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Autore: wrjms    10/08/2016    3 recensioni
Nome: Sherlock Holmes. Sesso: Maschile. Età: 38. Professione: Consulente investigativo.
Cosa non gli piace: gli indovinelli, gli stupidi, i deerstalker.
Cosa gli piace: il ballo, il violino, le sigarette, il suo cappotto, le api, John Watson.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I don't have friends. I've just got one.'
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4- Sigarette

Sono passati centoventicinque giorni dall'ultima volta che Sherlock ha fumato una sigaretta. Se chiude gli occhi, se la ricorda ancora bene: lunga, sottile, la superficie liscia e tondeggiante sotto ai polpastrelli, il fumo che lo inebriava. Dilata le narici, inconsapevolmente, e inspira una lunga zaffata d'aria.
Il pacchetto. Il suo ultimo pacchetto. Un ricordo un po' più lontano, ma Sherlock riesce a riportare alla mente anche quello: comprato fuori città, a Edimburgo. Una piccola confezione di Lucky Strike, scarlatta, tenuta nascosta in una tasca interna del suo cappotto sino a quando John non s'era allontanato; poi le aveva fumate tutte, una ad una, mentre pensava.
Una faccenda di poco più di mezza giornata. Se solo potesse fumare, ora...
Sherlock chiude gli occhi. È difficile concentrarsi su altro, quando si è in astinenza. È difficile anche solo pensare. Strizza le palpebre, borbotta fra sé: «John», lo richiama, mugulando, chiedendo aiuto.


Inutile. John è fuori città e torna dopo diverse ore, a notte fonda, avendo passato la settimana da Harriet. Si tira dietro un borsone colmo di camicie; quando lo appoggia davanti alla porta, cercando le chiavi, il parquet cigola in protesta.
La prima cosa di cui s'accorge è un mugolio che proviene dal salotto, basso e incostante, attutito come se qualcuno stesse tentando di nasconderlo. «Sherl?», sussurra, a bassa voce, perché non vuole svegliare Mrs. Hudson; armeggia con le sue chiavi ed apre la porta dell'appartamento, camminando a tentoni nel buio, cercando di vedere.
È lì. Lo scorge, un po' lontano, illuminato solo dalla luce della luna che penetra dai grossi finestroni: Sherlock è rannicchiato sulla propria poltrona, con le gambe piegate contro il petto e la testa fra le ginocchia. Sta ondeggiando, lentamente, avanti e indietro, e con le mani stringe il tessuto dei propri pantaloni a tal punto da avere le nocche biancastre. John si avvicina con circospezione. Mentre cammina, nota che la schiena sta sussultando un po', aritmicamente; lo guarda bene e giurerebbe, giurerebbe che...
«Sherlock?», lo chiama, allarmato. Questa volta alza un poco la voce, poiché crede che la prima non lo abbia sentito. «Sherl, stai piangendo?».
E la testa corvina del consulente investigativo si scuote un po', lentamente, come a voler negare l'ovvio. Ma John ha già visto. Si avvicina, silenzioso, e gli poggia una mano sulla spalla, mentre nella sua mente torna a galla un ricordo: quello di un commilitone, molti anni prima, trovato da lui lontano dalle brande, di notte, a piangere.
«Non ce la faccio, John», mugugna, fra un singhiozzo attutito e l'altro; e il suo respiro è velocissimo, come se stesse avendo un attacco di panico. «Non sono forte abbastanza».
John non capisce. Carezza con la mano la sua schiena. «Cosa?».
«Le sigarette, John».
Sospira. «Sherlock, stai andando benissimo...».
«Troppo in fretta, John», mormora, senza mostrare il proprio viso, «È stato troppo repentino. Non ce la faccio. Avrei dovuto smettere gradualmente... con più lentezza».
John tace per un attimo, ponderando. Guarda un attimo Sherlock, le sue spalle scosse dai singhiozzi; sta male, malissimo, pensa, e analizza le possibilità. Il suo lato medico lo sta frenando; ma d'altra parte, Sherlock ha ragione. La procedura è stata troppo repentina; il suo corpo non ha avuto tempo di abituarsi alla mancanza.
Una sola non farà troppo male, no?
John si alza, camminando lentamente verso la propria poltrona, piegandosi per prendere il pacchetto di sigarette nascosto sotto alla federa. Non fa in tempo ad afferrarlo, tuttavia, che un'altra mano, più pallida ed emaciata, si è tesa per fare lo stesso.
«Grazie, John», esclama Sherlock, la voce calda e tonante, perfettamente stabile, senza traccia di stress. John si volta. Non c'è una lacrima, sul suo volto; non è nemmeno arrossato, o stanco, anzi, si direbbe più in forma del solito. Ha un ghigno beffardo stampato in faccia. «È sempre un piacere vederti cascare così». Ha già l'accendino in mano; teatralmente, estrae tre sigarette dal pacchetto, se le infila in bocca, le accende tutte nello stesso momento. «Au revoir», bofonchia, spalancando leggermente gli occhi. Poi scompare giù dalle scale.
John sta immobile per un momento. Poi si passa una mano sul viso.
Il piccolo stronzetto manipolativo.

 

5- Stupidi

Scotland Yard è insolitamente deserta. John non può che pensarlo mentre, nel bel mezzo della notte, lui e Sherlock attraversano i corridoi bui della centrale. Solo una grande oscurità e tavoli sgombri e porte chiuse. Poi, più in fondo, lo vede: uno spiraglio di luce che proviene da una delle stanze adibite all'interrogatorio. Lestrade li sta aspettando lì fuori, in piedi, con le maniche della camicia arrotolate e delle grosse occhiaie violacee sul volto.
«Grazie per essere venuti», mormora, come temendo di alzare troppo la voce. «So che non è il vostro genere di cose, ma stiamo impazzendo».
John gli rivolge un breve cenno del capo; Sherlock, al contrario, non dice una parola ed entra nella stanza.
Ha sempre avuto a cuore i bambini.
La ragazzina è minuta, scura di capelli e con la pelle diafana, puntellata qua e la da qualche neo. Avrà otto anni, forse uno di meno o di più. La chioma corvina e scompigliata le nasconde gran parte del viso e gli occhi, gonfi e turchesi, si alzano di scatto non appena il consulente siede di fronte a lei. Stringe fra le braccia un orsacchiotto di pezza.
«Ciao», mormora lui, la voce un po' tentennante. John lo osserva dal fondo della stanza.
Silenzio.
«Potresti dirmi il tuo nome?».
La bambina scuote la testa.
Sherlock non batte ciglio. La sua voce risuona di nuovo, calda, stranamente rassicurante, all'interno della piccola stanzetta. «Quello dei tuoi amici?».
Di nuovo, un cenno del capo della bambina.
Sherlock abbassa gli occhi e stringe le mani davanti a sé, sul tavolo. Con la testa china, riflette; chiude le palpebre, respira un soffio d'aria fredda, rovista fra una pila di vecchi ricordi.
Ecco.
«Il tuo orsacchiotto», mormora poi, e quasi sente lo sguardo di John trafiggere la propria schiena. «Mi sai dire come si chiama?».
Questa volta c'è uno sguardo un po' sorpreso. La bambina abbassa il volto per osservare l'orsacchiotto che, quasi inconsapevolmente, ha stritolato fino a quel momento: sembra quasi che si sia accorta ora della sua presenza. Ancora, poi, sopraggiunge quello: il cenno di diniego del capo. In fondo alla stanza, Anderson e Donovan emettono dei sospiri seccati.
«È inutile, strambo», si lamenta il primo, con la voce un po' troppo alta per i gusti del consulente. «Ci abbiamo già provato noi per tutto il giorno. Quella non fa altro che tacere. Alla maledetta bambina non importa niente di farsi salvare la pelle». E poi, in un sussurro più basso, non necessariamente tentando di non farsi sentire: «stupida».
Silenzio. Di nuovo. Poi il suono di una sedia che, delicatamente, scivola sul pavimento. Sherlock Holmes si alza e, lentamente, cammina verso l'esperto forense, fermandosi a venti centimetri di distanza dal suo viso.
«Segni di abuso su varie parti del corpo. Punti dove i capelli sono più corti, perché le sono stati strappati. Lividi sul collo e sulle mani». Pausa. Nessuno sta fiatando. «La bambina non ha taciuto, ha detto esattamente la verità: non ci può dire niente, perché non ricorda niente».
Sherlock Holmes si volta per parlare a Lestrade, in piedi sul ciglio della porta. «Fuga psicogena. Un disturbo dissociativo che porta vittime di abusi, specialmente infanti, a dimenticare temporaneamente la propria identità come meccanismo di auto-protezione». Abbassa lo sguardo. Qualcosa, dal retro della sua mente, lo sta punzecchiando; un vecchio ricordo di tanto, tantissimo tempo fa. Via. Vai via. Dentro la sua testa si sta agitando come per scacciare un insetto fastidioso. Via! Ma quel ricordo resta: quasi trent'anni prima, in una stanza molto simile a quella; e Sherlock Holmes bambino, raggomitolato su una sedia, in preda alla confusione. Mycroft lo aveva trovato dopo un paio d'ore e aveva fissato i lividi sulle sue braccia e sulle sue gambe.
«Sono io, Sherlock», aveva sussurrato, dolcemente. «Mi chiamo Mycroft. Sono tuo fratello. Ora ti porto a casa».
Via!
Il ricordo scompare in una nuvola e Sherlock impiega qualche secondo per convincersene: è lì, con Lestrade e la bambina e John, e ora è diverso, non è più come prima, lui è al sicuro. Batte velocemente le ciglia. «Entro un paio di ore dovrebbe riuscire a ricordare tutto».
Un attimo ancora di silenzio; poi Sherlock si volta verso Anderson, lo guarda dritto negli occhi. «Stupido», sussurra, senza mai abbandonare il suo sguardo; poi lascia la stanza, facendo ondeggiare il cappotto dietro di sé.
 

6 – Cappotto

Il suo cappotto. Dov'era finito il suo cappotto? Mycroft gliene aveva dato uno, quando era tornato a Londra dopo la sua presunta morte; eppure era un cappotto nuovo, identico al suo, sì, ma comunque diverso.
È passato un mese dalla vicenda della metropolitana quando glielo chiede. Lo fa improvvisamente, dal nulla, mentre bevono tea nel loro salotto e aspettano per un appuntamento con Lestrade. John è seduto sulla propria poltrona e legge il Telegraph; Sherlock siede di fronte a lui e lo osserva.
«Cosa ne hai fatto?».
«Mmh?».
«Del mio cappotto».
John alza lo sguardo dalla pagina e lo guarda negli occhi.
«Insomma, dopo che... che...». Per una volta, Sherlock è in difficoltà; gesticola con la mano destra e guarda altrove. «L'avete bruciato con il... corpo?».
John non risponde e Sherlock lo prende come un sì. Prova ad immaginarsi un corpo sconosciuto, simile al suo, vestito del suo cappotto; e poi s'immagina John che appoggia la mano tremante – di nuovo, come ai vecchi tempi – sulla bara scura, cosparsa di fiori, prima di dare il cenno decisivo con il capo. E la bara viene gentilmente mossa verso l'inceneritore. Immagina John che distoglie lo sguardo mentre le fiamme ingolfano quel corpo, quel corpo che non era il suo, con un cappotto che avrebbe dovuto indossare lui solo e lui soltanto. Vicino ad un soldato che doveva stare con nessun'altro che lui. Le labbra di Sherlock si storcono in una smorfia.
E poi John, improvvisamente, si alza dalla sua poltrona, riportandolo alla realtà. Non parla, ma gli fa un cenno del capo come per dire: vieni. Sherlock lo segue mentre sale su per le scale, i passi estremamente calcolati e lenti, i gradini di legno che scricchiolano, crick, ecco che sono in cima. John entra nella sua stanza. Sherlock ci entra raramente: strano ma vero, è particolarmente rispettoso degli spazi del suo amico, e restringe la sua curiosità limitandosi a rubare il suo laptop quando ne necessita.
Ancora qualche passo: John si ferma davanti al suo armadio e si siede sul letto. Apre il cassetto più basso.
È lì.
Perfetto, immacolato, identico a come l'aveva lasciato. Il suo cappotto occupa tutto il cassetto perché è disteso per la lunga, piegato, orizzontalmente, una volta sola. Attaccata al colletto, una piccola etichetta targata 8 Giugno 2011: lavanderia, registra Sherlock. Ovviamente avrebbe avuto bisogno di un lavaggio; il cappotto era pieno di sangue e di terra. Gli sembra quasi di sentirselo ancora addosso.
Ma non è quello di cui si cura.
«Lo hai... tenuto?», chiede in un mormorio contenuto, un po' tremante, sedendosi al suo fianco sul letto. John estrae il cappotto con cautela e se lo depone sulle ginocchia.
«Certo che lo ho tenuto», risponde. La sua voce è flebile, ma decisa. Lo dice come se fosse un'ovvietà. Come se per lui non ci sarebbe potuta essere nessun'altra possibilità.
Per qualche secondo non dicono nulla, poi John sposta il cappotto sulle gambe di Sherlock.
«Tieni», dice, lo sguardo fisso sul cappotto. Non incontra mai il suo.
Sherlock carezza il bavero con il pollice. «Mi aiuti?».
«Certo».
Si alzano entrambi lentamente, come se niente al mondo gli potesse mettere fretta. Sherlock si mette di schiena e allarga le braccia; John, più basso, si alza sulle punte dei piedi per aiutare l'amico ad infilare le braccia nelle maniche del cappotto, una alla volta, girandogli poi intorno per aiutarlo a chiuderlo.
Abbassa lo sguardo e fa un passo indietro, perché inconsapevolmente si è avvicinato troppo. Sherlock sorride e alza il bavero del cappotto.
Come ai vecchi tempi.

Angolo Autrice
Hola, Sherlockians!
Welcome al secondo capitolo di questa storiella. Devo ammetterlo, Sigarette non è affatto tra i miei preferiti, anzi; in compenso, sono affezionatissima a Cappotto, per cui spero che piaccia anche a voi.
[Ogni riferimento a scene Destiel è puramente casuale.]
Grazie per tutte le bellissime recensioni. Alla prossima!
WJ
   
 
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