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Autore: Adeia Di Elferas    13/08/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dopo aver portato Caterina nella sua stanza – camera che ormai non usava praticamente più per niente – Giacomo insistette di restare anche durante la visita condotta dal medico personale della Contessa.

Non la voleva lasciare un solo attimo, facendosi recalcitrante anche al consiglio di allontanarsi suggerito dal dottore, che aveva espresso l'ipotesi della malattia contagiosa.

Caterina, una volta deposta sul letto, aveva cominciato a tremare, scossa da brividi impossibili da placare e solo dopo almeno un paio d'ore aveva smesso di agitarsi, per cominciare, però a scottare per a febbre, mentre i muscoli si irrigidivano e la fronte le si imperlava di sudore gelato.

I suoi figli erano stati tenuti a debita distanza dalla camera, per timore che il morbo fosse davvero contagioso. Solo Ottaviano non ebbe bisogno del divieto espresso del medico, giacché si era allontanato molto prima, e di sua spontanea iniziativa, non solo dalla madre, ma proprio dalla rocca, spingendosi fino alla casa dei Numai.

Se Giacomo non fosse stato tanto impegnato a seguire con ansia e angoscia il decorso della malattia della moglie, quell'improvvisa assenza del Conte lo avrebbe di certo insospettito tanto da rendere il suo dubbio su Ottaviano una certezza.

 

Quel 12 settembre Bernardo Bellincioni, da qualche giorno in difficoltà, morì all'improvviso.

A piangerlo sopra chiunque altro fu Cecilia Gallerani, che mai avrebbe potuto dimenticare come il poeta l'aveva definita qualche tempo addietro: 'l'invidia della natura'.

Per quanto avesse cercato di consolarla, il marito non era riuscito ad asciugare le lacrime di Cecilia, che era rimasta oltremodo sconvolta dalla dipartita di quell'illustre figlio di Firenze, morto per scelta in terra milanese. Se fosse stato un uomo geloso o un marito innamorato, Ludovico Carminati non avrebbe di certo sopportato tanto stoicamente il modo disperato in cui la bella Gallerani misurava ad ampi e tormentosi passi le stanze del palazzo Dal Verme.

Quel comportamento così apertamente addolorato avrebbe fatto sorgere più di un dubbio circa la natura dell'amicizia tra la dama con l'ermellino e il virtuoso letterato, ma Carminati non era interessato a questi dettagli. L'unica cosa che gli pungeva il cuore era la consapevolezza di non poter far nulla, per alleviare le pene della giovane che vagava senza meta davanti a i suoi occhi, le lacrime a rigarle il viso e le labbra contratte in un'espressione di infinito cordoglio.

Lo stesso giorno, mentre a Milano 'l'invidia della natura' si struggeva per il suo cantore, a Firenze nasceva il nuovo erede maschio della famiglia Medici.

Clarice, la primogenita di Piero e Alfonsina, aspettava corrucciata, assieme alla balia, fuori dalla stanza. Le urla della madre rimbombavano nelle orecchie della piccola e per qualche interminabile secondo, la bambina, di appena tre anni, temette di non rivederla più.

Solo quando la levatrice uscì dalla stanza, portando con sé un fagottino arruffato e ancora sporco di sangue e muco, Clarice tornò a respirare.

“Potete andare da vostra madre.” sussurrò la balia, lasciandola correre verso il letto su cui languiva Alfonsina.

La bambina cercava di attirare l'attenzione della donna che però era troppo stanca e provata per darle retta. Le sue poche forze le servivano per ascoltare in lontananza il marito Piero ricevere le congratulazione per quel nuovo nato.

“Un maschio, finalmente!” aveva esclamato uno dei cortigiani: “E in salute, parrebbe!”

“Come lo chiamerete?” domandò un secondo.

“Si chiamerà Lorenzo, come mio padre.” rispose subito Piero, con voce un po' incerta.

Alfonsina sospirò, mentre ancora la sua primogenita le stringeva una mano, portandosela alla guancia, come per convincerla a una carezza.

“Una scelta ineccepibile.” notò il cortigiano che aveva parlato per primo.

A quel punto Alfonsina, scostando la mano da quelle di Clarice, chiuse gli occhi e si assopì.

 

“Dicono che il Governatore Generale Feo sia quasi come impazzito.” disse il ragazzino che stava portando in giro per la città la notizia dell'improvvisa malattia di Caterina Sforza: “Non lascia la stanza della Contessa per nessun motivo, non mangia e non dorme ormai da due giorni e non ha permesso ancora a nessuno di avvicinarsi al letto di sua signoria, se non al medico di corte!”

Andrea Bernardi ascoltava preoccupato quelle parole, mentre ripuliva il rasoio con un gesto metodico, ma distratto.

“Attendono alla rocca la madre della Contessa, hanno detto...” soggiunse il giovane, mentre anche i clienti si accigliavano e si guardavano l'un l'altro molto perplessi.

“Chi ti ha detto tutte queste cose?” domandò uno di loro, cercando di apparire scettico, mentre era solo la preoccupazione a muoverlo.

Se la Contessa fosse morta, che sarebbe accaduto?

“Una delle guardie che ha visto la Contessa cadere a terra come morta e che ha aiutato il Governatore Generale a portarla nelle sue stanze.” rispose prontamente il ragazzino.

Bernardi si cercò nelle tasche qualche moneta di poco valore – il massimo che si potesse permettere, malgrado gli affari fossero tornati all'antico splendore – e li allungò al giovane: “Vedi di scoprire qualcosa di più e poi torna a dirmi tutto quello che senti o vedi, chiaro?”

Quello intascò subito il danaro, annuendo con foga e uscì dalla barberia a gambe levate, sperando di poter guadagnare altri soldi, se fosse riuscito a scoprire qualcosa di meglio.

Bernardi lo guardò schizzare fuori dalla porta e dovette trattenersi per non seguirlo. Più di ogni altra cosa avrebbe voluto poter andare alla rocca per vedere coi suoi occhi, per sentire con le sue orecchie. La sua signora non era mai stata malata, da che ricordasse, mai una volta.

Si sentiva teso come la corda di un arco, terrorizzato all'idea di cosa il prossimo ragguaglio avrebbe portato con sé. Poteva trattarsi di un nonnulla, di un malanno di stagione, di un colpo di calore, ma poteva anche essere qualcosa di grave e serio.

“Porco mondo...” biascicò il forlivese che il Novacula stava sbarbando: “Se quella tira le cuoia ci manca solo che ci troviamo quel maledetto Feo a comandarci a bacchetta e noi qui a doverci pure dire 'sì signore, no signore', che Dio lo mandi al diavolo...”

Bernardi gli diede un buffetto con la parte piatta del rasoio: “Badate bene, voi. Ho già detto che qui non si parla male della Contessa, né del Governatore Feo!”

Ma mentre ritornava al suo lavoro, il Novacula, per quanto sempre intriso di timore e sincera apprensione per la sua signora, non poteva fare a meno di pensare le stesse identiche cose che aveva detto il suo sfacciato cliente.

 

Caterina si sentiva confusa e persa, le immagini si inseguivano senza un senso logico nella sua testa, portandola dal rivellino di Porta San Pietro alle alte mura della rocca di Ravaldino.

Gli Orsi, indistinti e sfocati, la deridevano e berciavano le peggiori minacce, mentre lei provava a gridare, ma nessuna voce usciva dalle sua gola, lasciandola ansimante e impotente, mentre delle figure oscure portavano i suoi figli sul patibolo.

Poi le ombre si mescolarono e si fecero polvere e nebbia e l'impaziente rumore di centinaia di zoccoli che battevano in terra le scossero il petto e le parve all'improvviso di guardare attraverso la stretta fenditura della celata. Intravide il profilo di Virginio Orsini e poi di Paolo Orsini e in lontananza intuì la sagoma di un esercito che li incalzava. Erano solo tre contro almeno centinaia di soldati nemici... La spada al suo fianco pesava come un macigno e la sua testa girava...

Come se si fosse ripresa da uno svenimento, Caterina vide di fronte a sé uno scenario ancora diverso. Era nel palazzo di suo padre, lo aveva riconosciuto senza alcun problema perfino con quel buio. Perché c'era tanto buio?

All'improvviso due mani salde la presero per le braccia. Era più piccola di come si sarebbe aspettata. Solo una bambina.

Si voltò appena e vide che a trattenerla era una donna vestita di grigio, ma non ne vedeva il volto, coperto dalle ombre della notte. La stava trascinando in una stanza scura, che non ricordava, che non voleva ricordare.

L'aveva lasciata dentro, aveva chiuso la porta a chiave e prima che Caterina riuscisse a ribellarsi in qualche modo, capì di non essere sola. Un uomo, in un angolo, stava allungando le braccia verso di lei, il viso deformato in una maschera di cattiveria, irriconoscibile, ora somigliante a Girolamo Riario, ora identico a Galeazzo Maria Sforza e poi...

“No!” la voce roca e soffocata usciva a fatica dalle labbra tremanti di Caterina: “No, no!”

Finalmente riuscì a scappare dall'incubo in cui la febbre l'aveva precipitata. Aprì gli occhi, scoprendo di essere in una stanza poco illuminata, ma familiare. Era troppo debole e ancora assopita per capire bene dove fosse.

Qualcuno la teneva stretta tra le braccia, piangendo sommessamente.

“Caterina...” sussurrava l'uomo, che non voleva lasciarla: “Caterina...”

Solo a quel punto la Contessa riconobbe la voce del marito. Così si tranquillizzò e lasciò che il sonno la cogliesse di nuovo.

Terrorizzato a quell'ennesima mancanza di coscienza della moglie, Giacomo Feo si voltò, cercando disperato lo sguardo del medico, che se ne stava appoggiato al muro, le mani nelle mani, l'occhio vitreo, immerso nei suoi pensieri.

“Perché diceva 'no'? Cosa... Che le sta accadendo?” chiese il Governatore, tra le lacrime, incapace di darsi un contegno.

Non aveva mai visto Caterina in quello stato e dalla vistosa preoccupazione del medico, aveva compreso da un pezzo che si doveva trattare di qualcosa di potenzialmente letale. Se sua moglie fosse morta, che avrebbe fatto lui?

“Probabilmente un incubo.” spiegò il dottore, invitando con un gesto Giacomo a lasciare la donna: “Non è incosciente, sta solo dormendo, ma dobbiamo farle scendere la febbre...”

L'uomo si scusò un momento e raggiunse in corridoio la dama di compagnia della Contessa: “Cercate altre bende fresche e, per Dio, ci sarà ancora del ghiaccio in qualche ghiacciaia! Cercate a fondo, se necessario!”

La moglie di Bernardino fece una mezza riverenza, già pensando a dove diamine avrebbe potuto trovare in settembre del ghiaccio e sparì dalla vista del medico.

L'uomo restò un attimo in silenzio, guardando in terra. Aveva due possibili teorie per quella situazione, ma in entrambi i casi non sapeva proprio che fare, se non abbassare la febbre e aspettare.

 

I figli della Contessa erano stati debitamente allontanati, con la paura che si trattasse di un morbo contagioso, ma Lucrezia Landriani, la madre della malata, aveva insistito per arrivare alla rocca, non appena era venuta a conoscenza dello stato della figlia.

“Dov'è?” chiese, accorata, quando giunse a Ravaldino.

Uno dei soldati che facevano la guardia la scortò personalmente fino alla stanza della Contessa e lì la lasciò.

Lucrezia si dovette far forza, per aprire la porta che la separava dalla figlia. Ricordava fin troppo bene la spada di ghiaccio che le aveva trafitto il cuore, quando era morto il suo primogenito Carlo.

Non voleva nemmeno pensare all'eventualità di dire addio a un'altra figlia, ma la sua mente realistica la metteva di continuo davanti a quella probabilità e tanto bastava a farle tremare le mani, mentre spingeva con forza la pesante porta di legno ed entrava nella stanza di dolore di Caterina.

La scena che le si parò davanti sembrava cristallizzata nel tempo. Accanto al muro, scuro in viso e talmente immerso nei suoi pensieri da non alzare nemmeno lo sguardo verso di lei, stava il medico di corte più affezionato alla Contessa, lo stesso che l'aveva spalleggiata durante l'ultima grande epidemia di peste.

Inginocchiato accanto al letto come un penitente, gli occhi rossi e gonfi, i capelli spettinati e i vestiti sgualciti, c'era Giacomo Feo.

Sulle lenzuola, con pezze contenenti qualche blocchetto di ghiaccio che si stava sciogliendo in fretta, giaceva Caterina. Pallida, sudata e sofferente. Lucrezia si sentì mancare. Non l'aveva vista così nemmeno quando erano state prigioniere, nemmeno quando giorni di fame e sete l'avevano prostrata tanto da convincerla a gesti estremi.

Senza dire una parola, Lucrezia si andò a mettere dal lato del letto opposto a quello occupato da Giacomo e prese una mano di Caterina. Sentì il polso, rapido, ma ancora forte e trovò la pelle di una temperatura migliore di quel che temeva. Non era rovente, come ci si sarebbe attesi da un febbricitante, ma nemmeno gelida come quella di un morente.

Rincuorata da quel dettaglio, Lucrezia alzò gli occhi chiari su quelli di Giacomo, in quel momento scuri e persi come la notte più buia, e gli sussurrò: “Si salverà, lo sento.”

 

Giacomo era stato invitato dal medico a lasciare per un momento la camera di Caterina.

“Vi informerò io in persona, se ci fosse bisogno della vostra urgente presenza.” aveva assicurato in un sussurro: “Ora c'è anche sua madre con lei.” aveva aggiunto, come per rassicurare il Governatore Generale.

Il medico non aveva mai saputo di preciso che rapporto ci fosse tra quel giovane e la Contessa, ma le ultime ore passate al capezzale di Caterina gli avevano aperto gli occhi. Dunque trattava Giacomo né più e né meno di come avrebbe trattato normalmente il marito di una paziente in pericolo di vita: con tatto, ma anche con franchezza.

Così il ragazzo aveva accettato quell'opportunità per andare a bere un sorso d'acqua, rinfrescarsi un attimo e mettere un pezzo di pane sotto i denti.

Fece tutto di gran fretta, per poter tornare immediatamente da sua moglie. Stava lasciando lo studiolo del castellano in cui si era appena rapidamente rifocillato, quando sentì la voce di Ottaviano provenire da un punto abbastanza vicino.

Malgrado volesse correre subito da Caterina, sapeva di doverci veder chiaro. Se il piccolo Conte c'entrava qualcosa con lo stato in cui verteva la Contessa, doveva saperlo.

Così con circospezione fece qualche passo, fino ad accostarsi alla porta socchiusa da cui proveniva la voce del ragazzino.

“Deve esserci qualcosa che possiamo fare...” stava dicendo Ottaviano: “Non può morire adesso... Io non sono pronto...”

A rispondere fu la voce dell'ambasciatore milanese, Sfrondati: “Se vostra madre dovesse morire, e badate bene che non credo che accadrà, non dovete temere nulla. Ludovico Sforza, vostro parente e Duca di Milano, sarà ben lieto di proteggervi e tenervi sotto la sua guida...”

Ottaviano doveva aver fatto una smorfia, perché Sfrondati si affrettò ad aggiungere: “Vi sarà d'aiuto, non vi imporrà nulla. Sarà solo un buon sostegno per il vostro governo. In ogni caso...” la sua voce si fece più melliflua: “Se il peggio dovesse accadere, prima di tutto dovreste liberarvi di alcuni personaggi scomodi. Non vorrete certo farvi scavalcare da qualcuno che fino a ieri lavorava nelle stalle...!”

“Certo che no!” fu la pronta risposta di Ottaviano: “Se mia madre dovesse morire, prima di tutto metterò quel maledetto stalliere alla forca e poi...”

Ma Giacomo non riuscì a sentire il resto, perché il piccolo Conte doveva essere scoppiato a piangere, rendendo le proprie parole pastose e incomprensibili.

Il Governatore fece un respiro profondo. Fosse dipeso da lui, sarebbe entrato in quella stanza e avrebbe strangolato con le sue mani il figlio di sua moglie immediatamente. Ma non poteva. Caterina non lo avrebbe mai perdonato. E poi non era un assassino. Non sarebbe mai stato un assassino.

Così convinse i suoi piedi a riportarlo alla stanza in cui riposava sua moglie. Una cosa alla volta, si diceva: prima avrebbe pregato per la guarigione di Caterina e poi l'avrebbe convinta una volta per tutte ad allontanare Ottaviano dalla loro casa.

 
   
 
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