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Autore: LB Shadow    10/08/2016    8 recensioni
IN PAUSA REVISIONE (REVISIONE IN CORSO, L'ULTIMO CAPITOLO ANCORA DA CORREGGERE)
*
Questa storia parla di ossessione, di orgoglio ferito, di passioni che scavano nel profondo.
Ma anche di hamburgers mastodontici, cuochi incompetenti, giudici psicotici, magia nera e vendette efferate quanto, alla fin fine, improbabili.
O forse no, chi lo sa, magari il destino ha in mente qualche scherzo. Partiamo dall’inizio, vi va?
Un terribile evento ha allontanato Arthur Kirkland, chef inglese di dubbie speranze, da Londra e di lui non se n'è saputo più nulla.
Fino ad ora.
Dopo un anno, infatti, Arthur è tornato, portando con sé un giovane studente straniero al fine di ospitarlo. Dietro ai suoi modi gentili sono però nascosti un bruciante desiderio di rivincita verso chi l'ha costretto a fuggire e molti, troppi segreti.
I piani, però, verranno messi duramente alla prova. Incidenti di percorso e sentimenti che si credeva ormai appartenenti al passato travolgeranno sia lui che chi gli sta attorno in una spirale da cui nessuno uscirà illeso.
È davvero possibile vincere contro dei mostri quando in realtà fanno parte di noi? Chi è l'eroe e chi il cattivo della storia?
*
(presenti più possibili ship, anche oneside, a vostro piacere)
Genere: Commedia, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Cucine da Incubo
 
II
 

 
 
Arthur si svegliò in un bagno di sudore, dopo una notte di sogni confusi che lo avevano fatto penare, ricordi riaffiorati quando lo avevano scoperto più vulnerabile. Le lenzuola si erano aggrovigliate attorno alle gambe, ai fianchi e al torso imprigionandolo come fosse stato una mosca. I denti gli facevano male: li aveva digrignati forte nel sonno, poteva sentire un leggero sapore di sangue posato sulla lingua arida. Sbatté le palpebre, pugnalate dai fasci di luce bianca che filtravano dalle persiane. Cavoli, era come essere reduci di un dopo-sbornia.
− Devo smetterla di andare nel mio antro prima di andare a dormire, mi succede sempre così – borbottò, girando il fianco. Non aveva nessuna voglia di alzarsi.
A convincerlo fu il bussare alla porta della sua camera.
− Mr Kirkland? Mr Kirkland? Si svegli sono già le otto! – lo incitò Toris da fuori.
Arthur soffocò una bestemmia nel cuscino.
− Lasciami ancora cinque minuti... – borbottò, alzando il volto quel tanto che bastava per farsi sentire.
“La sera leoni, la mattina coglioni” pensò Toris, prima di ritentare.
− Se mi accompagna in cucina le preparo una colazione fantastica!
Nessuna risposta. Si passa al piano B.
− Ok, vuol dire che mi arrangerò da solo...
Come il ragazzo si era aspettato, non fece ora a finire la frase che si sentì un gran rumore da dentro la stanza, come un sacco di patate che cade, e in pochi secondi Arthur aveva aperto la porta, esibendosi in tutto il suo splendore mattutino: canottiera, boxer e capelli ancora più scompigliati del solito. Il suo sguardo era così torvo che si sarebbe potuto utilizzare come meme al posto del Grumpy Cat.
− Non osare – sibilò, indirizzando il suo dito indice al naso di Toris – entrare in cucina senza di me.
− Nossignore.
Arthur passò una mano tra i capelli, sbadigliando apertamente: non era ancora abbastanza sveglio per ricordarsi le buone maniere. – Ok, allora, andiamo a preparare questa colazione fantastica, ne ho proprio bisogno...
− Ehm, signore?
− Che c’è?
Toris abbassò lo sguardo a indicare l’abbigliamento non proprio consono dell’uomo. L’altro fece lo stesso e, rosso come un bus, tornò in camera a vestirsi.
“Cavoli, che tipo...” pensò il ragazzo, scuotendo forte la testa in un sospiro tra il divertito e il rassegnato. − L’aspetto davanti alla cucina, d’accordo? – disse alla porta prima di andarsene.
 
La colazione non fu fantastica come promesso da Toris, poiché le scorte in dispensa erano quasi esaurite. Si limitarono a tè Ceylon con gli ultimi biscotti rimasti, degli shortbread per la precisione, consumati sempre nella sala da pranzo.
Arthur girava il cucchiaino nel suo tè in un moto irrequieto, non si sapeva se fosse nervoso per la mancanza di cibo o se per essere stato scoperto non proprio nella sua forma migliore. Fatto sta che Toris cercò di non farsi notare mentre lo osservava al di sopra della tazza, incerto se parlagli di una certa cosa o meno.  
− Dovremmo fare la spesa – borbottò Arthur, stufo di giochicchiare.
− La faccio io, se vuole.
Arthur lo guardò storto − Ma tu non stavi male ieri per il troppo lavoro? Lascia stare, non voglio che ti affatichi troppo.
− Ma oggi sto meglio! – protestò Toris – E poi lei non doveva andare da quel... Alfred, si chiama?
Arthur raggelò: si era completamente dimenticato di Alfred e dell’appuntamento per quella mattina. Di colpo si ricordò che aveva anche un lavoro, perbacco.
− Forse hai ragione, Toris. Ti faccio la lista della spesa, così non avrai problemi.
Il ragazzo mugugnò una risposta affermativa, agitando il cucchiaino a mezz’aria e osservando i riflessi del sole che riuscivano a raggiungerlo dalla finestra nel salotto attiguo. In sala da pranzo non c’erano finestre, erano immersi in una strana penombra mattutina dovuta al fatto che nessuno si era curato di accendere la luce. Pareva di stare in una grotta.
Alla fine si decise a sputare il rospo: − Signore... stava scherzando ieri quando diceva che avrebbe cominciato a lavorare con il nuovo proprietario? Insomma, non vorrà dirmi sul serio che è andato per prendere un paio di panini ed è stato assunto su due piedi così?
Arthur lo guardò, pensoso: in effetti la situazione era alquanto fuori dal comune.
− No, non stavo scherzando. Si tratta di un moccioso estremamente impulsivo, ha deciso che da oggi sarei andato là a parlarne e iniziare un periodo “in prova”.
Toris fece una piccola smorfia infastidita che lo incuriosì. Alzò un sopracciglio, severo.
− Che c’è, non ti va che ritorni al mio vecchio posto di lavoro?
− N-no! Anzi... – si scusò subito Toris, scattando sulla sedia – Ѐ solo che... che mi sento a disagio, dal momento che dovrei essere io a trovarmi in fretta un lavoro, sa, per poterle pagare la permanenza. Invece è già una settimana che sono qui e ancora sono inoccupato. Ok che c’è la crisi eccetera, ma ho tanta buona volontà! – Il suo tono era talmente disperato che Arthur si impietosì.
− Hai provato a cercare sul giornale?
− Certo che sì, anche su internet, ho mandato curriculum a destra e manca ma non sono l’unico che vuole un lavoro part-time e con un buon stipendio, quando io tra poco dovrei iniziare l’università. – gemette. – Ѐ stato anche per questo che ieri ero così stanco. Di tutte le e-mail che ho mandato, delle telefonate che ho fatto, niente! Neppure una risposta! – si mise la testa castana tra le mani, le ciocche s’infilarono tra le dita. Sospirò. − Forse dovrei accontentarmi di più lavoretti da poco conto, farmi le ossa e poco alla volta dovrei riuscire a ottenere denaro a sufficienza
− Di certo non si può fare gli schizzinosi.
− Non lo sono di certo. Mi adeguo, sa? Sono disposto a tutto!
La voce di Toris era aumentata di volume. Era incredibile che un ragazzo di solito così introverso sapesse mostrasse tanta determinazione. Arthur nascose un sorriso dietro alla tazza di tè portata alle labbra proprio in quel momento.
− Sei un ragazzo maturo e di buona volontà, vedrai che ce la farai. – lo rassicurò.
Toris sorrise, malinconico. Ah, se la sua tenacia fosse bastata per pagare le spese...
Ma da qualche parte il sole doveva pur brillare sopra il cielo grigio di Londra.
 
Quando quella mattina Arthur arrivò al The Eagle, lo aveva trovato chiuso. Erano circa le 9.15. Aveva aspettato mezz’ora abbondante prima che Toris lo chiamasse al cellulare:  voleva sapere la marca dei prodotti da acquistare.
− Ci sono decine e decine di biscotti diversi, quali prendo? E il curry? Lo prendo della “Sharwoods” o della “Dunns River”? – chiese agitato.
− Ti raggiungo subito – aveva risposto, stufo di guardare la porta serrata del locale; insieme ci avrebbero messo circa un’ora, senza contare il trasporto della spesa a casa. Chissà se in quel lasso di tempo si sarebbe deciso ad aprire
Al super, Arthur gettava i prodotti nel carrello con un po’ troppa energia. Toris accennò alla sua meraviglia, per il fatto che fosse tornato così presto: pensava dovesse avere una specie di colloquio con Alfred.
− A dire il vero −, disse Arthur scattando in avanti alla ricerca di un altro prodotto, stridendo le suole contro il pavimento liscio – lo pensavo anch’io, ma lui non c’era. La porta del locale era chiusa, dentro era tutto buio. Mi ha dato buca. – Ringhiò.
Toris sistemò il contenuto del carrello in modo che arrivasse integro perlomeno alla cassa.
− Signore, sono le nove e mezza di mattina, a quest’ora tutti i locali sono chiusi... tranne i bar e dove servono le colazioni...
− Ma lui mi aveva detto di trovarci oggi! E poi dovrà pure arrivare prima per preparare la roba, per pulire il salone, no?
Stava urlando. Toris si guardò intorno, imbarazzato, pregando che nessuno lo notasse.
− Signore, si calmi, la prego. – sibilò – Evidentemente è arrivato un po’ in anticipo.
− Non sono io in anticipo, è lui che è in ritardo.
− Per che ora avevate deciso di incontrarvi?
Arthur si girò, nel suo volto il completo smarrimento come se Toris avesse di punto in bianco domandato “perché i dinosauri si sono estinti?”.
− Ehm... ora? Non ha specificato, ha detto di venire oggi...
Ora era il momento di Toris per essere confuso.
− Vuol dire che non sa neanche se con “oggi”intendesse mattina o pomeriggio?
− Ehm... no.
Toris resistette alla tentazione di darsi una sberla in faccia, tanto per non offendere l’altro.
− Almeno ce l’ha il suo numero di telefono?
Arthur era diventato un pomodoro maturo. – No.
Toris prese un profondo respiro, espirò, ripeté l’operazione un altro paio di volte tanto per essere sicuro. Dopodiché estrasse dalla tasca del giubbino un foglietto spiegazzato.
− Ah, se non ci fossi qua io...
Il foglietto era lo scontrino dalla cena d’asporto della sera prima: sopra c’era scritto il nome del locale (“The Eagle” di Alfred F. Jones), l’indirizzo e anche il numero. Lo porse ad Arthur.
− Adesso lo chiami. Almeno il cellulare ce l’ha, siamo a un buon punto. – disse con un sorriso paziente. Arthur prese lo scontrino, borbottò un grazie domandandosi cosa pensasse realmente di lui quel ragazzo sotto quell’aria benevola e si allontanò mugugnando imprecazioni.
Premette i numeri sul display, quando, sul punto di premere il pulsante di chiamata, fu percorso da mille dubbi. E se quello di ieri sera fosse stata tutta una burla? E se non l’avesse trovato anche al telefono? E se avesse risposto, cosa avrebbe dovuto dirgli? Forse avrebbe dovuto far fare a Toris questo lavoro sporco, che lui era tanto bravo e premuroso e, oh guarda si è ricordato lo scontrino, ma sai ora dove lo avrebbe voluto ficcare lui quel dannato scontrino con lo stupido numero che lo avrebbe fatto parlare con quell’idiota divenuto proprietario del suo ristorante e lo aveva trasformato in un ammasso di roba yankee-kitch, quell’idiota con la risata assordante, e oh al diavolo.
Premette il pulsante della cornetta. Quello verde.
Il cellulare iniziò con il suo lento tu-tuu che risuonava come una presa in giro. Aspetta un altro po’, hai già aspettato un anno, che ti costa?
Arthur si portò le unghie alla bocca, mordendole, rompendole, resistendo alla tentazione di sputarle sul pavimento lucido davanti allo scaffale dei prodotti per animali. “Quanto ci metti, razza di moccioso?”pensò, girandosi nervosamente indietro. Toris stava continuando la spesa ma notò il suo movimento e fece segno come per dire “ha già risposto?”. Arthur alzò il palmo della mano. No che non aveva risposto. L’attesa cominciava a dargli addirittura malessere fisico.
Rispondi, porca miseria.
− Pronto? Chi è che rompe a quest’ora? – parlò d’un tratto una voce assonnata.
Arthur lasciò andare un respiro che non si era reso conto di aver trattenuto.
− Pronto? Alfred? Sono Arthur!
− Chiii?
E già qui... “Ricordati che sei un gentleman, non un bifolco qualsiasi, mantieni la calma”
− Arthur Kirkland, quello di ieri sera, quello che avresti dovuto incontrare oggi per iniziare quel periodo di prova. Non ricordi?
Silenzio. Poi, l’illuminazione.
− Ahhh, il vecchio pazzoide che cerca vendetta! Scusa se non ti ho riconosciuto, mi sono appena svegliato. Come stai?
Arthur si passò le dita tra le palpebre, sentendo tutta la stanchezza di una notte travagliata premergli da dentro il cranio.
− Così così, stanotte ho dormito mal... ehi, un attimo, che c’entra adesso come sto? – ma che diavolo gli prende, deve proprio avere sonno! − Bando alle ciance, prima sono venuto all’Eagle per parlare con te e l’ho trovato chiuso. Se vengo ora ci sei, giusto? Ci metto una quindicina di minuti ad arrivare lì, aspettami.
Dall’altro capo del telefono si sentì uno strano rumore, poi nuovamente il silenzio. Quando tornò alla cornetta, la voce di Alfred era cambiata, si era fatta stridula.
− Ah eh, no, ecco, fa con calma, tra quindici minuti, oddio, no, facciamo tra mezz’ora, ok?  Con calma, niente fretta – il tono era improvvisamente allarmato, la parlata a scatti. “Allora anche questo tizio sa cos’è il panico, uh?” pensò Arthur. Però che strano che non volesse riceverlo subito. Oh beh, pazienza. Avrebbe finito la spesa e si sarebbe avviato subito dopo.
− E vada, tra mezz’ora sarò lì. Ci vediamo.
Spense il cellulare. Sospirò, il cuore gli batteva a una velocità superiore alla norma. Anche le mani tremavano e stringevano l’apparecchio con troppa forza.
− Allora? – fece Toris quando tornò da lui, – Siete giunti a un accordo?
− Diciamo di sì. Tra mezz’ora, ha detto. – rispose Arthur con il tono più distaccato che gli fosse possibile. Vacillava da un piede all’altro, incapace di trovare un baricentro stabile, come se nelle sue gambe si stesse scatenando un piccolo sisma. Le guance erano rosa, gli occhi luccicavano, mentre la bocca faceva il possibile per rimanere un’impassibile linea dritta ma tendeva inevitabilmente a curvarsi verso l’alto.
Toris non poté evitare di notare tutte queste cose: − Ѐ emozionato all’idea, non è così?
Arthur raggelò per un attimo. – In che senso?
− Nel senso che è da ieri che vedo nei suoi occhi la felicità di ritornare a lavorare in quel posto. Deve avere molta nostalgia, e dopo così tanto tempo avere la possibilità di riscattarsi è un’occasione unica.
Arthur non poté fare a meno di annuire, vedendosi così scoperto. Negare sarebbe stato non solo inutile, ma anche deleterio. Lui era felice perché tornava al suo vecchio ristorante, mica per altro come progettare una vendetta, no no.
− E poi mi sembra alquanto contento di rivedere il signor Jones, no?
Arthur stavolta non raggelò, si trasformò direttamente in una statua di sale.
Cosa?
− Ehm, non mi fraintenda, ma mi è parso di capire che sia una persona simpatica, no? O perlomeno molto generosa, dal momento che l’ha assunta...
− Ecco, la sua generosità si è esaurita nell’assumermi. – Arthur lo interruppe, scrollando la testa con disprezzo – Quella sanguisuga mi ha fatto pagare due panini bruciati, ieri. Ѐ solo perché sono un gentiluomo che non gli abbia rotto le ossa!
Quell’ultima frase la disse abbastanza forte che una signora di mezz’età, passando lì accanto, sobbalzò. Lanciò un’occhiata di fuoco ai due e passò oltre, mento alto e dimenando il corpo infagottato da più strati di vestiti. Mentre Toris era imbarazzato da morire, Arthur si limitò a un’alzata di spalle, come se le vecchie che lo guardavano male fossero una cosa di tutti i giorni.
A dire la verità, se questa cosa fosse successa solo un anno prima anche lui avrebbe desiderato sprofondare nel pavimento, ma in quel momento, semplicemente, non gli importava più dell’opinione altrui. Gli importava solo di fare una buona impressione a Toris e a quelli che lo avrebbero aiutato a raggiungere il suo scopo, gli altri potevano indignarsi quanto volevano. Niente sarebbe stato più bruciante dell’umiliazione inflitta dopo la visita di Francis.
− Che dici, finiamo la spesa? Se facciamo presto ti posso aiutare a trasportarla a casa.
− Sissignore.
 
*  *  *.
 
Ore 10.15 a.m.
Arthur si trovava per la seconda volta davanti alla parodia del suo locale, stavolta però non era esitante sul cosa fare. Avrebbe rimandato giù i conati, nel caso, alla vista di quell’obbrobrio di arredamento. Prese una forte boccata d’aria ed entrò.
Niente, non riusciva proprio a sopportarlo.
− Buongiorno! – salutò Alfred, uscendo dalla cucina – Che bello un clie... ah no, sei tu. –
Fece una faccia delusa.
− Anch’io non scoppio dalla felicità alla tua vista, ma non per questo lo faccio pesare – replicò Arthur, un filino offeso. – Certo che il locale è sempre un pugno nell’occhio.
− Pensi che un folletto sia entrato stanotte a cambiare i mobili? Ѐ ovvio che da ieri sera non sia cambiato! E poi non ne avrebbe bisogno, è bellissimo così.
− Se lo dici tu.
− Sei entrato solo per criticare o cosa?
Arthur tornò serio, tutto a un tratto. Una folata d’aria gelida entrò dalla porta lasciata aperta alle sue spalle, gli scosse i capelli biondi e lo fece tremare. Ingoiò un po’ di saliva per bagnare la gola secca, vecchio leone senza coraggio. 
− Oh, e adesso che ti prende? – domandò Alfred, irritato.
− Ti prego, comprendimi. Ѐ un anno che aspetto questo momento, un anno passato a sognare, a progettare... portami laggiù. – mormorò Arthur.
− Laggiù...?
Alfred lo fissò perplesso, senza comprendere, per qualche secondo. Poi afferrò. C’era qualcosa in quegli occhi verdi che comunicava molto più delle parole e sebbene lui non fosse il tipo da decifrare messaggi corporei subliminali, quella richiesta risuonò come un urlo silenzioso. In qualche modo se l’era aspettato questo momento, forse anche temuto. Il Re esiliato era tornato nella sua patria e voleva rivedere il trono da dove era stato scalzato.
− Intendi la...?
− Esatto.
− E va bene, vieni con me.
Fece segno ad Arthur di seguirlo e aprì una porticina a lato del bancone per farlo passare.
Arthur aveva il cuore in gola.
Alfred entrò per primo, spalancando la porta della cucina baldanzoso come al solito. Si girò verso l’altro e lo vide tentennante sul ciglio, come se non osasse varcare un luogo sacro.
− Entra. Non c’è nulla da temere. – lo incitò. Arthur entrò anche lui, lo sguardo allucinato che esplorava quel territorio così familiare e allo stesso tempo così diverso. La cucina era stata trasformata, non radicalmente come il resto del locale, però era diversa. Era come entrare nella propria vecchia scuola elementare e pretendere che i cartelloni nelle classi siano rimasti gli stessi. Buona parte dei fornelli era al suo posto, per non parlare del piano da lavoro, anche se erano state aggiunte delle friggitrici, delle griglie e molti timer sopra di essi. Il frigorifero era ancora lì. Arthur vi si avvicinò, tentennante, e lo aprì con uno scatto violento: dentro era pieno di carne. Blocchi di carne intera o macinata, bacon, salsicce, cotolette, carne fredda che in quel momento non aveva odore né sapore, come fosse stata di plastica. Un po’ nascoste c’erano le salse e le uova, nello scomparto più basso c’erano le verdure. Arthur restò qualche secondo a fissarla, imbambolato. I ricordi pungevano, senza misericordia. Ricordi di una vita passata che tentava di resuscitare. Accanto al frigo notò una scatola di cartoncino che riconobbe anche attraverso la nebbia che offuscava la sua mente, sorrise nel vederla perché sapeva cosa significasse quel tipo di scatola in quel luogo, specialmente in quel momento. Ora, però, non era tempo di chiedere spiegazioni: c’era altro a cui pensare.
− Ehi, vieni un po’ qua .
Fu scosso dal suo torpore da Alfred che lo chiamava, inginocchiato dall’altra parte della cucina, vicino a un grosso cassetto aperto per metà. I suoi occhi brillavano. Stava indicandone il contenuto con uno sguardo cospiratore.
Arthur richiuse il frigo e si avvicinò, il cuore che aumentava il suo battito mano a mano che percepiva cosa stesse per mostrargli il ragazzo.
− Li ho tenuti apposta per te, perché in fondo sapevo che un giorno saresti tornato. Ci avevo visto bene, eh? Ora sei qui, infatti. – disse Alfred, orgoglioso.
Dentro al cassetto c’era un set completo di stoviglie dall’aspetto più che professionale, quasi aristocratico nelle loro forme definite: palette, coltelli di svariate misure, mestoli, una mannaia, spatole, tutti di metallo splendente. Arthur posò delicatamente le dita su ognuno di essi, accarezzandoli piano, mormorando qualcosa d’incomprensibile.
− Si vede che è roba professionale. Avrei potuto venderla, non l’ho fatto. – Alfred alzò le spalle, arrossendo quando si rese conto di quanto suonasse ingenuo con quella frase – Ѐ acciaio inox, quello?− Acciaio. Sì. – bisbigliò Arthur. Prese una spatola, la girò tra le dita. Sorrise.
− Questi sono i miei amici – mormorò – Guarda come luccicano... guarda come brilla, come sorride alla luce! Amico mio, mio fedele amico!
Il suo sguardo si era fatto strano.
− Parlami, amico – sibilò, le labbra che sfioravano il metallo come per baciarlo – Sussurra, io ti ascolterò. – Si alzò dalla sua postazione e prese a girare per la stanza, come in un valzer. Alfred lo fissava mentre un brivido gli correva giù per la schiena: la scena era surreale, in un certo senso terrificante. Arthur non sembrava in sé. Continuava a parlare alla spatola.
− Lo so, lo so. Ti hanno rinchiuso, nascosto alla vista per tutto questo tempo, come me, amico mio! Ma ora sono tornato a casa... −
Adesso basta. Alfred si alzò anche lui, deciso a mettere fine a quel monologo pazzesco, si avvicinò alle sue spalle senza però avere il coraggio di sfiorarlo. Aveva paura della sua reazione. Arthur, se si era accorto della sua presenza, non lo diede a vedere.
− ... e vi ho trovati ad aspettarmi, a casa... ora siamo insieme e faremo meraviglie, non è vero? – Arthur tremava. Arthur era diventato pallido come un morto. Arthur sorrideva.
E l’intera composizione era fuori da questo universo.
Alfred si decise ad avvicinarsi ulteriormente alle spalle dell’altro: notò che lo superava in altezza di almeno mezza testa e l’inglese era molto più gracile rispetto a lui. Se avesse dato di matto avrebbe potuto fermarlo senza difficoltà... giusto? Ma è proprio questa la cosa brutta dei matti, che non esiste preavviso o legge del più forte, esiste solo l’istinto e ora l’istinto diceva ad Alfred che in quel determinato momento, in una colluttazione, avrebbe potuto avere la peggio sebbene le premesse in generale dicessero il contrario.
Posò delicatamente le mani sulle braccia di Arthur, pronto a bloccarle nel caso ma senza voler dare l’impressione di imprigionarlo. Arthur lo ignorò anche in quel momento, anche se una piccola smorfia di fastidio gli increspò le labbra.
− Ehi, anch’io ti sono amico, non solo questi pezzi di plastica e ferro – tentò di dirgli Alfred, ma l’altro era perso nel suo mondo, gli occhi solo per i suoi attrezzi ritrovati. Si sentì male. Non era abituato a essere ignorato. Non era abituato a qualcosa di così affascinante e mostruoso come l’uscita di senno di un uomo davanti alla felicità più pura, di essere tornato dai suoi “amici”. – Ma che cazzo, non sono esseri umani, non ti rispondono mica, lo vuoi capire? – urlò, in preda all’esasperazione.
Arthur si girò finalmente, il volto stravolto da un sentimento che non avrebbe compreso nessuno se non lui, gli occhi di brace. − Lasciami – ringhiò.
Alfred indietreggiò di un passo. Arhur tornò al cassetto e si abbassò per riporre la spatola. – Ora riposa, amico mio. Presto vi farò uscire di qui. Presto conoscerete splendori mai sognati in tutta la vita, miei fortunati amici.
− Ora noi due siamo amici. – mormorò Alfred.
− Fino ad ora il vostro luccicare era semplice acciaio – disse Arthur, rivolto al set di coltelli, afferrandone il più lungo. – Gronderete rubini, amici... presto gronderete preziosi rubini... −
Alfred rimase muto. Arthur si rialzò con il coltello in mano, osservandolo con la stessa ammirazione che si ha per un figlio appena nato.
Sollevò il braccio che maneggiava l’arnese e lo alzò verso la luce che entrava da una finestrella in alto, in fondo alla stanza, facendolo brillare. Esplose in una risata.
Finalmente – urlò – il mio braccio è di nuovo intero!
Restò per una decina di secondi a fissare la lama splendente in una sorta di trance divinatoria. Poco alla volta la luce malata nei suoi occhi si acquietò e il braccio si abbassò lentamente, come il suo capo. Quando lo risollevò, la sua espressione era di completo disorientamento.
− Perché ho fatto tutta questa manfrina? – domandò.
− E lo domandi a me, vecchio bislacco? – sbraitò Alfred, senza riuscire a credere a ciò che stava vedendo. Arthur fissò il coltello e lo ripose in fretta nel cassetto insieme agli altri, come se si rendesse conto solo in quel momento di averlo tenuto in mano. Sembrava uscito da un sonno profondo.
− Scusami, ti ho spaventato? – chiese, usando un tono insolitamente dolce. – Mi sono fatto prendere dall’emozione... come il primo giorno in cui sono tornato, già. – Ridacchiò senza allegria. – Ho fatto una scenata simile anche con Toris e anche lui aveva la tua stessa espressione, come se fossi appena uscito dal manicomio. Deve essere per colpa di questo improvviso ritorno... mi ha come scombussolato il cervello. Eh eh.
− Ci credo – borbottò – A proposito... mi pare che tu abbia nominato anche ieri questo Toris. Scusa se mi impiccio, ma chi è? Un tuo familiare?
− Ѐ uno studente che vive con me durante l’Erasmus. – Arthur sorrise orgoglioso, come un talent scout che abbia trovato una possibile futura star. − Ѐ davvero un bravo ragazzo, proviene dalla Lituania ma il suo inglese è eccellente. Adesso sta cercando un lavoretto per pagarmi l’affitto e nel frattempo mi dà una mano. Davvero, davvero un bravo ragazzo.
Annuì, tanto per riconfermare la sua affermazione. Alfred lo guardò storto, le sopracciglia corrucciate in un’espressione dubbia.
− E gli avresti fatto una scena simile? Com’è che non ha ancora levato le tende?
Il volto di Arthur s’infiammò di rabbia e lui ringhiò, stringendo entrambi i pugni all’altezza dei fianchi: − Come ti permetti...
Alfred rise. Non voleva ammetterlo, ma era sollevato: Arthur era tornato quello di prima, irascibile, certo, ma almeno non pazzo. Di instabili mentalmente ne conosceva anche lui un esemplare, quindi ormai si riteneva un po’ esperto in merito. Specie nel riconoscere un lato folle dietro un sorriso dolcissimo, avrebbero potuto dargli un attestato.
Intanto Arthur aveva riacquistato un ghigno cinico che gli curvava le labbra.
− Lo sai perché non ha levato le tende? Perché non ha nessuno posto dove andare in alternativa.
− Aaah, poveraccio, non vorrei essere nei suoi panni, dover pagare per vivere con te! Beh, d’altro canto, i soldi non crescono sugli alberi e se c’è qualcuno che può permettersi di fare la carità questo sei tu, non io. Come si dice? Noblesse oblige.
Ora era davvero troppo. Era arrivato il momento di dare una lezione a quel ragazzino impertinente.
− Già. In effetti, da bravo “nobile”, come definisci, ho già adempiuto al mio dovere. Ho dato un posto dove vivere a te – replicò Arthur. Il ghigno affondò nelle sue guance, trasmise un lampo smeraldino agli occhi.
− Eeeeeh? Che intendi? – faceva il finto tonto, quel bastardo.
Arthur guardò lo dritto negli occhi cerulei: − Toris desidera ricevere uno stipendio per poter pagarmi l’affitto. Tu, invece, – puntò l’indice sulla maglietta dell’altro, – non devi pagare niente a nessuno, vero? Hai un bel posticino tutto tuo, dimmi se mi sbaglio.
Alfred raggelò, per poi smorzare la rigidità con una nuova risata, meno sicura del solito.
− C-certo! A-altrimenti come potrei venire qua tutti i giorni... se intendi che con questo fast-food sono riuscito a procurami un tetto sulla testa, non posso darti torto, ah ah! Ehm...
Indietreggiò di rimando quando Arthur gli si avvicinò, gli occhi verdi splendenti come quelli di un predatore.
− Non fare il furbo con me, ragazzino – lo ammonì – Conosco il tuo piccolo segreto.
E Alfred capì di essere stato messo con le spalle al muro.
Abbassò leggermente la testa, senza rompere però il contatto visivo: aveva intuito che cosa stesse insinuando l’altro. Arthur sapeva e non valeva la pena raccontargli frottole se non per aggravare una situazione già abbastanza delicata.
Aveva fatto l’incredibile (e fortuita) scoperta un anno prima, una vita prima.
Da quando aveva preso in carico il locale, Alfred era incappato in una piccola porta nascosta in fondo alla cucina, dipinta di bianco come le pareti e perfettamente mimetizzata. Lui, spirito avventuriero, non ebbe alcuno scrupolo: la curiosità aveva la meglio su ogni altra logica.
Aperta la porta, si scopriva una lunga e stretta scala di legno, senza corrimano, racchiusa tra due muri illuminata solo da una piccola lampadina penzolante sul primo scalino. La luce non raggiungeva la fine della scala, lasciandola in ombra. Da bravo esploratore qual era non aveva aspettato due secondi a percorrerla, rischiando di rompersi l’osso del collo quando la lampadina pensò bene di esplodere e lasciarlo nel buio completo a metà percorso. Dovette affidarsi al senso del tatto e moderare la velocità, suo malgrado.
Arrivato all’ultimo scalino, raggiunse una seconda porta (se ne accorse perché andò a sbatterci contro il naso, non c’era un pianerottolo). Tastando con le mani trovò la maniglia e legata ad essa una busta di carta. La porta era chiusa a chiave.
Aveva preso la busta e, con non poca fatica, l’aveva portata giù da basso, dove l’avrebbe potuta aprire con calma. Dentro c’era un messaggio.
Complimenti a chiunque sia riuscito a scovare il passaggio segreto, vuol dire che l’attività è stata ceduta e con essa il locale che si trova nascosto. Ricorda, caro successore: solamente chi sarà in grado di trovare la chiave di questa porta e quindi aprirla, diverrà proprietario di ciò che si trova al di là di essa”. La chiave, ovviamente, si trovava da qualche parte nell’ex ristorante. Preso da un’indicibile foga, Alfred la cercò dappertutto, ma nonostante avesse messo a soqquadro lo stabile non la trovava.
“... solamente chi sarà in grado di trovare la chiave di questa porta e quindi aprirla, diverrà proprietario di ciò che si trova al di là di essa...” e la pazienza di Al s’esauriva a vista d’occhio.
A un certo punto si ruppe i coglioni e mandò al diavolo la chiave scegliendo la via più semplice: sfondò la porta con un calcio.
Per essere aperta era aperta, ora.
L’americano lanciò un’occhiata all’interno, aspettandosi forse di trovare la grotta di Alibabà. Esso invece nascondeva un minuscolo appartamento, una dimora composta da tre stanze: camera da letto, bagno con doccia e la zona giorno con un divanetto e tv. Il tutto molto spartano, ma niente male per qualcuno che si deve arrabattare per trovare un posto dove dormire che non gli prosciughi i guadagni solo per pagarne l’affitto. Fu così che Alfred decise di trasferirsi lì.
Il giovane i giorni successivi ebbe il suo bel daffare nell’arredare il posto secondo i suoi gusti, gusti discutibili certo, ma non pensava che nessuno lo avrebbe scoperto. Fino a quel giorno.
− Vivi nel monolocale al piano di sopra, vero? L’ho fatto fare apposta per me quando c’era bisogno del mio intervento fin dalle prime ore del mattino al ristorante, un rifugio d’emergenza. Hai trovato la chiave per aprirlo, bravo. – Arthur batté lentamente le mani in un gesto più scettico che ammirato.
Veramente Alfred la chiave l’aveva trovata due mesi dopo, nascosta nel reparto verdure sott’olio della dispensa dell’ex-ristorante. Nel frattempo aveva dovuto far riparare la porta, ma preferì limitarsi ad annuire per non fare imbestialire ulteriormente l’inglesino.
− Come hai fatto a capire che vivo qua? – domandò, incrociando sospettoso le braccia.
− Oggi quando ti ho chiamato avevi il tono di chi è appena sceso dal letto, erano le nove e mezza e stavi rispondendo dal numero del locale. – Arthur teneva il conto sulle dita degli “indizi”. − Hai chiesto che venissi mezz’ora dopo invece di un quarto d’ora, per poterti rendere presentabile e magari mettere qualcosa sotto i denti. Visto il tuo fisico si può dedurre che sei uno che non salterebbe un pasto neanche se dovesse arrivare in ritardo all’appuntamento della vita.
− Ok, Sherlock Holmes, ma questo non significa nien...
−... oh, e poi ho trovato una scatola aperta di Lucky Charms vicino al frigo. Dubito siano l’ingrediente segreto della salsa speciale, eh, razza d’ingordo!
Alfred arrossì. Maledizione, galeotti furono i cereali. – Ok, mi hai sgamato. Hai intenzione di punirmi per questo?
− Certo che no, idiota! – Arthur agitò la mano davanti al volto, come se lo perdonasse dall’alto della sua posizione. Va in pace, giovane, un Padre Nostro e dieci Ave Maria sono sufficienti per redimerti della tua imbecillità. − Altrimenti non avrei lasciato quel messaggio, no? Solo dovresti, magari, essere un po’ più ordinato con le tue cose. Anzi, senza il magari. Devi essere più ordinato.
Alfred mise il broncio, portando le mani sui fianchi e voltandosi verso il cassetto di prima.
− Io sono stra-ordinato! Solo con alcune cose, ma lo sono! Non mi hai neppure ringraziato per aver tenuto la tua roba da parte, ben in ordine vorrei aggiungere.
Indicò il cassetto e poi Arthur, quindi di nuovo il cassetto: − Tutto quello che hai fatto è stato vaneggiare su quanto quei cosi siano tuoi cari amici e quando mi sono avvicinato mi hai scacciato come un cane rabbioso. Bella gratitudine!
Stavolta fu Arthur ad arrossire, ricordando la strana sensazione di trance provata quando aveva ripreso in mano i vecchi strumenti, così simile a quando era tornato a casa. Solo che stavolta le circostanze avevano una persona in più coinvolta e questo rendeva le cose più complicate. Non era abituato... anche se la sensazione non era così spiacevole. Quando si passa la maggior parte della propria vita da soli o impegnati in litigi con gli altri, ci si scordava cosa volesse dire avere un rapporto non bellicoso con un altro essere umano. Toris non c’entrava. Toris era solo l’alibi dove si nascondeva il vero motivo del suo ritorno a Londra.
− Io... perdonami. Per me è strano definire una persona “amico”.
− Penso che questo valga anche per le altre persone con te, col caratteraccio che ti ritrovi.
Arthur ingoiò un po’ di bile che era risalita su per la gola e lo ignorò.
− Volevo dire che... se tu vuoi un amico... ecco... non so come dirlo... posso esserlo io. – mormorò, cercando di apparire più distaccato possibile. Non suonò molto credibile.
Alfred lo fissò per qualche secondo, come se stesse cercando di capire se scherzasse o meno. Arthur si domandò se non avesse fatto la figuraccia del secolo.
Quegli attimi di tensione furono spezzati dalla fragorosa risata di Alfred.
− Ma per carità! Chi è che vorrebbe essere amico di un bisbetico tuo pari? – lo canzonò, asciugandosi una lacrima da dietro gli occhiali.
− Va al diavolo, idiota di uno yankee. – ribatté Arthur, fingendosi offeso ma sorridendo anche lui. Alfred scosse la testa, ridacchiando. − A parte gli scherzi, negli affari non esistono amici, soltanto soci. Comunque, che ne dici allora? Diventiamo soci?
− Ma allora sei proprio un moccioso avventato! Già ieri mi hai assunto senza pensarci un attimo, ora mi proponi di diventare questa cosa? Non sai neanche come me la cavo, in cucina! Se continui così finirà che chiuderai entro un paio di mesi.
Non l’avesse detto.
Prima che se ne fosse reso conto, Alfred lo aveva preso per un braccio e lo trascinava con la delicatezza di un orso grizzly davanti ai fornelli, neanche camminando decentemente ma saltellando. ­ ­‒ Va bene, allora, vediamo cosa sai fare! Stupiscimi, lasciami a bocca aperta, Mr K! – strillò entusiasta – Sono curioso di sentire la cucina del famoso chef!
Arthur lo guardò, poi guardò i vari fuochi, il frigorifero, il piano da lavoro per metà occupato da strani aggeggi e tutto un tratto si sentì come davanti a un esame. Era un misto di nervosismo ed eccitazione, voleva farsi valere.
– D’accordo! Lasciami la cucina a disposizione e avrai un piatto degno di un re!
Alfred annuì, soddisfatto. – Io resto qua a vedere cosa combini.
– Uhm, no, meglio se aspetti di là, sai, sennò mi metti ansia...
Alfred gonfiò le guance come un bambino capriccioso. – Ma così mi annoio!
– Oh, ma ci metto poco, tranquillo. Sono uno chef, io.
Così Alfred acconsentì con uno sbuffo e lo lasciò da solo.
Passarono dieci minuti. Passò un quarto d’ora. Venti minuti. Mezz’ora. Un’ora.
Niente usciva dalla maledetta cucina.
Alfred, che in genere non avrebbe aspettato neanche dieci minuti, abituato com’era al “cibo veloce”, irruppe come un toro sbraitando: – Allora! Ti sei messo a stagionare il formaggio? A frollare la carne sotto la sella di un cavallo come gli antichi Unni? Perché diavolo ci stai mettendo così tanto?
– Calma, calma, ho quasi fatto – rispose Arthur con una tranquillità esasperante, chino su un piatto colmo di roba. – Un ultimo pizzico di sale... Vai! Finito!
Si girò esultante verso Alfred, esibendo un piatto di carne e verdura immersa in un sugo rossiccio. Alfred lo osservò, incuriosito. – Cosa sarebbe? – domandò.
– Stufato con patate arrosto e verdure saltate. Assaggia, ti prego. – Gli occhi gli brillavano come stelle: se non fosse stato la versione bionda del Grinch avrebbe potuto anche ispirare tenerezza. Andarono nel salone; Arthur sistemò il piatto con la forchetta e un tovagliolo di plastica su uno dei tavoli e fece accomodare l’altro.
“È così gentile, improvvisamente, non sembra neanche l’essere pieno di rabbia che è venuto ieri sera. Non so se la cosa sia buona o no” pensò il ragazzo con un pizzico di cinismo, agguantando la forchetta e gettando un ultimo sguardo verso il cuoco, per poi partire col primo boccone.
La carne unta aveva un sapore dolciastro e metallico come fegato. Le patate erano mezze crude, difficilissime da masticare, alcune terribilmente salate e altre insipide. Le verdure, non meglio specificate, non sapevano di nulla ed erano mollicce come cibo per vecchi senza denti. Rimase con la bocca piena, gli occhi spalancati e il cervello che aveva preferito mettersi in stand-by per qualche secondo pur di non comandare ai suoi muscoli di rigettare tutto. Dopo qualche secondo di pausa riuscì a trovare il coraggio di masticare il composto e mandarlo giù. Dio che fatica. Quell’inglese maledetto non aveva messo neanche una lattina di soda per cancellare il saporaccio dalla bocca, l’aveva previsto, eh? Dannato. Forse voleva vendicarsi per gli hamburger di ieri e questo era una specie di scherzo.
Alzò nuovamente lo sguardo verso Arthur, pronto a riempirlo d’insulti ma si bloccò.
Arthur lo stava fissando già da un po’, lo sguardo talmente languido da poter essere facilmente frainteso a uno sguardo esterno. – Allora? Ti piace? – chiese dolcemente.
Alfred rimase muto. Se avesse detto la verità, ovvero che il suo piatto faceva assolutamente schifo, probabilmente gli avrebbe riversato una caterva d’insulti. E con questo? Non era una femminuccia, avrebbe risposto a tono.
Quello che lo tratteneva era il ricordo del discorso della sera prima, quando, in lacrime, Arthur gli aveva confessato la sua umiliazione, di come si era sentito ferito nel profondo. La rivelazione di non essere bravo in cucina era arrivata per lui come lo strappo improvviso di un cerotto, senza preavviso, senza neppure la consolazione di un amico che smorzasse il dolore. No, quel tizio non aveva amici, lo si poteva vedere a colpo d’occhio, ma forse in quel momento anche la minima parola di conforto sarebbe stata utile. Invece era arrivata un’ulteriore umiliazione, ovvero il fallimento di quello che era il suo ristorante, ulteriore prova della sua incapacità. Tutto era accaduto così in fretta... qualcosa di cui non si sarebbe mai aspettato. E allora era successo qualcosa che aveva visto in tanti film horror, quella cosa psicologica in cui si dimenticano i traumi o i ricordi troppo brutti, salvo ripristinarli con conseguenze terribili in seguito a certe situazioni, come si chiamava? Negazione? Rimozione? Ma Arthur non era il cattivo di un film horror. No, poteva sembrare un po’ tocco ma non sarebbe andato a recuperare il coltellaccio nel cassetto in cucina se gli avesse detto la verità. Giusto?
Doveva ignorare quello sguardo, lo metteva a disagio per più di un motivo.
Ingoiò un po’ di saliva, disgustato nel costatare che aveva il sapore dello stufato e si decise.
– Senti, te lo devo dire, sarò sincero. Questa è la cosa più schi...
Fu interrotto dallo squillo del cellulare. Sia lui che Arthur guardarono verso la tasca di quest’ultimo.
– Chi è a quest’ora? – domandò Alfred. Si sentiva stranamente sollevato da quell’imprevisto.
– Non saprei... ah, è Toris! Ma che vorrà? Pronto, Toris!
Alfred, approfittando della distrazione di Arthur che parlava al telefono, prese il piatto e si diresse verso la cucina, intenzionato a buttarlo nella spazzatura prima che lui lo vedesse. Non ci riuscì.
– Dove vai? Ah, bravo lo vuoi mettere in frigo per mangiarlo dopo? Ricordati di ricoprirlo con la carta stagnola, sennò l’odore si mescola a quello degli altri alimenti! – disse Arthur, tenendo scostato l’apparecchio dal volto e guardandolo mentre lui si era bloccato a mezzo passo dalla porta della cucina. Ancora quello sguardo smielato. Un brivido corse lungo la schiena di Al nel riconoscere che quando non era incazzato l’inglese facesse addirittura tenerezza. Il pensiero, comunque, ebbe la durata di un battito di ciglia.
– In frigo? Ah, c-certo! Proprio quello che avevo intenzione di fare... – rispose con un sarcasmo che l’altro non percepì. Era tornato a parlare con Toris.
– Pronto? Sei ancora lì? No, è che stavo parlando con... sì, sì. Gli ho preparato qualcosina per testare le mie capacità... ma è ovvio che gli sia piaciuto! Almeno credo... Alfred?
Ma lui era già scomparso.
– Niente, va là, comunque stava per dirmelo quando mi hai telefonato. È rimasto mezzo minuto buono a gustarselo, quindi ho fatto colpo! Mi sei sembrato tu la prima volta che ti ho preparato la cena! A proposito, tra poco è ora di pranzo, che dici di venire qua? Siamo in Fleet Street. Ah, hai ancora lo scontrino, bene, comunque se vedi una scritta al neon “The Eagle” bella grande al di sopra della porta del locale, ecco, è quello. Lo so che abbiamo appena fatto la spesa, ma penso tireremo per le lunghe e sai che non voglio che tu vada in cucina senza di me. – Ridacchiò, l’animo leggero come quello di una ragazzina. – Chissà, magari convinco Alfred a offrirti un panino gratis! Ciao, ci vediamo tra poco allora. –
Come richiamato da un radar, Alfred riapparve nel salone a velocità incredibile, un luccichio sinistro negli occhi azzurri amplificato dagli occhiali.
– Ehi, ehi. Cos’è che hai detto? – sibilò tra i denti – La parola gratis qui non esiste neanche per scherzo. Neanche per i poveri studentelli che non hanno i soldini, perché io per primo non ho soldi per certi favori. Digli di farsi un uovo sodo se ha fame.
Arthur rimise il cellulare in tasca, scuotendo il capo. – Non può.
– Perché? È così negato da non riuscire neanche...
Arthur lo interruppe, la voce ferma e lucida di chi dice cose assurde credendoci nel profondo. – Non può perché gli ho vietato di entrare in cucina da solo. Devo esserci io a controllarlo che non faccia danni.
Alfred rimase muto, con la bocca spalancata, a fissarlo. O Toris era un caso peggiore di Arthur ai fornelli, cosa umanamente poco credibile, oppure quell’uomo era davvero pazzo.
E dopo quella giornata sapeva cosa scegliere tra le due opzioni.
– Danni tipo cosa? Tipo trovare una porta segreta nascosta nel muro che conduce a un appartamento nell’appartamento, come è successo con quella del ristorante? Andiamo!
Arthur divenne rosso come un peperone ma si contenne; quel moccioso ci andava quasi vicino, senza saperlo. Prese una forte boccata d’aria e raddrizzò le spalle: – No, brutto idiota, tipo rovinare le pentole cercando di fare qualche piatto esotico. Non che finora sia successo, ma non si sa mai, chiamala paranoia, io la chiamo prudenza. Potrei dire che fa da aiuto-chef.
Alfred scosse la testa. Quindi quel povero ragazzetto doveva sorbirsi ogni volta i suoi piatti, e se erano tutti come quello che aveva appena assaggiato... Rabbrividì al pensiero.
– Comunque volevo specificare una cosa, Kirkland.
– Dimmi.
– Prima hai voluto farmi quello stufato per provare che sei il meglio del meglio della cucina inglese e ok. Ma qua si fanno hamburger. Splendidi, favolosi, succulenti hamburger. O impari a farli o qua non ci resti se non per pulire i pavimenti e i tavoli, d’accordo?
Era serio e il non sentire la sua risata, seppure fastidiosa. dava un certo disagio.
– Va bene... – rispose Arthur, pensando che per una volta poteva abbassarsi a fare quello che gli chiedeva. Col tempo avrebbe ripreso le redini, ma ora il capo era l’americano.
Alfred allora tornò al suo smagliante sorrisone e annunciò, tornando verso la cucina: – Stupendo! Allora s’inizia a lavorare insieme, mia cara spalla!
Arthur sussultò, irato: – Ehi, un momento, spalla a chi? Chi ti credi di essere, un supereroe dei fumetti?! Rispondi, razza d’idiota!
Ed entrambi sparirono in cucina.
 
*  *  *
 
– Bel locale. Molto... scenografico, non c’è che dire – commentò Toris, prima di bere un sorso di Seven-up. Alfred annuì, Arthur sbuffò.
 
Toris era appena entrato nel locale quando Alfred gli si era quasi buttato addosso, facendolo sedere a una delle seggiole e tuonando: –  Ciao, benvenuto al “The Eagle”, il fast food più stelle e strisce della City! Io sono Alfred! Che ti porto di buono? Vuoi qualcosa da bere? Ti porto una Coca, va bene? Abbiamo una vasta scelta di panini, come vedi... ehi!
– Piantala, imbecille, o penserà che lavoro con un maniaco. – gli bisbigliò Arthur, trascinandolo via dallo spiazzato ma piuttosto divertito Toris. Alfred lo fulminò con lo sguardo. – Pensa per te, che lo controlli manco fosse un moccioso di due anni!
– Invece tu ti comporti come un moccioso di due anni!
– E tu come un vecchio di settanta!
Stavano litigando sottovoce quando una voce dolce li zittì.
– Sa-salve! Lei è Mr Jones, giusto? Ѐ un piacere conoscerla, il mio nome è Toris. Mr Kirkland mi ha parlato di lei, è molto contento di essere stato assunto.
Sia Alfred che Arthur si girarono verso Toris, come se si fossero appena ricordati della sua presenza. Ad Alfred passò una lama di luce sugli occhiali.
– Piacere mio. Comunque... – alzò un sopracciglio, un mezzo sorriso gli increspò le labbra. – Cosa avrebbe detto Mr Kirkland di me?
Il ragazzo arrossì leggermente, come colto in fallo. – Beh, ha detto che era giovane... e intraprendente... e che voleva sapere la mia opinione sui panini per riferirglielo oggi. A proposito, erano buoni.
Alfred ridacchiò, un’ombra rosata gli aveva colorato le guance. – Oh, grazie mille. Se ne vuoi uno te lo preparo in un batter d’occhio. Tu, Arthur, rimani pure qua, torno subito.
Quando se ne fu andato, Toris rilassò il corpo teso come una fune.
– Mi sembra una persona onesta. Sono davvero felice per lei, signore. E riguardo la cosa per cui l’ho chiamata poco fa...
– Sì, stavo appunto per domandarti. – Arthur si sedette al tavolo del ragazzo, un sorriso paterno gli curvò le labbra. − Allora, hai detto che qualcuno ha risposto alla tua offerta di lavoro?
– Sì! Mi ha mandato un’e-mail un’ora fa. Sta cercando un tuttofare che lavori in casa sua, ha fissato un colloquio per le tre, in Snow Hill 10. Ho controllato, non è lontano da qua né da casa! Nel caso ottenessi il posto non avrei problemi di trasporti, perché ci arriverei a piedi! Molto comodo, non crede? – A Toris brillavano gli occhi, sembravano due gemme verd-azzurre. – Anche se lo stipendio non mi aspetto sia granché, sono pazzo di gioia all’idea di aver trovato finalmente un lavoro!
– Stupendo. Te l’avevo detto che ci saresti riuscito, sono fiero di te.
Alfred tornò dalla cucina con due mega panini, una lattina di Seven-Up (la Coca era al momento terminata) e un bicchierone di granita celeste con inserita una cannuccia. Sul bicchiere c’era scritto “Jolly rancher”.
What’s up, men? – domandò.
– Toris ha trovato lavoro. – disse Arthur, battendo il palmo della mano sulla spalla del ragazzo.
– Beh, a dire il vero è tutto ancora da decidere... devo ancora fare il colloquio. – replicò timidamente lui.
– Oh che bello! Auguri, Toris! Questo merita un brindisi – e Alfred alzò il suo bicchiere di granita come se fosse stato una coppa di spumante.
– Certo che avresti potuto portare qualcosa anche a me, costava tanto? – borbottò Arthur. Al prese una rumorosa sorsata e replicò: – Puoi andare a farti un panino anche adesso, se vuoi, intanto io e Toris facciamo due chiacchiere. – Strizzò l’occhio all’altro, le cui guance tornarono rosee di timidezza. Arthur sbuffò, alzandosi dal suo posto.
– E sia. Occhio, che non ti stanchi troppo tu a star lì seduto, eh.
– Tu invece non metterci di nuovo mezz’ora per cucinare un semplice hamburger.
Arthur si allontanò mugugnando tra sé e i due rimasero soli. Alfred mordicchiò la cannuccia, imprecando sottovoce contro quell’essere impossibile. Alzò gli occhi verso il ragazzo con i capelli castani e gli venne da sorridere notando quanto il suo sguardo fosse limpido. Aveva ragione il vecchiaccio a definirlo un “bravo ragazzo”, dava proprio questa impressione. “Fortunato chi se lo piglia” pensò, prima di cominciare a chiacchierare.
– Allora, come si sta a vivere con quel vecchio orso? So che siete coinquilini. Non t’invidio per niente.
Toris si strinse riluttante la testa tra le spalle, le gote rosse come pomodori. – Non è male, cioè... – il rossore si accentuò – Bisogna sapere come prenderlo. In fondo è una brava persona, anche piuttosto interessante direi. Certo, ha le sue manie...
– Come quella della cucina in cui non puoi andare da solo? L’ho appena saputo, poco assurda come cosa, eh.
Toris sospirò. – L’importante è che lui non ci vada da solo.
Alfred prese un altro sorso di granita, annuendo. – Povero... posso capirti, oggi mi ha fatto assaggiare uno stufato che neanche i cani avrebbero mangiato.
– Oddio... quello di poco fa? E gli ha detto che non le piaceva? – Toris sbiancò. Alfred scosse la testa.
– Stavo per dirgli che faceva schifo ma è arrivata la tua telefonata sul più bello.
Toris si lasciò andare sulla seggiola, evidentemente sollevato. – Meno male, quell’uomo è di una permalosità incredibile, chissà come avrebbe reagito. Non vorrei essere stato nei panni di quel giudice culinario che lo ha criticato.
– Ah? Ti ha parlato di Francis?
Toris annuì, la voce abbassata come se Arthur potesse sentirli. – Non mi ha mai detto il suo nome, ma è chiaro che ci riferiamo alla stessa persona. Lo ha definito “un viscido smorfiosetto abituato all’arrosto di colibrì”, ma non ne so granché perché ogni volta che vado anche solo vicino all’argomento, lui diventa scuro in viso e mi dice “lascia perdere”. A parte questo, vedo che ci mette tutto l’impegno di questo mondo nel cucinare, anche se i risultati sono mediocri. Di questo gli devo rendere merito. Ha sofferto molto quando ha dovuto lasciare questo posto, tornarci per lui è un miracolo.
– Lo so. Ma non dovremmo dirgli la verità, anche se dolorosa? Si rischia di prolungare semplicemente qualcosa di già segnato. Dirgli che il suo cibo è buono anche se non lo è, non fa di noi degli ipocriti?
Noi. Anche Alfred aveva dei dubbi su come comportarsi a riguardo, a quanto pare.
– Ipocriti... non la vedrei così. Sempre meglio di dire a bruciapelo cose che lo farebbero solo star male, no? – Toris alzò i palmi delle mani al soffitto, come se la risposta potesse scendere dall’alto. − Di certo questa tattica non ha funzionato, un anno fa. Proviamo con l’incoraggiarlo, magari se ne renderà conto da solo, un giorno. Mi dispiacerebbe vederlo soffrire, fosse anche per essere stati troppo sinceri.
Entrambi sospirarono, sconfortati.
– Toris?
– Sì, Mr Jones?
– Non parliamone più. Mi è quasi passata la fame.
 
In cucina, intanto, Arthur stava parlando con uno gnomo.
– Chi ben comincia è alla metà dell’opera, quindi posso definirmi più che soddisfatto di come stanno andando le cose! – annunciò l’inglese, schiacciando un grosso pezzo di macinato parzialmente surgelato con le piccole asperità del pesta carne – Se continuo così, potrò fargliela a pagare a Francis prima di quanto se lo aspetti!
Lo gnomo annuì di rimando. – E dopo esserti vendicato cosa farai?
– Non lo so. Intanto devo stare attento a non farmi beccare.
– Ce l’hai davvero così tanto con lui?
Arthur si bloccò. Il respiro si fece più rauco, la voce si abbassò. – Sì. È tutta la vita che mi sfotte, per un motivo o per l’altro. Ha superato il limite.
– Saresti capace di fare qualcosa di estremo? Potresti arrivare ad ucciderlo?
Arthur respirò a fondo. Quella domanda aveva fatto riacceso le fiamme nel suo cuore, attanagliandolo, strangolandolo. Riuscì a bisbigliare con un filo di voce sottile come la lama più tagliente: – Sì. Credo... credo di sì. È un anno che ho in mente questa cosa, come un tarlo che mi rode il cervello giorno e notte – un colpo sulla carne, – Quel bastardo deve pagare – un colpo più forte, – Pagare definitivamente.
– Non crucciarti troppo! L’importante è la tua serenità. Intanto hai di nuovo il tuo lavoro, nel tuo ristorante... anche se adesso ha una nuova forma, diciamo. E addirittura i tuoi arnesi! Per il momento puoi definirti felice, no? – disse una delicata voce femminile. Una splendida fatina stava parlando seduta vicino al frigorifero, le gambine nude dal ginocchio in giù si muovevano a scatti.
– Lo sono. Felice come un bambino a Natale.
La fatina lanciò uno sguardo perplesso al frigo accanto a lei.
– Il tuo stufato è quasi intatto. Sicuro che sia piaciuto?
Arthur spiaccicò la polpetta sulla piastra. – Eccome. Alfred è troppo disinibito per non dirmi se non fosse stato di suo gradimento.
– E se te lo avesse detto, avresti ucciso anche lui? No, vero? Perché lui è tuo amico. E anche per questo ha preferito non dirti che non gli è piaciuto – il tono della fatina si era fatto per quanto possibile severo. Un tocco amaro aleggiava nelle sue parole.
Arthur sospirò pesantemente. – Non è un “amico”. È un socio. Un alibi, come Toris. Non avrebbe avuto motivo di non dirmi in faccia una cosa simile.
Guardò con astio l’hamburger mezzo cotto. Lo girò. Si voltò e raggiunse il frigorifero in quattro passi netti, aprendolo di scatto ed estraendo il piatto avvolto dall’alluminio. Agguantò la prima posata che gli capitò a tiro, un cucchiaio di legno.
– Adesso lo assaggio io, vediamo chi ha ragione. – Si mise in bocca un bel boccone.
Fuck.
– A quanto pare faccio ancora schifo in cucina – mormorò con le lacrime agli occhi, rimuovendo l’hamburger dalla piastra e inserendolo tra due fette di pane, lo stufato che aveva fatto un volo sola andata nella pattumiera. Questo voleva dire solo una cosa.
Si sarebbe impegnato ancora di più, avrebbe imparato a cucinare piatti favolosi, ne avrebbe fatto mangiare uno a Francis, l’avrebbe costretto a dire che, una volta tanto, l’aveva superato
(fargli il culo era l’espressione che gli era venuta in mente per prima ma non era molto in sintonia col suo essere gentleman)
e allora, solo allora!, lo avrebbe ucciso. Dopo aver sentito da quelle labbra un apprezzamento sincero per una cosa in cui Francis era da sempre migliore di lui.
Dio, quanto lo desiderava.
 
Erano tutti e tre allo stesso tavolo e stavano mangiando i loro panini e chiacchierando.
Geez, Arthur, per forza si così magrolino! Guarda che panino smilzo ti sei fatto! – lo rimbrottò Alfred. Arthur squadrò il suo doppio cheeseburger-bacon-cipolla-cheddar-occhio di bue-altri ingredienti che non riuscì a riconoscere e ribatté: – Almeno io non rischio di prendere un infarto ogni volta che addento il mio pranzo. E poi, non so che diavolo ci fosse in quel frappé ma ti ha colorato la lingua di blu. È disgustoso.
Si girò verso Toris. – Tu hai l’appuntamento alle tre, giusto? Vuoi che ti accompagni?
– No, grazie, dovrei farcela anche da solo. Ma non è un po’ rischioso pranzare adesso? Metti che arrivi qualche cliente...
Alfred per poco non soffocò per le risate, un boccone gli era andato di traverso. Si batté sul petto per riprendere il fiato. – Mangia in pace, non c’è pericolo. Anzi, quel panino è gratis e pure la bibita.
– Davvero? Grazie, Mr Jones! Troppo gentile!
Arthur si avvicinò all’orecchio di Alfred e bisbigliò: – Scusa, ma non avevi detto che la parola “gratis” qua non esisteva?
– Sì, solo che lui mi sta simpatico e il suo pranzo lo scalo dal tuo stipendio, infatti. Non eri tu quello che voleva offrirglielo? – rispose sottovoce l’altro. Dannazione, quando si trattava di fregare la gente aveva la memoria di un elefante. Toris, intanto, aveva finito il panino e si era alzato.
– Scusatemi – disse, abbassando la testa come per un piccolo inchino e lasciando che le ciocche scure gli nascondessero gli occhi. – Vorrei andare a casa e prepararmi, tra poco devo vedermi per il nuovo lavoro. Ci vediamo, Mr Jones! A dopo, Mr Kirkland!
– Ciao, Toris! – lo salutarono i due. Sorrisero, vedendolo uscire tutto eccitato.
Alfred divorò quel che restava del panino, e si pulì accuratamente le dita sporche di salsa.
– Sembrerebbe proprio un tipetto a posto, eh? – commentò, unendo i suoi rifiuti con quelli del ragazzo.
– Assolutamente. È serio, intelligente e un aiuto valido.
Alfred guardò Arthur negli occhi: non stava ridendo, né appariva serioso. Era qualcos’altro.
– “Intraprendente” – mormorò – È così che mi hai descritto a lui. Ti ringrazio di avermi definito così: ero convinto mi considerassi un idiota.
Arthur sentì le guance avvampare per la stizza. − Oh andiamo, non ce l’avrai ancora con me per prima!
Ma Alfred non ce l’aveva con lui: i suoi occhi erano luminosi come il cielo, le labbra tirate in un sorriso di gratitudine. – Grazie. – ripeté.
Arthur si voltò, pur di non incontrare quello sguardo strano.
– Ho solo detto quello che pensavo di te. Vedi di non smentirmi. – mugugnò.
Si alzò anche lui per portar via i piatti, quando Alfred gli domandò: – Toris ti ha detto chi gli ha offerto il lavoro?
Effettivamente, a pensarci bene, non l’aveva fatto. Arthur ricordava che gli avesse detto l’indirizzo, ma non il nome. “Snow Hill 10”. Qualcosa gli diceva che quella via non gli era nuova, ma non riusciva a collegarci alcun volto, soltanto un piccolo brivido, un segnale corporeo privo di consistenza.
– No, ma non credo sia importante. Su, puliamo ‘sto macello prima che arrivi veramente un cliente.
 
*  *  *
 
Erano le tre del pomeriggio. Toris era in perfetto orario per  l’appuntamento con il nuovo datore di lavoro. Davanti a quel palazzo che lo sovrastava si sentì un attimo impaurito, lo stesso timore che aveva avuto quando era arrivato davanti alla casa di Kirkland e aveva sentito quella strana vocina nella testa. Ora per fortuna non c’erano vocine, ma un vecchio, tetro edificio che sembrava volesse inglobare le case accanto tanto era grosso, imponente, un po’ malandato. Sarebbe stato da restaurare, pensò Toris. Qualche vaso di fiori qua e là sui balconi ne smorzavano appena l’aspetto.
Quarto piano, gli aveva detto nel messaggio di risposta. Ovviamente aveva anche indicato il nome. Toris si avvicinò per suonare il campanello, quando alzò lo sguardo...
... e vide la persona destinata a cambiare la sua vita.
 
*  *  *
 
 
Buongiornissimooo!
Mi scuso per il ritardo (avevo intenzione di aggiornare domenica, oggi è mercoledì) ma è stato un capitolo difficile e sono stata via e il computer ha fatto le bizze e Toni l’alieno rompipalle mi ha impedito di farlo prima. Insomma, sono giustificata nel caso qualcuno stesse agognando il secondo chap. Come no, ma si sogna.
GRAZIE A CHI HA RECENSITO. Non avete idea del sostegno morale/spirituale/anche un po’ fisico che mi date, fisico perché scrivo più volentieri so che almeno a qualcuno ‘sta storia interessa.
Ci vediamo tra una decina di giorni!
L.B. Shadow
 
P.S.: ho trovato la casa di Kirkland
E per chi non avesse visto il film, questa è la scena in cui Sweeney Todd/Arthur impugna il rasoio/la paletta e urla la fatidica frase.
Ah, e il frappé di Alfie esiste davvero
   
 
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