Titolo: Dipingimi distorto come un
angelo anormale, che cade
Fandom: Captain America
Personaggi/Pairing: Bucky
Barnes, Steve Rogers, vari; Steve/Bucky
Genere: Dai.
È quel verse. Lo sapete.
Avvertimenti: dopo svariate
sudate per convincermene...
Dean!Steve, Cas!Bucky (e Sam!Sam \o/ Solo io trovo
divertentissima la
cosa?), End!Verse
Parte: 4/?
Rating: Arancione
Conteggio
Parole: 1676
Riassunto: (...) vorrebbe chiedergli se ricorda
di
tutte le volte che ha desiderato per lui una fine migliore per un
Angelo del
signore. Se ha mai trovato l’album pieno zeppo di suoi
ritratti. Raccolta Destiel!Stucky senza
né
come né perché.
Note: Io vi giuro
che era partita come una flashfic come le altre. Non so
cos’è successo. Non so
come mai c’è del mezzo p0rn e perché
sembro essere particolarmente affezionata
alla Steve che fa bocchini/Bucky che non riesce a ricevere un bocchino
come si
deve (vedi).
Mi volete bene lo stesso? :*
Il titolo è ripreso da Until We
Bleed.
Dipingimi
distorto come un angelo anormale, che cade
4 – and if bridges gotta
fall
Lasciano New York come ultima
città in cui tornare.
Dum Dum sta indossando
un paio di occhiali da sole vecchi di anni, senza una
lente. “Alla faccia della Grande Mela,”
commenta, sorridente, la faccia sporca di fuliggine. Gli è
caduto l’ennesimo
dente, fatto saltare dal gruppo di croats
nascosti dentro l’ultimo diner che hanno saccheggiato. La
donna responsabile
della gomitata sulla sua mascella ha avuto giusto il tempo di vederlo
sputare e
sorridere, le labbra macchiate di sangue, prima di cadere a terra a
causa del
proiettile che le ha perforato il cranio. “Ah, Francia
mia,” sospira, senza
terminare la frase.
Bucky non può
fare a meno di pensare a quanto, ora più che mai, assomigli
davvero ad una grande mela - da cui è stato strappato un
morso. Il sole di
giugno, impietoso, scintilla sui cumuli di ruggine e ferro, sui bidoni
devastati, sugli edifici divelti come sullo scheletro di un cadavere in
putrefazione. La Cherokee si lamenta ad ogni metro, gli ammortizzatori
e le
sospensioni affaticate dalle strade distrutte, e il radiatore
è sul punto di
cedere. Alla radio mandano Wish You Were
Here. Morita,
alla guida, lo considera fottutamente divertente, soprattutto
perché è in ripetizione da ore, il conduttore
probabilmente ucciso o infettato
dal virus.
Seduto al suo fianco,
Steve scruta la mappa nelle sue mani e aggrotta le
sopracciglia, lo sguardo scuro, mentre un muscolo della sua mascella si
contrae. Non è mai stato un tipo emotivo, il loro capitano: di questi tempi il suo stato
d’animo lo si intuisce dalla
violenza con la quale si reprime e chiude in se stesso.
“Bushwick Ave. Lì ci
separeremo. Ci si rivede alla macchina alle cinque di questo pomeriggio
e non
più tardi.”
Nessuno commenta,
perché, in tempi come quelli, far tardi non vuol dire nulla
di positivo. Bucky aspetta che la macchina si fermi e scivola via,
silenzioso,
scassinando la prima automobile abbandonata in cui si imbatte e
sperando per la
sopravvivenza di tutti e tre. Per come la racconta da sempre Steve, New
York
era una città talmente rumorosa da dar fastidio, sempre in
movimento, piena di
vita: gli bastano due ore per verificare la gravità dello
sterminio avvenuto e
avere i brividi a causa del silenzio innaturale, della desolazione e
del
terrore che aleggia nell’aria, come se la città
fosse stata evacuata e i suoi
abitanti non avessero mai passato anni ad uccidersi a vicenda.
È facile mettere
da parte una quantità più che sufficiente di
provviste, così facile che si
chiede come se la cavino gli altri con il loro lavoro.
L’ora di
pranzo lo trova a staccare morsi al proprio panino. Puzza di bruciato,
Boerum Hill, e il formaggio è andato a male, così
decide di non rischiare e si
prepara per un ultimo giro di ricognizione prima di tornare al punto di
partenza. La Subaru su cui ha messo le mani ha ancora il serbatoio
carico di
benzina e la Beretta riposa tranquilla nella sua fondina, inutilizzata;
è andata
meglio del previsto, si dice, prima di sentire un urlo e il rumore di
uno sparo
provenire dalla casa di fronte alla quale è parcheggiato.
Jim è contro
il muro, la canna di un fucile contro la sua tempia. “Cosa ci
fa
una bambola come te in un posto del genere?” domanda,
sornione, le braccia
rilassate ai suoi fianchi, una smorfia ironica a contorcergli il viso.
La
ragazza scuote la sua testa bionda con violenza, ma le sue dita
rimangono
lontane dal grilletto e, nel vederlo fare irruzione nella stanza, ha
l’espressione
di chi sa già di aver perso in partenza. Quando il fucile le
scivola dalle mani
Bucky è costretto a chiudere gli occhi. “Prevenire
è meglio che curare,” gli ricorda
Morita, mirando al petto della sconosciuta e fissandone il corpo andare
giù con
un tonfo secco, definitivo.
Kuebiko, pensa. Quando sono diventato
così umano? Sospira.
“Non dovresti essere
qui. Non dovremmo essere qui.”
“Dammi tregua,
Barinael,” risponde, chiamandolo con un nome che non gli
appartiene più. “I newyorkesi sono stati talmente
impegnati ad uccidersi l’un
l’altro che non ho trovato né armi né
munizioni. Forza, dammi una mano a
perquisire anche qui.”
Bucky si guarda intorno.
Non è rimasto nulla, dal 1983, che faccia pensare a
Sarah, al marito e ai suoi due figli, all’incendio in cui
è morta, anche
perché, in fin dei conti, non c’è
niente che testimoni la presenza di esseri
umani. Osservando le tende ingiallite svolazzare ai lati delle finestre
spalancate, gli sembra non sia passato molto, dalla tragedia che si
è consumata
all’interno dell’appartamento, seppur le pareti
rovinate dall’umidità
raccontino il contrario: i mobili sono ancora intrisi di sangue, col
tavolo con
le gambe rotte finito dall’altra parte rispetto al punto in
cui era
originariamente e le pagine dei libri caduti dalla libreria
sparpagliate sul
pavimento. Il suo scarpone fa troppo rumore, pestando i resti del
televisore
distrutto.
“Ehi, hai mai provato l’LSD?” gli chiede Morita, dopo qualche minuto. Fa finta di ignorarlo.
Bucky è nel
letto a dormire.
Steve lo sa
perché, oltrepassando il vuoto che c’è
al posto della porta del suo
alloggio, lo scuote ripetutamente per fargli riprendere coscienza,
chiamandolo
forte, con fretta. La stanza è abbastanza quieta da rendere
rumoroso il fruscio
del cuscino nel momento in cui viene sollevato e inquietante la
rimozione della
sicura della Glock accanto al punto caldo in cui si trovava la testa
dell’uomo
precedentemente sdraiato. Si è tirato a sedere, Bucky,
all’erta ma disorientato.
Non è estraneo alle situazioni di emergenza, ma per aver
portato il leader
senza macchia e senza paura in casa sua deve trattarsi di qualcosa di
incredibilmente urgente. “Che succede? I croats sono qui?
Cosa?”
L’altro ride - di gusto, addirittura,
buttando la testa all’indietro e scuotendo la testa, il primo
segno di qualcosa
che non va, il suono distorto e derisorio, un vago ricordo della sua
felicità. Alzandosi
in piedi, barcollando e ricadendo sul materasso, ancora assonnato,
Bucky si
rende conto che gli è talmente vicino da impedirgli di
allontanarsi dalla
posizione in cui si trova, e quando i loro sguardi
s’incontrano la flebile luce
della notte gli permette di rendersi conto delle sue pupille dilatate
all’inverosimile.
“Hai rimesso assieme il mio corpo,” gli risponde,
senza senso, un singhiozzo a
scuotergli il corpo e gli occhi divertiti. Ha bisogno di toccarlo. Sghignazza: “Io
vorrei solo cadere a pezzi nelle tue
mani,” confessa, mordendosi un labbro, incontrando di nuovo i
suoi occhi. Non
riesce più a ricordarsi per quale motivo ci sia ancora
così tanto spazio fra di
loro, perché siano così lontani, quando ha
così bisogno di lui - l’unica
ragione che lo fa ancora rimanere in piedi, combattere, non perdere le
speranze
- e appena la sua mano entra in contatto con un lato del suo viso
smette di
tremare e sorride, sorride, sorride.
Perciò, con
un movimento veloce, fa in modo che le loro labbra si incontrino.
Bucky sente qualcosa
scivolare sulla sua lingua e si costringe ad ingoiare, a
fatica. La bocca di Steve è prepotente, vorace, ingorda e
non gli lascia il tempo
di riflettere, mentre lo spinge sulla branda e lo copre col proprio
corpo. Lui
lo lascia fare, improvvisamente del tutto sveglio e sconvolto dal suo
comportamento
e dalla propria incapacità di reagire. Gli sembra di essere
consumato da un
fuoco lento e che ogni terminazione nervosa sia in procinto di
esplodere,
lasciandolo in balia della propria mente e amplificando ogni tocco,
ogni
rumore, ogni odore.
Per quanto continui a
fidarsi di Steve vorrebbe chiedergli cosa diavolo gli
abbia appena fatto. Sentendosi sfilare la cintura e i pantaloni emette
un
ansito, spaventato. “LSD,” risponde lui, come ad
avergli letto nel pensiero,
una nota euforica nel suo tono di voce. Sembra ringiovanito di qualche
anno.
Bucky sente il principio di un mal di testa - non sapeva nemmeno di
riuscire a
provarla, la nostalgia. “Starai
bene,” continua, quasi ironico, levandogli di dosso
l’intimo, lasciandogli un
bacio sulla mascella e scomparendo dalla sua vista.
Ginocchioni ai piedi del
letto, in mezzo alle sue gambe, l’Uomo Giusto osserva
il suo cazzo con la stessa concentrazione di un tiratore scelto sul
campo, come
se dopo anni di domande avesse finalmente trovato una risposta. Non
c’è traccia
di esitazione in lui, mentre si avvicina al suo bacino: il primo
contatto con le
sue labbra lo lascia talmente senza fiato che è costretto a
chiudere gli occhi
e a respirare profondamente. Gli gira la testa, come se nel suo
cervello
stessero scoppiando dei fuochi d’artificio. La lingua di
Steve lo avvolge senza
pietà, esperta. Ricorda una conversazione passata, una
velata allusione al bisogno
di soldi in gioventù e l’amarezza di dover
nascondere alla famiglia i soldi che
conservava per i vari compleanni di Sam, e all’improvviso non
riesce più a
pensare perché poi―
Poi―
È un rumore
così acuto che a malapena riesce a percepirlo. Ha la testa
talmente
dolorante che gli sembra di averla rotta e i suoi timpani sono in
condizioni
addirittura peggiori - è abbastanza sicuro che il calore che
sente scivolare
lento sul suo collo sia provocato dal sangue che scende dalle sue
orecchie.
Bucky se ne rende a malapena conto, abbagliato. Era convinto di aver
dimenticato qualsiasi cosa non riguardasse la sua forma corrente, che
il
proprio cervello umano non riuscisse a sopportare il semplice ricordo
del prima, e si sente a un passo dalla
morte, ma lo splendore dei giardini del Paradiso è lo stesso
di quando gli era
permesso di camminarci e le voci dei suoi fratelli risuonano potenti
nella sua
testa, tanto da lasciarlo in dubbio. Si sente così alieno, in
quell’involucro che non gli appartiene, lontano dalle
schiere celesti, che allunga una mano e apre gli occhi, sicuro di star
avendo
un’allucinazione ma speranzoso del contrario: è
così che l’illusione si spezza
e lo riporta alla realtà, sulla Terra, mortale, solo.
Non commenta, Steve,
mentre i suoi stivali risuonano delicati sul pavimento e
se ne va. Bucky osserva il buio, indifferente alle lacrime che gli
scorrono
sulle guance, svuotato di qualsiasi emozione: gli pare di vederci le
chimere
create dalla propria immaginazione.