda,
appoggiando le mani alla cintura. Teneva gli occhi fissi in un punto lontano,
mentre sentiva l’altro spiarla con la coda dell’occhio, in attesa “Cosa vedi?”
Levi si voltò leggermente
verso di lei, con la classica espressione apatica di chi non ha voglia di
stupidi giochetti, ma che comunque non può nascondere una leggera punta di
curiosità “Che cazzo di domanda è?”
“Una domanda come un’altra”
rispose pronta Nina, come se si aspettasse di sentirlo parlare così “Se vuoi
rispondo prima io, ma devi promettermi che dirai più di cinque parole di
seguito per esprimere un concetto. Se volessi parlare da sola, andrei dai
cavalli.”
Ormai doveva sapere dove
quella ragazzina aveva intenzione di andare a parare, era diventato un fatto di
principio. Più parlava, più comprendeva il grado di parentela che la legava al
Capitano Erwin; se tutti parlavano per enigmi, in quella famiglia, non osava
immaginare come si potesse vivere in quella casa.
“Sentiamo cosa vedi, allora.”
Nina incrociò le braccia
sotto al seno, inclinando di lato il capo e osservando attentamente. Sembrò
pensarci per bene, prima di parlare “Almeno una trentina di alberi, un
fiumiciattolo quasi in secca, campi…. Altri campi”
schioccò la lingua contro al palato, passando il peso da un piede all’altro,
sempre senza guardare verso Levi, sicura che si sarebbe spazientito “Libertà”
concluse infine, decidendo a quel punto di voltarsi per guardarlo negli occhi
per cercare dentro alle iridi verdi un’emozione. Poteva tenere un’espressione
neutrale, ma i suoi occhi erano vivi, accesi e trasparenti “Vedo un’insieme di
possibilità, di fronte a me. Se potessi, correrei lungo il crinale, come facevo
da bambina. Andrei fino al fiume e ci ficcherei dentro i piedi perché,
dannazione, scommetto che l’acqua è fresca e io ho cavalcato così tanto che mi
sento come se mi avessero impiantato la staffa nel calcagno. Mi stenderei
sull’erba e guarderei le stelle, cercando di scoprire se riconosco ancora i
disegni che ci vedevo quando, insieme a Rilke,
approfittavamo dei litigi di mia madre e di mio padre per scappare sul tetto e
rimanerci ore.” Solo quando smise di parlare, Nina si rese conto che Levi non
aveva assolutamente idea di chi stesse parlando o del perché lo stesse facendo
“Però i giganti potrebbero mangiarmi, visto che non è ancora calato il sole.
Erwin non credo mi permetterebbe di farlo, siamo solo in due medici.” mosse un
passo nella sua direzione, guardandolo con aspettativa e chinandosi un po’ per
mettersi alla sua altezza “E tu cosa vedi, grande guerriero?”
A quell’appellativo, Levi
inarcò un sopracciglio, non scostandosi però da lei “Io vedo più di un oggetto
che potrei usare per tramortirti e farti stare zitta, per iniziare.” Tornò a
puntare gli occhi verso l’immensità del niente che li circondava, mentre Nina
rideva piano “Vedo anche un grande spreco.”
Lei parve capire “Ci starebbe
proprio bene una fattoria qui, per un nuovo
inizio, non trovi?”
La reazione dell’uomo fu
esagerata, ma comprensibile. Nina non aveva usato delle parole casuali, lo
sapevano entrambi. La prese per un braccio, stringendo la presa mentre la
guardava con gli occhi sbarrati “Ti sembra un gioco questo?”
Nina, però, rimase
impassibile. Anzi, gli sorrise “Ho detto che sarebbe un bel luogo per vivere.
Perché?”
La ragazza sapeva che aveva
giocato col fuoco, ma era un esperimento il suo. Se non l’aveva pugnalata
quella mattina nei vicoli maleodoranti di Trost, non
l’avrebbe nemmeno lanciata dalle mura. Era giusto che lui sapesse che anche lei
aveva capito qualcosa, che sapeva che aveva rischiato portandolo con sé.
Ma che erano ancora lì
entrambi e avrebbero potuto continuare così.
“Ehi tu!” Ed misurò la
distanza che lo separava dei due con ampi passi “Lasciala andare, subito!”
“Va tutto bene” disse Nina,
alzando una mano per fargli segno di non fare un altro passo, poi si rivolse a
Levi, andando a stringergli il polso “Perché va tutto bene, no?”
La presa sul braccio si fece
debole, fino a che l’uomo non la lasciò andare del tutto. Passò accanto a Ed,
andandosene verso le rovine del castello, mentre la giovane si massaggiava
piano sopra al gomito, osservandolo fino a che non sparì, nascosto da un muro
diroccato.
“Ha una presa decisa,
l’amico” commentò con tono quasi divertito, facendo sbarrare gli occhi di
Reynolds.
“Smettila di fare così.”
Nina sollevò gli occhi su di
lui, mentre le sue sopracciglia si inarcavano per lo stupore “Così?” domandò.
“Come se valesse la pena
spendere del tempo con lui. Hai tanti spasimanti, trovatene uno che sia meno
pericoloso.”
Con quell’ultima affermazione
dalla sfumatura infelice, il ragazzo tornò verso il carro per aiutare Nick e Eldo con i rifornimenti.
Nina rimase appoggiata con i
fianchi al parapetto delle mura, continuando a massaggiarsi il braccio.
Quello non se lo aspettava
proprio.
La notte era passata
abbastanza in fretta, senza intoppi.
Ad accoglierli la mattina
sembrava esserci un cielo capriccioso che prometteva pioggia.
Nina aveva dormito almeno tre
ore e si sentiva abbastanza fiera di quel piccolo record personale.
Solitamente, quando uscivano in missione, trovare riposo la prima notte era
pressappoco impossibile. Per la maggior parte degli uomini, era così, in modo
particolare per le reclute.
Nemmeno gli ufficiali avevano
l’aria poi così riposata, ma l’aria fredda della mattina, unita alla
possibilità di incontrare dei giganti rendeva particolarmente attivi i soldati,
a prescindere da quanto avessero riposato.
“Ricordati il fumogeno viola
per l’assistenza medica!” ripeté per l’ennesima volta a Kaulitz,
uno dei cadetti alla prima missione, avanguardia sinistra. Lei aveva il compito
di occuparsi di quel quadrante, visto che il gruppo dove militava, quella del
Capo Squadra Ness, aveva come obiettivo di far strada
alla fila centrale dei carri.
Per il fianco destro c’era il
Tenente Renson, il suo diretto superiore dell’unità
medica, che si occupava della quarta squadra in quella direzione.
Nina sistemò il cavallo,
cercando di ricordarsi più o meno la posizione di tutti i gruppi sparsi. Era un
esercizio mnemonico non da poco, ma doveva essere veloce in caso di emergenza.
Con la coda dell’occhio
adocchiò Farlan, Isabel e Levi mentre salivano sui
cavalli. Lei si premurò salire sul suo, prima di avvicinarsi “Dormito bene?”
domandò un po’ ironica, notando la faccia che tutti e tre avevano.
Certo, rimanevano più
rilassati degli altri all’apparenza, ma sembravano provati.
Sicuramente non avevano chiuso
occhio e Nina sperò che a tenerli svegli fossero stati solo i pensieri sui
giganti.
“Diciamo che un’altra ora non
l’avrei rifiutata” le rispose Farlan, mentre Isabel
sbadigliava.
“Alla sveglia prima dell’alba
non ci si fa mai l’abitudine” lo rassicurò lei, prima di spronare il cavallo a
muoversi lungo il crinale.
Scambiò uno sguardo con Levi
e lei gli sorrise, prima di raggiungere Erwin, che guardava oltre l’orizzonte.
“Tu cosa vedi?” le chiese e
Nina, per risposta, esplose a ridere.
“Che siamo proprio parenti!”
Nina era, per natura, una
persona fortemente ottimistica.
Persino lei però si sentì
parecchio sconfortata, quando la nebbia fitta iniziò ad avvolgersi attorno a
loro come una pesante coperta grigia.
“Capo Squadra, cosa
facciamo?” chiese Nick, mentre si teneva con una mano il cappuccio verde sul
capo, cercando di vedere nonostante gli occhiali bagnati di pioggia.
Ness, zuppo dalla bandana sul capo fin dentro alle
mutande, teneva gli occhi il più rivolti verso il cielo possibile. Sarebbe
stato impossibile vedere un fumogeno con quel tempo, quindi la risposta era
tristemente ovvia “Procediamo in linea retta! Il Comandante Shadis
si è raccomandato di non fare deviazioni di direzione!”
Sembrava una teoria un po’
debole, ma non c’erano soluzioni, così procedettero.
Il clima peggiorava sempre di
più e alla pioggia e alla nebbia andò sommandosi un vento forte, che
schiaffeggiava i loro visi.
“Fortuna che è primavera!” fu
il commento sarcastico di Ed, mentre Nina cercava invano di scostare i capelli
zuppi dal viso e dal collo.
Il pericolo era triplicato,
perché ora non rischiavano solo di essere divorati da un istante all’altro ma
anche di scontrarsi con altre unità. Perdere l’orientamento non sarebbe stato
così strano, non si vedeva ad un metro dal naso.
Un nitrire impazzito attirò
la loro attenzione e dal nulla, un cavallo dal manto dorato sbucò, tagliando
loro la strada e facendo impennare la cavalcatura del Capo Squadra. Tutti
tirarono le redini, mentre la bestia debitamente addestrava si fermava affiancandosi
a loro, scalpitando e nitrendo spaventata.
Nick, che era il più vicino,
scese andando verso di essa e tirandolo per le redini. Quando ritrasse la mano
dal suo collo, essa era sporca di sangue. Scambiò uno sguardo con i compagni,
prima di sollevare il bordo della sella, deglutendo rumorosamente “A-appartiene a Lahm. Dove si
trovava?”
“Tobias
Lahm?” chiese Nina, facendo mente locale. Quando
realizzò che sapeva bene in quale unità si trovasse l’uomo, sbiancò “Il quarto
gruppo, lato destro. È l’unità di Renson!”
“Dannazione. Potremmo aver
perso tutta la copertura dell’avanguardia?” mormorò Jutah,
stringendo fra le mani le briglie.
“Signore!” Nina si accostò
con cavallo a quello di Ness, che la guardò “Chiedo
il permesso di andare. Potrebbero esserci dei sopravvissuti e soccorrerli.”
“La tua area di competenza si
estende solo al fianco sinistro, però” le ricordò il Capo Squadra, riluttante
al pensiero di lasciarla andare.
“Lo so, ma potrebbe non
esserci più un medico per quello destro.”
Ness ci pensò su, prima di sospirare pesantemente “Va
bene. Fa ciò che devi. Reynolds e Gin verranno con te.”
Nina annuì, “Sì, signore.”
Scambiò un veloce sguardo di
intesa con Ed e Eldo, mentre Nick risaliva sul
cavallo solo dopo aver assicurato le briglie dell’altro alla sua sella “Cercate
di tornare interi, ragazzi.”
“Lo faremo.” Ed gli strinse
l’occhiolino prima di lanciarsi dietro a Nina, che era già partita di gran
carriera verso la posizione che, teoricamente, doveva avere assunto la quarta
divisione.
Quando non li trovarono,
iniziarono a risalire verso sud.
“Possibile che si siano
fermati così indietro?” domandò Eldo, affiancato alla
bionda.
Lei portò il medaglione
dorato di suo nonno alle labbra, tesa “Dipende dove li hanno attaccati.”
Lo scenario che si aprì di
fronte ai loro occhi era raccapricciante.
La quarta unità era stata
distrutta completamente e pezzi di cadaveri giacevano a terra straziati,
insieme ai cavalli.
Il sangue tingeva di rosso
l’acqua piovana che scorreva fra le rocce e l’erba in un fiume vermiglio,
regalando uno spettacolo che Nina sapeva non si sarebbe mai tolta dalla mente.
“Ehi! C’è nessuno!” urlò con
tutta la voce che aveva nei polmoni, “Tenente!” chiamò ancora e ancora,
avanzando fra i corpi.
Ed prese dalla scatola dei
fumogeni uno nero “Questa è l’opera di un anomalo” disse più a se stesso che
agli altri, prima di alzare la pistola e sparare.
Nina non l’aveva ascoltato.
I suoi occhi erano fissi su
un ammasso di carne scomposta, lasciata a terra come spazzatura.
Non era possibile riconoscere
a chi appartenesse, se non fosse stato per la fascia bianca che teneva attorno
al braccio sinistro. La ragazza si chinò, sfilandola con accortezza, come se
temesse di ferirlo, mentre una lacrima cadeva mista alle gocce di pioggia sul
giglio rosso ricamato.
“Tenente…”
sussurrò sconfortata, stringendo la fascetta fra le mani.
Non c’erano superstiti.
Non c’era più il primo
ufficiale medico.
Per qualche minuto, persino
la speranza scomparve.
Poi apparve lui.
Il nitrito della cavalla la
costrinse ad alzare il capo mentre dalla sua pozione, inginocchiata fra il
fango e il sangue che appestava l’aria, poteva vedere solo parzialmente la
persona che era giunta sino a lì. Ammantata e nascosta dalla nebbia, per un
attimo, le parve quasi una visione immaginaria, ma quando realizzò che si
trattava di Levi, si alzò in piedi.
Doveva chiedergli cosa ne era
del resto della squadra di Flagon.
Non le diede il tempo di
farlo.
Girò il cavallo e partì di
nuovo, al galoppo.
“Levi!” urlò, cercando di
fermarlo.
Si ficcò la fascetta nella
tasca interna della giubba, sotto alla mantella, prima fischiare. Il cavallo la
raggiunse e lei montò in groppa con un singolo salto agile.
Ed improvvisò una corsa verso
di lei “Nina! Nina, cosa stai-”
“Vai!” la giovane spronò il
cavallo, che partì di gran carriera, non permettendo all’amico di terminare la
frase.
“Nina!” la chiamò con tutto
il fiato che aveva in gola, ma lei non si fermò.
Sparì, inghiottita dalla
nebbia.
Inseguendo lui.
Nina cavalcò da sola nella nebbia
solo per cinque minuti, ma furono in assoluto i cinque minuti più lunghi di
tutta la sua vita.
Fu straziante e spaventoso.
Era terrorizzata e
determinata allo stesso tempo, le faceva male il cuore tanto batteva veloce
contro al suo costato.
Sentiva che doveva essere
successo qualcosa di orribile.
Se Ness
aveva ragione e avevano perso tutto il fianco destro, allora…
“Siamo completamente nella merda, Arold” disse
rivolta al cavallo, spronandolo ad andare ancora più veloce.
La nebbia iniziò a diradarsi,
localizzandosi in tanti banchi circoscritti e iniziando a permetterle di
guardarsi attorno.
Allora
vide, poco distante, cinque giganti.
Sentì
il sangue ghiacciarsi nelle vene quando, guadagnati altri cinquanta metri, vide
che da solo a fronteggiarli, c’era Levi.
Al
centro di uno spiazzo aperto.
“Levi!”
urlò di nuovo, più forte, decidendo di andare avanti anche se cinque giganti,
per due persone, erano troppi.
Erano
un suicidio.
Non
fece comunque in tempo a raggiungerlo che già tre erano a terra, morti.
Guardò
con gli occhi spalancati la scena, fermando il cavallo.
Un
altro cadde, poco distante da lei, facendo nitrire la bestia che montava.
L’uomo
era così veloce che faticava a seguirlo con lo sguardo nonostante la nebbia si
fosse diradata.
Sconvolta,
Nina non si rese conto dei corpi a terra.
Quando
fu tutto finito, quando tutti i giganti vennero sconfitti, scese da cavallo con
le gambe che tremavano, cercando di riscuotersi.
Osservò
Levi inginocchiarsi accanto alla testa mozzata di un soldato dai capelli così
rossi da apparire come il fuoco vivo, chiedendosi come fosse possibile. Isabel
era morta e di lei era rimasto ben poco da poter piangere. Poco distante, con
il corpo strappato a metà, c’era anche Farlan.
Nina
deviò, avvicinandosi a lui e lasciandosi cadere con le ginocchia tra il fango,
con le mani nascoste fra le cosce e lo sguardo sbarrato.
Improvvisamente
le tornarono in mente le parole di suo fratello.
Un uomo che non ha niente da perdere,
non ha nemmeno niente che non rischierebbe.
Si
sbagliava. Si sbagliavano entrambi, visto che lei gli aveva creduto. Levi aveva
qualcosa che poteva perdere e loro, con le macchinazioni politiche e il
doppiogioco, glielo avevano portato via.
La
sola cosa che provò Nina, oltre a quel rimasuglio di paura che le torceva lo
stomaco e la nausea per lo spettacolo che le si presentava di fronte, era il
senso di colpa.
Forse
avrebbe dovuto denunciarli alla Guarnigione di Trost.
Se
l’avesse fatto, non sarebbero mai usciti all’esterno.
Se
l’avesse fatto, non sarebbero morti così e Levi non sarebbe rimasto solo a
seppellire quel poco che aveva.
Allungò
la mano tremolante, chiudendo gli occhi di Farlan e
appoggiando le sue braccia sul petto.
Solo
ora che li vedeva morti, comprendeva cosa erano davvero: ragazzi di strada, non
addestrati e buttati in pasto ai giganti solo perché volevano una vita
migliore.
Una
vita vera, sotto a un cielo stellato che non puzzasse di muffa e rancido.
Gli
appoggiò una mano sulla spalla, come a volersi scusare, prima di cercare di
alzarsi. Non dovette sforzarsi molto, visto che venne tirata su di peso.
“Tu!
Tu sapevi!” Levi la tenne sollevata per il collo della camicia scuotendola
senza delicatezza mentre ringhiava direttamente coltro al suo viso. Nina gli
afferrò i polsi, cercando di tenersi sollevata, ma non aveva forza nelle
braccia. “Dillo! Sapevi che sarebbe finita così eppure l’hai permesso!”
Ci
fu un istante nel quale Nina cercò una giustificazione, in cui razionalmente
voleva spiegargli che non poteva aver causato lei quel tempo avverso e che non
poteva prevedere quel gruppo di giganti…
Ma
sarebbe stato ancor più egoista.
Gli
occhi le si riempirono di lacrime mentre realizzava che sì, non aveva fatto
salire lei la nebbia, ma che aveva portato avanti il progetto di Erwin stando
in silenzio.
“Mi
dispiace, Levi. Perdonami, ti prego.”
Il
corpo dell’uomo ebbe uno spasmo, mentre la guardava incredulo, come se si
aspettasse qualsiasi altra risposta, tutto ma non quello. Sembrava quasi che
avesse sperato in una bugia, ma Nina
non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi e mentirgli.
La
lasciò cadere, mollando la presa sul colletto e Nina cadde nuovamente a terra,
alzando un braccio per aggrapparsi alla cinghia sulla coscia dell’uomo. Le sue
spalle vennero scosse dai singhiozzi, mentre teneva il viso chino verso il
terreno.
“Perdonami…”
Lui
si staccò con un movimento secco e lei rimase così, alzando il capo solo quando
sentì la voce di suo fratello.
No,
Erwin. Non doveva avvicinarsi.
Nina
cercò di alzarsi, scivolando nel fango. Levi le dava le spalle, volto verso
l’arrivo delle due persone a cavallo.
“Erwin!
Vattene!” urlò Nina, sentendo la gola in fiamme.
Non
servì a niente e a lei non rimase altro se non rimanere pietrificata lì, a
terra, mentre Levi si lanciava contro suo fratello con le spade sguainate.
In
quel frangente, dimenticò di essere all’esterno.
Si
dimenticò dei giganti e della formazione.
Dimenticò
persino la Morte.
Nda.
Ecco
qui il nuovo capitolo!
Ho
volutamente interrotto la prima parte con tutto questo pathos perché sono una
persona orrenda…
…
soprattutto perché il prossimo sarà ambientato a Trost
e non riguarderà Nina, almeno non nella parte presente!
Un
paio di puntualizzazioni veloci: Perché Nina ha delle bende attorno al busto,
sul seno? Perché non esistevano i reggiseni sportivi
nel medioevo/mondo passato/apocalisse futura o come lo intendete voi. indi per
cui cavalcare doveva essere qualcosa di impossibile da fare, soprattutto per
molte ore, se non tenendo le gemelle al sicuro e ben strette al corpo. Questo è
un tipo di accortezza che alcuni sportivi hanno ancora oggi, per esempio le
ragazze che praticano il karate, sotto alla protezione, molto spesso si bendano
il petto per evitare di provare fastidio.
Ho
cercato di narrare un po’ la storia di questo paese, di cui spero di aver modo
di rivelare il nome presto o tardi, lasciato deserto a causa dell’arrivo dei
giganti. La storia è ricca di avvenimenti come questo, come Prypriat
per esempio o altri città lasciate deserte a causa di guerre o avvenimenti
catastrofici. Credo che la metafora della tavola imbandita lasciata deserta sia
un immagine forte. Ti fa pensare.
Come
un bambino nascosto sotto al letto, lasciato solo da genitori sicuramente
finiti sbranati. Domando scusa se ho turbato qualcuno con questa immagine, i
bambini sono un argomento delicato e lo capisco, ma se volete qualcosa di soft
non è proprio il fandom adatto in cui cercarlo.
Ho
iniziato anche ad introdurre un po’ la storia di Nina, il suo background e la
sua famiglia. In particolare, ho marciato un po’ sul rapporto con sua madre, ma
ho intenzione di dedicare a tutti loro un capitolo in particolare, da un punto
di vista particolare.
Il
racconto dalla missione oltre le mura…
Allora,
ho scelto volutamente di seguire più il manga dell’anime perché, secondo me, è
più bello. Tutto qui. Da più ‘figaggine’ a Levi e Farlan… Che lo saluta prima di morire….
Avete
capito insomma.
Detto
questo, vi saluto e vi ringrazio per avere letto fin qui.
In
particolare, mando tanti coriandoli e glitter ai due
angeli, Auriga e la mia compagna di chiacchiere no sense
Shinge, per avermi commentata.
Ringrazio
anche RLandH che è una stronzetta
che commenta una volta ogni morte di cristo, ma con la quale sto plottando l’implottabile.
Spero
di riaggiornare presto!
Un
saluto a tutti,
C.L.
.