Wenn die Sterne leuchten.
Capitolo Settimo.
Bitte, sag'
mir
Bitte, sag' mir, was ist
mit mir geschehen?
Die neue Seit' an
mir - Ich mich in ihr verlier'
Ich bin zerbrochen, bin zerbrochen in dieser tristen Welt
Doch lächelst du mich
an, ist all
der Schmerz vergangen
https://www.youtube.com/watch?v=78g-OsJIhyA
Anno 846
All’esterno del Wall Rose.
Uno dei lati positivi del
trovarsi a sud delle mura, sperduta nei territori di Maria, tra le rovine di un villaggio lasciato a
marcire nel dimenticatoio così come le anime che lì vi erano perite, era senza
dubbio il grande lavoro scientifico che poteva uscirne fuori.
Tanto per iniziare, i giganti,
a qualche ora dal tramonto, si mettevano a ‘dormire’.
Nina osservava il classe dieci metri appoggiato con la schiena alla parete
della casa di fronte alla quale si era accampata, a meno di venti passi da lei,
senza provare il solito strisciante terrore nelle viscere. La prima volta che
le era successo di trovarsi così vicina a un gigante, senza essere impegnata a
combatterlo, era stata la terza notte e aveva rischiato un attacco di cuore, ma
la sua inefficienza era stata testata dall’alto di un tetto, tirandogli addosso
delle tegole. Molte tegole.
Nessuna reazione, se non
qualche debole lamento, come un bambino confuso in dormiveglia.
Stupefacente e interessante,
perché a quanto ne sapeva Nina, nessuno aveva mai condotto un’indagine di quel
tipo. Chi era rimasto oltre le mura abbastanza da raccontarlo, in ogni caso?
Nessuno dotato di senno l’avrebbe fatto, ma lei iniziava a perdere qualche
venerdì, immersa come era in quella solitudine. Almeno questa la motivazione
che si era data.
Con in mano un secchio pieno
dell’acqua che aveva tirato su dal pozzo, la giovane fece un altro paio di
passi verso il gigante, arrivando a colpirlo sulla gamba con la punta del
piede, sempre in allerta, pronta a mollare il secchio e schizzare velocemente
via.
Di nuovo, nessuna reazione.
Stavolta nemmeno un lamento, non sembrava averlo nemmeno sentito.
Al fine di portare avanti queste
dimostrazioni empiriche, Nina non usciva mai senza il modulo per lo spostamento
tridimensionale. Avventata? Sì. Forse un po’ sprovveduta? Sicuramente.
Ma non era diventata né
matta, né tanto meno scema.
Sospirò, rendendosi conto che
se non fosse per le ginocchia che tremavano, iniziava a farci il callo.
Dopotutto, quello era il suo sesto giorno lì, ma dopo l’aver visto tanti amici
morti mangiati, rimanere del tutto impassibile era impossibile.
Tra gli approvvigionamenti,
le impressioni personali scritte con precisione chirurgica su quel quaderno e
quella sorta di vaghi esperimenti notturni giusto per sondare un po’ il terreno,
il tempo era quasi volato.
Quasi.
C’erano dei momenti di una
noia tale da farle venire voglia di partire a piedi solo perché non ce la faceva
più. Le mancava casa, voleva solo
rivedere tutti quei volti famigliari e dormire in un letto vero, certa che non
avrebbe avuto risvegli bruschi. Magari non da sola. Magari con qualcuno a cui
sentiva ogni giorno di più di dover chiedere scusa.
Pensieri e rimpianti a parte,
Nina aveva trovato qualcosa di molto
interessante nel quale spendere un po’ di tempo.
Nel basamento della casa del
guardiacaccia era stato celato un tesoro.
Da chi non ne aveva idea, ma iniziava
a capire il perché.
Rientrata nel rifugio, Nina
s’era chiusa in cucina, lanciando uno sguardo verso il tavolo dove qualche
pezzo di quel tesoro era stato
portato per essere studiato. Passò una mano sulla copertina verde smeraldo del
primo di una lunga pila di libri, decidendo di farsi un teh.
Chi lo avrebbe mai detto che
una caduta rovinosa a causa di un pavimento marcio avrebbe riportato alla luce
così tanto?
Una biblioteca di come non ne
aveva mai viste, senza possibilità di entrarvi perché non vi erano porte o
scale che potessero condurre lì. Centinaia, forse migliaia di libri abbandonati
al tempo su numerosi scaffali. Nina non aveva creduto ai suoi occhi in un primo
momento, mentre con la candela passava di libreria in libreria, osservando i
dorsi dei volumi rovinati dall’umidità. Non tutti erano in buono stato, diversi
scaffali avevano sofferto troppo il lungo periodo senza luce né aria, mentre
altri sembravano aver avuto più fortuna.
Mentre sceglieva due foglie
di the – doveva essere parsimoniosa- si chiese se il guardiacaccia sapesse di
cosa la sua casa nascondesse nel ventre. Di tutte le caratteristiche
straordinarie che quella scoperta aveva, una le saltò agli occhi prima ancora
di uscire dalla cantina. Il punto non
era che ci fossero dei libri, ma che ci fossero quei libri. Il mistero che nascondevano rischiava di rimanere tale
però, visto che non erano scritti in nessuna lingua che Nina conosceva. Sapeva
che nel settentrione, nelle zone di Briemer e Jiina, era stato adottato un alfabeto un po’ diverso dal
loro, quello tradizionale e parlato nella Capitale. Non aveva mai avuto la possibilità
di imparare a leggerlo – i membri della Legione lì stanziati parlavano e
scrivevano nella lingua comune le loro missive e i rapporti- ma avrebbe saputo riconoscerlo, se visto. No,
quello era molto, molto diverso. Le lettere erano continue, eleganti e
sconosciute. Senza contare che di libro in libro, se pur si mantenesse lo
stesso alfabeto, sembrava cambiare la lingua. Erano solo congetture le sue, ma
c’era un libro di botanica, che aveva scelto giusto per le immagini, che
sembrava essere scritto in modo diverso da un altro, un’enciclopedia medica
piena di sezioni anatomiche.
Non era la sola cosa strana.
Il modo in cui erano stati
stampati era strano. Nina poteva sentire le pagine lucide sotto ai polpastrelli,
in un modo che lei non aveva mai avvertito prima, invece di essere ruvide come
tutti i libri che aveva conosciuto nella sua vita, usciti dalla pressa di un
copista. I caratteri erano piccoli, precisi, come se la mano che li aveva
tracciati fosse così allenata da fare ogni singola lettera identica.
Sorseggiando il suo teh, Nina arrivò alla conclusione più assurda: chiunque
avesse scritto quei libri, non apparteneva al mondo che lei conosceva. Doveva
quindi esserci qualcosa al di fuori delle Mura, oltre ogni sua immaginazione. C’erano altre città da qualche parte? Esistevano
altri insediamenti di esseri umani in lotta contro i giganti? E se così era, perché
non potevano venire in contatto con loro? Alla base della scienza vi è lo
scambio di nozioni; chissà quanto avrebbero potuto imparare da un popolo che
era anche solo in grado di fare delle stampe di quella qualità. Nina era però
consapevole di avere fra le mani qualcosa di nuovo, ma anche di potenzialmente mortale.
Era severamente vietato detenere o anche solo leggere dei libri riguardanti il
mondo oltre le Mura, figurarsi poi dei volumi che venivano direttamente dall’esterno.
Qualsiasi cosa avesse scoperto, avrebbe dovuto selezionare molto attentamente
coloro a cui parlarne. Sapeva delle storie, di uomini e donne che avevano
provato a visitare il mondo esterno o che anche solo avevano cercato di
scoprire i segreti delle mura. Erano tutti spariti, in un modo o nell’altro,
sicuramente per mano di qualche corpo specializzato della Gendarmeria. Persino loro
dovevano sempre fare rapporto di ogni scoperta ad un organo specializzato, ogni
qualvolta tornavano da una missione ed era anche capitato di vedersi negare i
permessi per indagare più a fondo eventi peculiari.
Le leggi che la Corona aveva
imposto tutelavano la stessa, non l’Umanità.
“Questa è della malva” disse
Nina, passando il dito sulla parola scritta sotto all’immagine di una foglia a lei
fin troppo conosciuta “Mentre in questa sezione anatomica, è indicata la
mandibola. ‘Ma’ e ‘ma’ sono però scritte in modo diverso,
senza dubbio sono due lingue diverse, sempre che si chiami con lo stesso nome
sia la pianta che la parte del volto in questione.”
Bel problema.
“Pazienza, avrò il tempo in
un momento in cui sarò meno stanca per lavorarci. Quello, qui, non manca mai.”
Appoggiando la tazza ora
vuota, Nina stirò le braccia verso l’alto, portandole poi dietro al capo.
Doveva andare in bagno, altra necessità sconveniente, visto che doveva uscire
per ottemperare ai bisogno fisiologici. E farlo di giorno, con l’attrezzatura
per lo spostamento tridimensionale addosso era quasi impossibile. Le iniziava a
mancare la latrina del campo reclute, e ciò diceva tutto sulla situazione.
Decidendo di essere davvero
avventurosa, la ragazza non prese il modulo per lo spostamento e si liberò
anche di tutte le cinghie, lasciandole cadere sul materasso. Sarebbe entrata e
uscita nel giro di massimo due minuti, così da non contravvenire al codice di
regole base che si era data da sola, il cui punto numero uno era proprio tenere sempre le armi a portata di mano.
Se quel mese le fosse venuto il sangue mentre era ancora la fuori, allora si
che sarebbe stato parecchio sconveniente e poco, poco divertente. Uscì dalla casa, girandole attorno verso le
latrine esterne e, una volta liberatasi, tornò a guardare verso il cielo. Era
una bella nottata di luna crescente. Di nuovo, venne meno alle sue stesse
regole e si avvicinò a una staccionata, salendovi sopra per sedersi e tenendo
lo sguardo puntato verso la vastità del cielo, ma non prima di aver controllato
che la finestra più vicina non solo fosse aperta, ma anche facilmente
raggiungibile. Il silenzio era ispirante, tranquillizzante, tanto da farla
cadere nel vortice dei ricordi di altre, belle notti in cui aveva potuto godere
di un po’ di compagnia.
Con Fritz, oppure con Levi,
come l’ultima notte dell’anno. Sorrise, sistemandosi meglio col sedere,
ripensando a quella serata, mentre avvertiva un senso di calore e conforto nel
petto. Con la mano sistemò la mantella verde, chiedendosi cosa stesse facendo
lui in quel momento. Di sicuro, non stava dormendo. Levi dormiva troppo poco e
lei non smetteva di ripeterglielo e ingozzarlo di radici di valeriana.
“Chissà se stai guardando lo
stesso cielo e stai parlando da solo come me. Improbabile, ma non si sa mai.”
Anche con Erwin passava
parecchio tempo in silenzio, a fissare il cielo notturno, fuori dalla sede del
quartier generale della Legione, nelle belle notti estive come quella. Oppure
seduti sul tetto di casa, a Stohess, insieme a Rielke e a Mieke o da soli, persi in discorsi impegnati sulle missioni
o su eventi particolarmente divertenti successi in giornata, quasi sempre al
cugino.
Un ricordo in particolare
arrivò a solleticarle la mente, facendole stringere il cuore.
Nina era appena tornata dal
villaggio natale del Tenente Renson, dopo aver
consegnato alla moglie un vaso anonimo color crema con dentro una manciata di
ceneri e la fascetta col giglio rosso, macchiata di sangue. Aveva chiesto lei
di andare a dare la notizia alla donna, ma l’averla vista sgretolarsi davanti
ai suoi occhi, insieme ai figli di dieci e quindici anni, le aveva spezzato il
cuore. Erwin l’aveva trovata seduta su un tronco caduto, con un mano quella
fascetta macchiata che la donna non aveva voluto e gli occhi arrossati dalle
lacrime trattenute.
Allora s’era seduto con lei,
ironizzando sul fatto che Levi aveva spostato tutte le sue cose in un
dormitorio vuoto, ma solo dopo averlo ripulito da cima a fondo. Alla fine,
aveva portato un braccio attorno alle sue spalle e l’aveva stretta a sé,
permettendole di disperarsi un po’. Perché lui sapeva come era Nina, aveva
bisogno di essere invitata a sfogarsi e a piangere, aveva bisogno di qualcuno
accanto, a tenerle la mano e a dirle che andava tutto bene, che sarebbe tornato
normale fino alla prossima morte, al prossimo addio. Le aveva permesso di
liberarsi e poi le aveva dato un fazzoletto per asciugarsi il volto.
Ciò che aveva detto dopo,
Nina non l’avrebbe mai dimenticato.
“La tradizione vuole che i
soldati che muoiono oltre le Mura diventino stelle” aveva iniziato con quel suo
tono che aveva un che autoritario anche mentre suonava rassicurante, facendole
alzare gli occhi sulla volta celeste con un cenno. “Il loro ardore non smetterà
mai di risplendere e illuminare il cammino di coloro che verranno dopo. Per
ogni vita che si spezza, si accende una luce.”
Lei sapeva che era un
contentino, una storia per bambini, ma per
il cielo, la forza che le aveva dato quel discorso l’aveva rinvigorita.
Erwin, che era abituato a trascinarsi avanti, sempre avanti, in mezzo a un lago
di sangue e corpi, sembrava crederci sinceramente. Una tradizione della
Legione, della loro gente, di quelle persone che conoscevano il dilaniante dolore della perdita come lo
conosceva lei. Nina non aveva mai capito cosa significasse davvero appartenere
a qualcosa, prima di tornare dalla sua prima missione e scorgere sul v0olto dei
compagni lo stessa amarezza che provava lei. Ma anche la stessa, forte
determinazione nel voler davvero credere che, quelle luci, non si sarebbero mai
spente o avrebbero smesso di vegliare.
Il Culto delle Mura predicava
la via per i Cieli Aperti, oltre le barriere imposte per proteggere il corpo
fisico, dove le anime pure di coloro che periscono si riuniscono ai loro
antenati e vivono un’eternità priva di sofferenza e affanni, né fame né paura
li avrebbero mai più tormentati. Ai
Cieli Aperti e ai Campi del Fuoco, dove sempre secondo il Culto andavano
cadendo coloro che peccavano contro le Sacre Mura e il volere dell’Unico, Nina
preferiva credere alle stelle.
Perché le stelle le poteva
vedere e ciò che più la confortava era che loro potevano vedere lei.
Prima ancora che potesse
realizzarlo, le sue guance erano bagnate e i suoi occhi leggermente offuscati.
“Nick, Ed e Kay, se anche voi
siete lassù ora, vegliate su di me” sussurrò, portando la mano al petto quasi
involontariamente.
Nonostante non ci fosse
nessuno con lei, si lasciò andare, finalmente.
Quella era la prima volta che si fermava a piangere i suoi amici. Piangerli
davvero, non come la prima giornata lì, quando era troppo stanca e le lacrime
che aveva versato erano confuse dal ricordo della dormiveglia e dalla fame.
Ora che su di lei brillava un
tappeto di stelle lucenti, poteva pensare a loro.
Pensò a quale grave perdita
fosse per lei e per il genere umano, la caduta di guerrieri così determinati e
sicuri. Mai si sarebbe aspettata di arrivare tutti insieme a quel punto,
sopravvivere per tre anni di missioni all’esterno, quando la maggior parte
delle reclute non vedeva una nuova alba di libertà.
Si diceva che nessuno era
davvero un legionario prima di essere tornato vivo dalla prima missione. Loro,
di queste ne avevano affrontate diverse e sempre tornando più o meno incolumi.
Nicholas era un piccolo genio, una mente brillante della sezione
ingegneristica. Poteva riparare un modulo per lo spostamento in quattro e
quattr’otto. Aveva anche aiutato nella realizzazione di un potenziamento al
sistema di erogazione del gas che aveva evitato lo spreco del prezioso
materiale in uscita. Ed, invece, era una macchina da guerra. Fra loro, era
probabilmente il più bravo ad abbattere i giganti, anche se ci aveva messo un
po’ a sbloccarsi, una volta riuscito a superare la paura di venire mangiato che
attanaglia ogni singola recluta fino a immobilizzarla, aveva dato un enorme
contributo alla causa. Kayla Jutah
invece, seppur non spiccasse né in forza né in intelligenza, era un supporto
morale fondamentale. Niente sembrava abbatterla o frenarla.
La loro perdita era incolmabile,
soprattutto dopo aver saputo di ciò che era accaduto Fritz, un anno prima.
Non aveva potuto dire addio a
nessuno di loro e questo, per lei, era ciò che di peggio poteva avvenire.
C’erano cose non dette, altre
che forse non sapeva nemmeno lei che c’erano, ma avrebbe tanto desiderato poter
tirar fuori.
Non sarebbe più successo.
Chissà chi aveva portato la
notizia delle loro morti alle loro famiglie. Avrebbe dovuto farlo lei.
Chissà se Leo e Rielke sapevano già tutto. Sicuramente, conoscendo i ritmi
con cui venivano rilasciate certe notizie, tutti sapevano della distruzione
totale della squadra di Sankov.
Non totale.
Lei era ancora lì e ci
sarebbe rimasta.
Immediatamente, tornò ad
alzarsi. Puntò un’ultima volta lo sguardo verso le stelle, brillanti e
irraggiungibili, pregandole.
Avrebbe vissuto anche per
loro, glielo doveva dopo tutto ciò che avevano condiviso.
Avrebbe vissuto e li avrebbe
ricordati, fino al giorno in cui si sarebbero ritrovati di nuovo.
Die Welt, so wie sie war, zerfällt in Scherben
Als dir zu schaden, würd' ich eher sterben
Erinnere dich an das, was ich einst war
Das alles scheint real...
Anno 844
Wall Sina, Capitale.
Non aveva idea di quanto
tempo fosse passato, né di dove si trovasse.
Dal dolore alle ossa, Nina
suppose che dovevano essere passati almeno un paio di giorni da quando è stata
presa. Da chi era un altro mistero a
cui non ha potuto dare una risposta.
La posizione che era
costretta a mantenere era deleteria, soprattutto per i polsi, legati dietro
alla schiena, e per le ginocchia, su cui era costretta a stare per la maggior
parte del tempo, perché un’anella metallica la teneva ancorata al suolo e, da
seduta, sentiva le spalle dolerle troppo. Tutte le informazioni che aveva erano
state acquisite con i suoi sensi, eccetto la vista e il gusto, perché non solo
non mangiava dalla cena da cui era stata strappata, ma a stento le era stata data qualche goccia di
acqua. A coprirle gli occhi aveva una benda scura che non permetteva alla luce
di filtrare e quindi di distinguere nessuna sagoma.
Non aveva praticamente
ricordi di quello che era successo. Il vino l’aveva stordita prima ancora del
panno imbevuto di etere che le era stato premuto sulla bocca da Hans, quel
ragazzo dall’aria così per bene che l’aveva approcciata non più di un giorno
prima.
Vatti a fidare delle apparenze.
Una cosa però l’aveva
recepita forte e chiara: i suoi carcerieri non erano d’accordo su nulla. Li
aveva sentiti litigare attraverso la porta più di una volta. Dove portarla, se
spostarla, se nutrirla o lasciarla così per evitare che potesse in qualche modo
ribellarsi. Era un soldato, un buon soldato, ma rimaneva prima di tutto un medico che aveva seguito più
aggiornamenti che allenamenti nel corpo a corpo. Non era come Mike o Ed, non
aveva le capacità di stendere tre uomini – sembravano tre dal numero di voci
che era riuscita a distinguere- e scappare.
Non per questo, non ci
avrebbe provato.
Superato il panico iniziale,
insorto nel momento in cui aveva ripreso conoscenza, dolorante e confusa, aveva
fatto un paio di conti facendo ricorso a tutto il suo provvidenziale sangue
freddo. Non aveva assolutamente idea di dove si trovava, questo è vero, ma
poteva cercare di capirlo. La stanza era fredda e umida, forse un seminterrato
privo di finestre che teneva lontana la calura estiva. L’odore umido nell’aria
pareva confermarlo, così come l’eco costante che si udiva. Aveva trovato un
piccolo sasso a terra e l’aveva lanciato. Il suono era rimbombato per un po’
prima di fermarsi, segno che la stanza era anche parecchio grande.
Aveva provato poi a
liberarsi, ma quelle che aveva ai polsi sembravano tristemente delle manette. Non
sarebbe mai riuscita ad aprirle senza una forcina e forse nemmeno con quella
vista la sua scarsa esperienza in escapologia.
In ultimo, non aveva potuto
che tentare un approccio diretto con i suoi rapitori, quando andavano a
controllarla o a portarle da bere quelle due volte che l’avevano fatto, forse
ricordandosi che un essere umano medio, per vivere, ha bisogno di qualche bene
di prima necessità. Domande, richieste, ma niente. Come premio aveva giusto
ricevuto uno schiaffo che le aveva spaccato il labbro, ma nemmeno un sussurro.
A quel punto, non aveva
potuto fare nient’altro che riporre le sue speranze nell’essere trovata prima
di morire di fame.
La porta si era aperta col
solito cigolio sinistro, ridestandola dal sonno tormentato in cui era caduta a
stento qualche ora prima. Nina aveva scostato il capo dal palo dietro di sé, allungando
il collo per cercare di cogliere qualche nuovo movimento.
Sorprendentemente, sentì
qualcuno parlare. Non con lei, però.
“Dovremmo ucciderla e
liberarci del corpo” gracchiò la prima voce, un po’ troppo alta per appartenere
ad un uomo. Sentì un vuoto allo stomaco, ma non riusciva a dire niente a causa del bavaglio. D’altronde,
cosa dire a una persona che ti vuole fare la pelle?
Una seconda voce, stavolta
profonda e baritonale, si intromise “Bella idea, Liebert”
commentò sarcastico, mentre un terzo uomo entrava nella stanza, camminando
veloce “Così sarà stato tutto inutile. Il rapimento è andato come previsto, perché
non fare ciò che avevamo deciso e basta?”
“Perché questa puttana sa
troppo. A partire dal nome di Hans.”
Fu proprio quest’ultimo a
parlare, Nina riconobbe la sua voce subito “Non la uccideremo. Non ora.” La pausa
ad effetto non piacque molto alla ragazza, ma a quanto pareva, aveva altro
tempo “La sposteremo nel luogo che avevamo previsto, dietro alla tua officina, Bertram. Lì difficilmente verranno a cercarla.”
“La Legione ricognitiva è
arrivata in città e quelli non sono come la Polizia Militare!” proseguì quello
dal tono viscido, mentre nel cuore della ragazza nasceva di nuovo la speranza “Se
ci trovano, ci faranno a pezzi prima ancora di portarci in tribunale, ve lo
dico io.”
“Avevamo stipulato che
dovesse morisse di fronte a Erwin Smith o sbaglio? Se è ciò che va fatto, uno di
noi dovrà per forza metterci la faccia.”
Ora tutto iniziava ad avere
un senso. Si era chiesta spesso perché stava succedendo a lei. Ed ecco la
risposta.
Era lì per una vendetta ai
danni di suo fratello.
Di nuovo, scelse di aspettare
a parlare. Si sarebbe dimostrata il più docile e debilitata possibile, nel caso
in cui avesse avuto la possibilità di usare tutte le sue energie per scappare.
“Lo so, Hans, visto che il
piano è mio. Mi sto solo chiedendo fino a che punto vale la pena vendicare
nostro padre.”
“Se hai intenzione di tirarti
indietro, Liebert, proseguiremo io e Bertram.”
Continuavano a ripetere i
loro nomi senza nessun ritegno, permettendo così a Nina di memorizzarli senza
alcuna fatica. Non dovevano essere delle volpi o forse, più semplicemente, non
erano avvezzi a quel tipo di azioni criminali. Il che era un bene.
Non sarebbe stato difficile ingannarli,
se ne avesse avuto l’occasione.
“Andiamo avanti insieme,
allora. Portala dove ti pare, Hans, ma fallo prima dell’alba.”
Due paia di passi uscirono
dalla stanza e lei rimase con il suo rapitore, da sola. Lo sentì muoversi verso
di lei, liberarla dall’anella metallica, mentre le manette venivano lasciate ai
polsi. La fece alzare e lei si lasciò prendere su di peso, zoppicando poi un po’,
non facendo fatica a simulare il dolore; le ginocchia stavano gridando tanto
facevano male e così la schiena, che le rimandò anche una fitta che per un
attimo le tolse il fiato.
I modi del ragazzo furono
insolitamente gentili, mentre attraversavano una stanza e salivano una rampa di
scale. Quando sentì la bocca libera dal bavaglio non riuscì a trattenersi
oltre.
“Perché lo stai facendo,
Hans?”
La domanda era stata un
azzardo, perché sapeva che la ricompensa poteva anche essere uno schiaffo in
viso, ma tanto valeva rischiare. Era stanca, spaventata e piena di acciacchi. Non
era mai stata molto combattiva sul piano fisico, non sapeva nemmeno se sarebbe
stata in grado di menare le mani abbastanza forte, ma lo doveva fare per forza
in un qualche modo.
Sorprendentemente, ricevette
una risposta, “Quando arriveremo nel luogo in cui siamo diretti, risponderò
alle tue domande.”
Sembrava una promessa
fragile, ma era tutto ciò a cui poteva aggrapparsi. Nella sua falsa remissività
si limitò ad annuire impercettibilmente, mentre l’aria della notte la investiva
insieme all’odore del fieno da poco mietuto. Non erano nemmeno in città, maledizione.
Avrebbe dovuto cercare un rifugio, una volta tentata la fuga.
La faccenda si faceva di
minuto in minuto più complessa.
Il viaggio in carretto fu breve.
Nina, nascosta sotto a
qualche coperta, aveva quanto meno avuto la possibilità di stendere le gambe e
la schiena. Non provò a urlare o a
dibattersi, né di alzarsi per provare a correre via. Se aveva capito bene, era
notte fonda e non avrebbe avuto nessun aiuto contro una carrozza in corsa e un
rapitore decisamente più in forma di lei.
Hans sembrava volersi porre
in modo gentile nei suoi confronti. Non credeva che un uomo che aveva promesso
di ammazzarla di fronte a suo fratello fosse una persona di buon cuore quindi
decise di non farsi fregare da quelle premure.
Giunti a destinazione, il
giovane la fece entrare in un’altra struttura sconosciuta. L’odore che colpì le
narici di Nina era sgradevole tanto era forte. Sembrava un odore di vernici,
era intenso. Avevano parlato di un’officina, così ipotizzò che forse,in quel
luogo, costruivano o assembravano oggetti. Hans le fece attraversare almeno un
paio di stanze, prima di fermarsi nell’ultima, facendo tintinnare qualcosa che
Nina capì essere una catena, che le venne assicurata alle manette.
“Avevi promesso di rispondere
alle mie domande” ricordò, con la voce che le tremava appena, perché più si
sforzava di essere decisa e sembrare padrona di sé, meno si convinceva che il
piano di fare la povera vittima delle circostanze avrebbe funzionato.
Ci fu un attimo di silenzio
sospeso, mentre la dottoressa respirava piano per poter cogliere ogni singolo
rumore. Sentì nitidamente qualcosa che veniva trascinato per la stanza e capì
che doveva trattarsi di una sedia. Si metteva comodo?
“Ogni promessa è un debito d’onore,
Nina. Risponderò alle tue domande.”
Avevano proprio intenzione di
farla fuori, ormai ogni dubbio si era dissipato, o non avrebbe mai detto niente.
La bionda passò la lingua sulle labbra screpolate, prima di arrivare diretta al
nocciolo della questione “Chi sei? Cosa vuoi da me?”
“Il mio nome è Hans Lobov” rispose immediatamente il giovane, come se si fosse
già preparato alle presentazioni vere e proprie. Una volta svelato il cognome,
Nina capì “Immagino che le spiegazioni, ora, siano superflue. Avresti dovuto
domandarmi il nome completo.”
“Non me l’avresti mai
rivelato, ti saresti inventato qualcosa” non era stupida, nemmeno volendolo
avrebbe potuto impedire il ciclo di eventi scaturiti da una semplice
chiacchierata di nemmeno due minuti al parco “Immagino che coloro che ti stanno aiutando siano i tuoi fratelli,
magari dei parenti stretti.”
Hans schioccò la lingua
contro al palato, mentre la sua voce si faceva improvvisamente fredda. Tutte le
buone maniere e il falso garbo erano solo un modo sicuro per poterla fino a lì
senza ottenere resistenza “Sei più sveglia di quello che sembra. Peccato tu non
lo sia stata del tutto.”
“Non mi biasimerò per aver
risposto a un complimento, anche se il tuo approccio è stato un po’ fiacco. Dimmi,
sei negato nel rapportarti con il gentil sesso o, semplicemente, non intendevi
impegnarti?”
Il giovane rise sottovoce,
strusciando nuovamente la sedia, forse per sporgersi in avanti verso di lei,
seduta sul terreno freddo “Ironia un po’ inopportuna, non pensi?”
“La vera ironia è che state
facendo tutto questo trambusto perché vostro padre è stato sbattuto in galera
per essere un maiale che mangiava più soldi che cibo” proseguì Nina con tono
amabile, come se stesse facendo non pochi complimenti alla famiglia di Hans e
al suo buon nome “Pensi che uccidendomi, otterrai qualcosa, eccetto la forca? Sempre
se ci arrivi al farti impiccare, perché se mio fratello dovesse prenderti
prima, nemmeno un Dio o chi per lui potrebbe salvarti.”
“Sei parecchio fiduciosa che
tuo fratello ti salverà o vendicherà, ma sono passati due giorni da quando sei
sparita nel nulla e lui non è ancora alla mia porta, nonostante gli abbiamo
lasciato una lettera in cui esprimevamo i nostri intenti.”
Due giorni, almeno aveva una
finestra temporale su cui basarsi. Quarantotto ore senza mangiare, non era poi
così grave.
“Vi siete firmati? Non credo,
no. Anche i migliori investigatori necessitano di qualche pista. Sicuro di non
aver trascurato niente?” nel tono della giovane non c’erano provocazioni, non
era affabile o presuntuoso, ma volutamente neutro.
Un odore pungente fendette l’aria,
arrivando direttamente al naso di Nina, che non ci mise molto a riconoscerlo. Stava
fumando, il bastardo “No. L’hai detto tu che bisogna stare attenti a quel che
si dice a un giurista, dopotutto; noi siamo i più bravi a giocare con le parole
e a rigirare le persone.” Lo sentì
alzarsi e girarle attorno, prima di chinarsi proprio di fronte a lei “Sai, per
colpa di tuo fratello, noi abbiamo perso tutto. Le terre, i possedimenti in
Capitale, i titoli, la fiducia delle persone e tutti i nostri soldi fino all’ultima
moneta di bronzo. Io non ho potuto finire l’università, a pochi passi dalla
laurea, mentre Bertram e Lieberth
non possono più andare avanti le loro attività, che sono state pignorate dalla
corona. Tutto ciò che ci è rimasto è questa vecchia officina, di proprietà
della moglie di mio fratello e una baracca diroccata nelle campagne. Erwin
Smith ha buttato nostro padre in galera per corruzione, ma vuoi sapere come ha
ottenuto le prove?” una mano si alzò fino al suo viso, scostandole i capelli
biondi dietro all’orecchio, mentre l’alito del ragazzo, che puzzava di fumo e
vino dozzinale, le fece storcere la bocca in una smorfia “Estorsioni e doppio
gioco. Si è sporcato le mani di sangue, sguinzagliando i suoi uomini e
ottenendo confessioni con metodi tutt’altro che accomodanti. Tuo fratello, Nina
Müller, non è meno colpevole di mio padre.”
Nina non intendeva credere ad
una sola parola. Ai suoi occhi, Erwin era un modello di onestà, un’ispirazione.
Era la persona che lei aveva sempre ambito diventare, non poteva averlo fatto. Non
sarebbe venuto meno alla sua umanità.
“Tu menti.”
“Io mento? No, sei tu che
racconti bugie a te stessa. Tuttavia…” la stessa mano
che le aveva toccato il viso, costringendola a voltare rapida il capo di lato,
ora risaliva la sua gamba, alzandole la gonna bianca che ormai doveva essersi
sporcata non poco, fino alla coscia. Nina sgranò gli occhi sotto alla benda,
mentre il panico le faceva salire la nausea. Era consapevole che non avrebbe
potuto sottrarsi in nessun modo, se non scalciando “Magari hai ragione. Forse il
Capitano Smith è qui nei paraggi e presto irromperà da quella porta per
salvarti e farmi saltare la testa. Dovrei quindi fare qualcosa, non credi? Svergognare
sua sorella potrebbe essere un ottimo inizio, anche se dubito che una come te
possa essere arrivata pura fino ad oggi. Sarebbe stupido, per una persona che
va spontaneamente a morire, non avere dei diletti. Dopo di che, potrei iniziare
a tagliuzzarti il viso. Non sono un medico come te, ma sono sicuro che la mia
inesperienza renderà il tutto più doloroso e interessante.”
“Hans! Vieni qui
immediatamente!”
Quella voce viscida, che
aveva appena richiamato il fratello, suonò come la campana della libertà alle
orecchie di Nina.
“Rimandiamo a dopo, cosa ne
pensi?” Hans le sfiorò il mento con il pollice, prima di alzare nuovamente il
bavaglio che pendeva sul collo della giovane, ficcandoglielo in bocca senza
troppo cerimonie. Lasciò la stanza qualche istante dopo e Nina sospirò così
forte da svuotare i polmoni.
Il tempo per avere paura era
ufficialmente fino. Non si sarebbe fatta più trattare a quel modo.
Avrebbe agito e l’avrebbe
fatto subito, prima del ritorno di Hans.
Era anche abbastanza
arrabbiata per farlo.
Un po’ a fatica riuscì a
rannicchiarsi abbastanza da passare le gambe oltre le manette, portando le mani
davanti al busto. La prima cosa che fece fu di liberarsi di quel bavaglio sudicio,
prima di passare alla benda, strappandola via da davanti agli occhi e
lasciandola cadere a terra. Nonostante fosse notte fonda, un po’ di luce lunare
filtrava dalla finestra sbarrata, permettendole di vedere attorno a sé. La stanza
era sgombra, ad eccezione della catena che riuscì facilmente a sganciare dai
polsi e della sedia su cui Hans si era seduto. Si alzò in piedi, barcollando
per il dolore alle articolazioni, per poi avvicinandosi alla porta e accostarsi
ad essa. Sentiva delle voci concitate dall’altra parte, qualcuno stava
litigando e per lei andava più che bene.
Avrebbero coperto da soli il
rumore della sedia che Nina spacco con un calcio secco sul sedile, dall’alto. Per
sua fortuna, una delle gambe si staccò di netto, così non dovette dare altri
colpi per potersi procurare un’arma di fortuna. Si portò dietro all’uscio, non
provando nemmeno ad aprirlo. Non avrebbe avuto senso, perché certamente era
chiuso e oltre di esso due uomini erano pronti a riceverla. Piuttosto, tenne in
mano quel pezzo di legno, notando che all’estremità più grande c’era anche
qualche chiodo. Bene così.
Un po’ di catarsi se la
meritava, dopo due giorni in ginocchio sul cemento.
Spero sentitamente che le
gambe la reggessero nella fuga, ma per stare più tranquilla prese a flettere le
ginocchia, cercando di scaldare i muscoli intorpiditi. Aveva così tanta
adrenalina in corpo da non sentire quasi più la fatica e la fame.
All’udire dei passi concitati,
si preparò alzando il bastone improvvisato sul capo.
Tra l’ingresso nella stanza
di uno dei suoi carcerieri e il primo colpo passarono solo una manciata di
respiri. Lui non fece in tempo a fare nulla, se non guardare spiazzato la
catena abbandonata e la sedia distrutta, perché appena si voltò di nuovo verso
l’uscito, venne colpito. Nina picchiò più forte che poteva, prima sullo stomaco
e poi sul capo dell’uomo, almeno tre volte, fino a che questi non cadde a terra
con un tonfo.
Quando si avvicinò per
girarlo, notò che purtroppo non era Hans.
Trovare le chiavi per
liberare le mani era una buona idea, ma anche uscire di lì e farsi liberare da
suo fratello o da un fabbro suonava bene. Aveva i minuti contati, forse i
secondi e non aveva intenzione di rimanere lì ancora. Si sarebbe liberata da
sola, era un soldato, doveva ricordare che aveva vissuto situazioni molto
peggiori di quella e non si sarebbe spezzata per così poco.
“Non mi hanno ammazzata i
giganti, non mi ammazzeranno nemmeno tre figli di papà viziati” decretò,
tenendo nelle mani il bastone e uscendo circospetta. Girò lungo un corridoio,
oltrepassando un paio di porte che trovò aperte.
Sembrava non esserci nessuno,
così avanzò, seppur circospetta e schiacciata alle pareti, in quel dedalo di
anticamere e stanzoni dagli alti soffitti. Più che un’officina, sembrava un’industria.
Quando arrivò finalmente nella stanza che puzzava di vernice non perse troppo tempo
ad esaminarla. Notò però che c’erano diversi pannelli di legno dipinti o
lasciati ad asciugare, appesi ad alcune travi con delle funi dall’aria abusata.
Costruivano carrozze, in quel
luogo.
Ottimo, altre informazioni
che avrebbe spiattellato quanto prima alla polizia militare.
Arrivata alla porta
principale in una rapida corsa attraverso la stanza deserta scoprì, con non
poco stupore, che era solo accostata. Spalancò l’uscio e subito venne investita
dal vento notturno.
All’esterno, l’aria era tersa
e il cielo sulla sua testa non le era mai sembrato così grande. Prese un
respiro e si riempì per bene i polmoni saturi di aria viziata, prima di
guardarsi attorno, constatando che non c’era niente attorno a loro se non un
vecchio casolare diroccato.
Doveva correre, nascondersi
nel bosco al lato della via prima che si accorgessero che era fuggita.
Non riuscendo a trattenere un
sorriso brillante sul suo volto sporco,
Nina prese a correre a perdifiato, sentendo le gambe pesanti e doloranti ma
trovando nella speranza la forza di mettercela tutta.
Corse, puntando la macchia di
vegetazione di fronte a lei, assaporando già la ritrovata libertà. Doveva solo resistere…
Un boato, seguito da un
lancinante dolore alla spalla, però, infransero ogni suo sogno.
Cadde a terra, sentendo il
fiato e la vista venir meno, mentre il male si acutizzava. Lungo il braccio
prese a scorrere un liquido caldo, che Nina comprese essere il suo sangue solo
dopo aver metabolizzato cosa era successo. Tentò comunque di alzarsi, arrancò
nel terreno, cadendo e ferendosi le ginocchia sotto alla gonna, prima di
tentare ancora, tirandosi in piedi a fatica e riprendendo a correre. Non compì
però più di una manciata di falcate che una voce la gelò.
“Ferma o il prossimo te lo
sparo nella schiena. Non camminerai mai più dopo, figurarsi fuggire.” Il tono
usato da Hans era calmo, sicuro così come la sua presa sul fucile, quando Nina
si voltò a guardarlo, sconfitta. Il ragazzo non sembrava incollerito, né
vittorioso. Sembra più che altro indeciso tra il finirla lì oppure proseguire
quel piano malsano.
“Fallo” gli disse la bionda,
sentendo le forze iniziare a mancarle del tutto, mentre l’emorragia iniziava a
farle annebbiare la vista. Si arrendeva? Era stanca, la spalla la stava facendo
impazzire e non voleva che lui la toccasse. Non voleva nemmeno che la
guardasse.
Preferiva morire.
Preferiva non sapeva se per
Hans ne sarebbe valsa o meno la pena, a posteriori.
La canna del fucile rimase
puntata verso di lei per quelle che sembravano ore, ma che non potevano essere
altro che una misera manciata di secondi, ma poi il giovane la abbassò.
“Torniamo dentro” decretò
infine, facendole cenno di precederlo.
A Nina non rimase altro se
non riprendere a camminare verso la sua prigione polverosa, certa che avrebbe
pagato a caro prezzo quella presa di posizione.
Non venne punita, ma non
venne nemmeno curata, il che poteva dirsi la peggiore delle pene.
Impossibilitata a curarsi da
sola, a Nina non era rimasto altro se non strappare una porzione ampia della
gonna sulla base, fasciando con quel pezzo di stoffa lercio la zona ferita che,
quanto meno, aveva smesso di perdere sangue. Se c’erano dei pallettoni dentro
alla carne viva, sarebbe morta per intossicazione da metalli. Se aveva sfiorato
un’arteria anche solo per poco e essa si fosse poi rotta in seguito a un
movimento secco, sarebbe morta dissanguata.
Senza contare che niente
impediva alla ferita aperta di riprendere a sanguinare ogni qualvolta l’articolazione
veniva mossa o peggio ancora, di infettarsi a causa dello sporco e della
polvere che la circondava. Per impedire qualsiasi eventualità, rimase seduta
immobile nell’angolo della stanza, tenendosi contro alla parete. Non l’avevano
nemmeno incatenata, avevano solo tolto
tutto ciò che avrebbe potuto usare come arma, ma sapevano bene che non ci
avrebbe riprovato.
Di ora in ora, Nina diventava
più debole, più pallida.
Quando si destò la mattina
successiva a causa del sole che filtrava
attraverso le finestre alte, bruciava per la febbre. Aveva un’infezione in corso,
ne aveva riconosciuto da sola i sintomi e il pensiero di non poter nemmeno
lavare la carne viva, lasciata esposta dalla ferita ampia, le dava il tormento.
Cercò di tenersi vigile e
lucida fino a che riuscì, ma quando il sole tramontò nuovamente oltre le piane
e i campi, ogni buona volontà venne meno. Passò quindi da una fase all’altra,
da agguerrita, a positiva, fino a rassegnarsi.
Erwin non l’aveva trovata e
forse Nina avrebbe dovuto accettare la realtà che non ci sarebbe riuscito prima
che lei morisse per un’infezione del sangue. Se non avesse tentato così
stupidamente la fuga, forse avrebbe avuto più tempo.
Con quella consapevolezza si
abbandonò, con le palpebre troppo pesanti per rimanere aperti e la testa
pesante.
Crollò sapendo che forse non
avrebbe mai più aperto gli occhi, ma non sapeva se stava o meno dormendo.
Una serie di immagini
iniziarono a vorticare nella sua mente, troppo vivide per essere sogni, ma
anche troppo astratte per essere dei ricordi veri o propri.
Sua madre.
Chissà cosa avrebbe detto sua
madre. Non avrebbe mai incolpato Erwin, su questo ci poteva mettere la mano sul fuoco.
Con chi se la sarebbe presa, allora? Con la provvidenza? Con i figli di Lobov? Forse addirittura con Nina stessa, che aveva ben
pensato di diventare una legionaria invece di sfornare figli come suo padre
sfornava pagnotte.
Sperò che Erwin non si
sentisse troppo in colpa, così come Fritz che l’aveva lasciata su una panchina,
ovviamente senza pensare a quell’ipotesi così assurda.
Arrivò addirittura a
chiedersi se a Levi sarebbe dispiaciuto almeno un po’. Perché mai, poi? Aveva visto
morire i suoi amici, la sua famiglia. Lei, per lui, non era nessuno. Anzi, Nina
era stata determinante nella morte di Farlan e
Isabel, perché non aveva fatto assolutamente nulla per impedire a suo fratello
di mandare avanti i suoi piani.
Fu però concentrandosi su di
lui, quel suo sguardo sprezzante e la sua voce bassa, che Nina si ricordò perché non doveva morire.
Aveva progetti, aveva anche dei doveri. Verso la Legione e suo fratello, ma soprattutto
verso se stessa.
Non avrebbe ceduto così.
Riaprì gli occhi e iniziò ad
elencare tutte le ossa presenti nel corpo umano, poi i muscoli, quindi i nervi
e gli organi. Quando terminò con l’anatomia, iniziò con le procedure
chirurgiche, poi le modalità di formazione dell’esercito, il regolamento, tutto
ciò che le veniva in mente per tenersi vigile.
Il sole tornò a sorgere e lei
non smise un solo istante di tenere la mente concentrata su qualcosa. Quando non
seppe più a cosa votarsi, iniziò a pensare a cosa ambiva in futuro. A dove l’avrebbero
portata le missioni, a chi avrebbe dato il suo cuore.
Continuò, lottando contro il
forte desiderio di lasciarsi andare definitivamente, fino a che la porta non si
spalancò nuovamente, colpendo con un suono secco la parete dietro, mentre due uomini irrompevano nella stanza,
con gli occhi sbarrati e il fiato corto.
Lieberth guardò Hans, prima di andare verso Nina,
costringendola ad alzarsi e facendola gemere per il dolore.
“Non c’è più tempo” blaterò,
mentre il giovane fratello sembrava incapace di muoversi, pietrificato “Sono
qui.”
La prima cosa che Erwin notò,
fu l’ambito imbrattato di sangue, insieme al colore cadaverico che la pelle della
sorella aveva assunto. Successivamente, si rese conto che i due rapitori
sembravano più spaventati che determinati e questo gli fece largamente
intendere che le cose stavano per risolversi in uno e un solo modo.
Fece un cenno a Mike, che
tenendo la spada premuta contro al collo di un Bertram
Lobov dal volto livido e pieno di tagli, si avvicinò
a lui “Vi spiego la situazione” iniziò il Capitano, mentre attorno a loro si radunavano
diversi membri della Legione, supportati da diverse unità della Polizia
Militare “Vostro fratello ci ha già detto tutto ciò che ci interessava sapere. Questa
storia può finire solo in un modo e voi lo sapete benissimo. Lasciatela andare
e noi vi ammanetteremo seduta stante, conducendovi nelle carceri della Capitale
con la sola accusa di rapimento. Vi prometto che, per il momento, non vi verrà
fatto altro.”
Non esisteva persona più
calma, seppur seria, di Erwin, in quel momento. Sembrava completamente padrone
della situazione, al contrario dei due sequestratori.
Nina gemette di nuovo,
sentendo le forze mancarle, mentre Lieberth la
spingeva per farla rimanere diritta. Stava premendo un coltello contro alla sua
gola e non sembrava in vena di negoziare. Tirò un sorrisetto nervoso, guardando
l’uomo negli occhi, come se in quello spiazzo ci fossero solo loro due e non
almeno una cinquantina di soldati pronti a massacrarli, se solo avessero alzato
il fucile che Hans stringeva in mano “Ormai è fatta” convenne, stringendo il
braccio ferito della ragazza, che strinse gli occhi e i denti, ansimando per il
dolore “Allora perché non finire quello che abbiamo iniziato?”
“Vogliamo fartela pagare,
Erwin Smith, per ciò che hai fatto alla nostra famiglia!” intervenne Hans, con
vigore, guardando con disgusto il Capitano e facendo un passo avanti, mentre i
gendarmi puntavano le loro armi contro di lui, pronti a premere il grilletto e
falciarlo nell’esatto istante in cui avrebbe fatto un passo falso “Ci hai
rovinati! Meriti di soffrire come abbiamo sofferto noi!”
“Quindi uccidete una ragazza
innocente per fare un torto a un uomo” una voce carezzevole si sollevò tra le
fila dei soldati, attirando su di sé l’attenzione. Erwin si spostò di lato e,
alle sue spalle, apparve il Comandante Kessler, ammantata da un cappotto d’ordinanza
marrone scuro, che le arrivava alle caviglie. “Non è molto acuto nemmeno per un
Lobov” proseguì, mentre Nina alzava una mano e si
aggrappava al braccio di Lieberth, per avere un
appiglio e non scivolare verso il basso, premendo la carne delicata della gola
contro alla lama “Facciamo così: voi ci consegnate la ragazza e io non ordinerò
ai miei uomini di portarvi in quel bosco e spararvi in testa. A tutti e tre. Che
ne pensate? Equo?”
Hans parve vacillare, tanto
che prese a boccheggiare. Lieberth, il quale aveva
avuto dei ripensamenti il giorno precedente, parve invece aver trovato tutto il
coraggio di cui aveva bisogno. Premette la lama sul collo della ragazza, che
sentì la pelle incidersi e bruciare, lesa “La finiremo così e niente ci
impedirà di vendicarci! Guarda tua sorella morire, Capitano Smith, e fa
ammenda!”
“Ora!” la voce di Erwin coprì
la fine del discorso di Lieberth Lobov,
lasciandolo spiazzato, mentre un’ombra si sollevò sopra alle loro teste. Hans lo
intravide con la coda dell’occhio saltare dal tetto e usare l’attrezzatura per
lo spostamento tridimensionale per darsi lo slancio. Il tempo di battito di
ciglia e Nina sentì la presa del suo aguzzino farsi debole, fino a che il
coltello non gli cadde di mano. Lieberth cadde
riverso all’indietro e quando la ragazza abbassò lo sguardo su di lui, vide che
l’uomo aveva un coltello ficcato in mezzo agli occhi sbarrati, con precisione chirurgica.
E Levi ora era in piedi di
fronte a lei, con i comandi del modulo ancora in mano e gli occhi fissi su Hans,
che buttò a terra il fucile, arretrando di qualche passo, prima di correre
dentro all’officina.
Nina scivolò il terra,
sedendosi e portando la mani ancora ammanettate alzare sul collo. Per un
attimo, non capì niente, tutto si fece nero e confuso. Ogni azione andava
troppo veloce, i soldati che le correvano attorno non erano che macchie di
colore in movimento. Una mano forte si appoggiò sulla spalla sana, attirando lo
sguardo smarrito della giovane su di sé.
Erwin.
Nina lo guardò, aprendo le
labbra per dire qualcosa e sentendo gli occhi chiari pizzicarle per le lacrime.
Spostò la mano sul suo viso, come per testare che fosse davvero lì e
sporcandolo di sangue su una guancia. Poi, però, indurì lo sguardo, mentre con
un respiro si tranquillizzava abbastanza da poter parlare.
“Prendilo” soffiò e il
fratello non se lo fece ripetere, alzandosi e inseguendo Hans Lobov, dopo aver detto qualcosa che però Nina non riuscì a
cogliere.
Fritz fu su di lei in un
baleno, insieme a Rielke e Leo. C’era anche Hanji, Nina sentiva la sua voce, ma non riusciva proprio a
inquadrare cosa stessero cercando di dirle. Avrebbe voluto ascoltarli, dire
loro che era viva, che era ancora lì, ma
era arrivata al limite di sopportazione, sia fisico che emotivo.
Perse i sensi prima ancora di
realizzare che era stato Levi a sollevarla dalla polvere, per portarla via,
mentre gli altri si le si affaccendavano attorno.
Quando svegliandosi Nina
chiese di poter mangiare qualcosa di dolce perché ci aveva fatto la passione in
quei quattro giorni, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Nell’ospedale
militare dove l’avevano portata, la sua camera era diventata la più chiassosa
dello stabile. Il via vai continuo di persone non era ben visto dalle Sorelle
della Congrega che aiutavano i medici nella cura dei pazienti, ma quando era
stato il Comandate Kessler in persona a sostenere che potevano continuare così,
nessuno aveva avuto il coraggio di mettersi contro Nora.
Nina s’era stufata del
ricovero già al secondo giorno quando, dopo essersi nutrita e dopo che Fritz
aveva provveduto ad estrarre i pallini metallici e a medicarla come si deve la
spalla, aveva iniziato a domandare di essere spostata a casa del dottor Meier.
“Odio gli ospedali, sono un
medico, non un paziente” sosteneva determinata, facendo sbuffare un po’ tutti
coloro che si recavano giornalmente a trovarla, in particolare Erwin. “Sto bene
e il dolore alla spalla non passerà in questo letto come non passerà in un
altro. Senza contare che in quella casa ci vivono tre dei migliori dottori
della Capitale!”
“Rimarrai qui almeno per tre
giorni, facci il callo e sta zitta” la ammonì Jara,
ficcandole in bocca una radice di liquerizia, che Nina prese a mordicchiare,
con tanto di broncio infantile “E non fare quella faccia, che sai bene cosa
capita se quei punti si aprono o s’infettano!”
“Li disinfettiamo e li
rifacciamo?” chiese retorica Nina, ricevendo un’occhiataccia che la fece
desistere. Erwin, seduto su una sedia accanto al capezzale della sorella, sorrise
in un misto di rassegnazione e divertimento, accarezzandole la mano “Cos’altro
potrebbe andare storto?”
“Ho scritto a nostra madre,
che pare intenzionata a venire qui” la mise al corrente il Capitano, ottenendo
un’occhiata di fuoco dalla degente. Perché passare da un inferno all’altro in
così poco tempo? Quello era sadismo.
“Oh, fantastico!” sbottò,
mentre Hanji rideva senza pudore, seguita da Rielke e Erwin “Potevi lasciare che mi sgozzassero a questo
punto, sarebbe stato meno doloroso!”
“Non dire certe cose, cretina”
la riprese il cugino, mentre Fritz entrava nella stanza con in mano una siringa
dall’aspetto poco rassicurante. Li guardò
tutti con gli occhi contornati dalle occhiaie, indice che non aveva passato
delle notti serene.
“Ancora tutti qui?” domandò
con una nota indignata nella voce “Avanti, l’orario delle visite è terminato e
Nina deve dormire.”
“Questa deve essere una
congiura” appurò Nina, allungando il braccio per farsi fare l’iniezione e non
staccando gli occhi dall’ago, mentre Fritz trovava con facilità la vena in cui
infilarlo “Non posso andarmene e devo anche stare sola?”
“Puoi dormire.”
“Ho dormito un giorno intero,
Fritz!”
Erwin le lasciò la mano,
scostandosi per permettere ad Hanji di salutare la
sorella “Tornerò domani con qualche libro interessante” le disse,
accarezzandole il braccio che non le doleva “È bello sapere che stai bene, come
avrei fatto senza di te?”
“Senza qualcuno che appoggia
ogni tuo strambo piano di cattura dei giganti? Sarebbe stata una grave lacuna
per tutti.” mormorò retorico Mike, facendole strada dopo aver salutato Nina con
un cenno. La bionda li guardò uscire, sventolando senza entusiasmo la mano
nella loro direzione. Già si stava annoiando, non poteva che peggiorare la
cosa.
“Verrò prima di cena a
portarti qualcosa che non sia la sbobba da ospedale” le disse Rielke, mentre Erwin si chinava a darle un bacio sulla
fronte.
“Dormi, Nina.”
“Per caso è un ordine,
Capitano Smith?”
Lui scosse piano il capo,
arrendendosi “Un consiglio” aggiunse, accarezzandole i capelli sul capo “Sei
molto pallida e hai bisogno di riprenderti se vorrai tornare a studiare per le
abilitazioni.”
“Questo sì che è consolante, Erwin.
Sai essere motivazionale con tutti tranne che con me.”
Uno ad uno, coloro che erano
presenti nella stanza uscirono, eccetto due persone.
Fritz si era quasi scordato
della presenza di Levi, visto che questo era rimasto zitto tutto il tempo,
seduto su una sedia infondo alla stanza, con le gambe accavallate e lo sguardo
un po’ perso verso la finestra.
Quando il dottore si era
voltato per andare a chiudere la porta e l’aveva visto, però, aveva alzato le sopracciglia
riconoscendo in quella figura, l’uomo che l’aveva un po’ spaventato. Aveva visto
quello strano legionario affettare di peso Bertram Lobov e scaraventarlo a terra, prima di prenderlo a calci
per farsi dire dove avessero portato Nina. Vista la sua stazza minuta, non
avrebbe mai creduto possibile che quell’uomo potesse avere tanta forza,
sembrava fisicamente impossibile.
Invece era stato molto
efficace.
“Chiedo scusa, l’orario delle
visite è finito” ripeté, cercando di non essere scortese nell’attirare l’attenzione
del moro, il quale non disse niente. Spostò gli occhi su Nina, prima di alzarsi
in piedi, prendendo la giacca di ordinanza.
“In realtà, preferirei che
Levi rimanesse con me” rivelò la degente a Fritz “Io mi sentirei più
tranquilla, se ci fosse lui e vorrei anche parlargli in privato. Potresti lasciarci
soli?”
Il medico non la prese molto
bene. Socchiuse le labbra, stringendo l’anello che teneva ancora nascosto nella
tasca della casacca azzurra che portava sui vestiti, prima di tirare un sorriso
un po’ pallido “Ma certo. Passo dopo per vedere come stai, allora.”
Nina gli sorrise, seppur stanca,
“Grazie per tutto quello che fai per me, Fritz.”
Lui si chinò, baciandola quasi di sfuggita sulle
labbra, delicato come il battito di ali di una farfalla. O come un ragazzino
alla prima cotterella. Quando andò via, chiudendosi l’uscio
alle spalle, Nina fece cenno a Levi di avvicinarsi.
“Ansioso il tuo fidanzato”
furono le prime parole che uscirono dalle labbra dell’uomo, mentre avvicinava
la sedia su cui era precedentemente seduto Erwin e vi prendeva posto “Non ha
fatto altro che urlare come una cornacchia stonata per quattro giorni.”
“Lui non è io mio – senti Levi,
lascia perdere. Non è un discorso in cui vuoi andare ad infilarti, fidati.”
Nina portò la mano alla fronte, cercando di nascondere il rossore che le stava colorando
le gote, reso ancor più evidente dal pallore malaticcio che la sua pelle aveva
assunto a causa della perdita di sangue importante “Io volevo ringraziarti. Tu mi
hai salvato la vita.”
Levi la guardò, prima di
annuire lentamente “Non ringraziarmi.”
Criptico. Lei non seppe dire
con certezza cosa intendesse con quella risposta.
Abbassò gli occhi chiari
sulle mani dai polsi lividi, unite sul grembo, prima di parlare nuovamente “Posso
chiederti di farmi un favore?” Il moro le fece cenno di continuare a parlare,
mentre si appoggiava ai braccioli della sedia “Tu sei la persona più forte che
conosco, anche più di mio fratello. Riesci a controllarti, sei letale negli
intenti e negli atti” non sapeva nemmeno lei perché aveva preso a berciare così
in astratto, forse perché temeva che lui non accettasse. Nervosamente, sistemò
la camiciola bianca che le avevano messo mentre era ancora incosciente,
coprendo la spalla completamente avvolta da candide fasce “Io, invece, sono
debole. In questo caso, sono stata un peso per mio fratello, per i miei amici e
per la polizia militare. Sono un soldato che non è stata in grado di salvare se
stessa.”
Levi sbuffò, seccato “Smettila
di piangerti addosso. Non ha alcun senso, nelle tue condizioni nessuno si
sarebbe liberato.”
“Tu sì.”
Sì, lui ci sarebbe riuscito.
Non si sarebbe nemmeno fatto
prendere, probabilmente e avrebbe spaccato la faccia a quei tre senza nemmeno
sforzarsi troppo. Nell’ottica di Nina, Levi era invulnerabile. L’aveva visto
uccidere cinque giganti senza nemmeno spettinarsi e mai avrebbe permesso a Hans
di sparargli, l’avrebbe reso inoffensivo prima di lasciare l’officina, perché lui
avrebbe avuto la forza morale, ma soprattutto fisica, di riuscirci.
“Levi, io voglio diventare
più forte” alla fine, trovò il coraggio e lo chiese “Voglio che ti mi faccia
diventare più forte.”
L’uomo non parve particolarmente
impressionato, ma i suoi occhi parvero brillare nella penombra della stanza di
fronte a tanta determinazione “Vuoi che io ti alleni?”
“Sì.”
Lui sembrò quasi preso in
contropiede. Si aspettava qualcosa da quella conversazione, per questo non
aveva lasciato la stanza insieme a tutti gli altri ma aveva aspettato. Nonostante
questo, però, non perse in compostezza “A me non tornerebbe indietro nulla,
facendoti questo favore. Lo sai, vero?”
“Non mi interessa cosa
tornerà indietro a te” ammise senza peli sulla lingua Nina “Ti ho già detto che
mi fido di te, non c’è un’altra persona a cui lo chiederei.”
Quello era un colpo basso
anche per una donna.
“Sai che sarà molto dura?”
“Sì.”
Lei resse il suo sguardo e a
lui parve bastare. Si alzò in piedi, allungando la mano verso di lei, che la
afferrò e la strinse fra le sue “Inizieremo appena sarai tornata in forze. Ti avverto
che io non ho mai insegnato niente a nessuno, ma diciamo che ho avuto un buon
mastro, in passato. Sappi però che non ci andrò piano né perché sei una
ragazzina, né perché sei una donna. Pensi di farcela, a non mollare?”
“Se non proviamo non posso
saperlo, ma ciò di cui sono certa è che non sarò mai più un peso per nessuno.”
Sentiva che sarebbe stato
difficile, che si sarebbe fatta male e che sarebbe finita a piangere frustrata
ogni qualvolta Levi l’avrebbe sbattuta a terra senza troppi fronzoli. Ne avrebbe
prese tante, ma le avrebbe anche ridate indietro, prima o poi.
Se lui l’aiutava poteva
farcela e l’uomo parve iniziare da subito, poiché non sfilò la mano dalle sue
ma anzi, si sedette sul bordo letto, decidendo di rimanere lì con lei.
NdA
Questo è stato, fino ad ora,
il capitolo più sudato.
Non è stato semplice scrivere
il pezzo flashback, che ho cambiato qualcosa come tre volte, ma ora sono
finalmente soddisfatta.
Partiamo dal principio, però.
Il pezzo iniziale, quello presente, è un chiaro e lampante riferimento al
titolo. Ah che belle le stelle, che sono persone morte. Erwin è incoraggiante,
per carità, ma in un mondo dove tutto è deprimente, anche puntare gli occhi
verso l’alto è motivo di tristezza. Nina però pende dalle sue labbra ed è una
brava ragazza molto positiva.
Beata lei, io non sono così
speranzosa.
Tutti gli OOC che ho creato,
dalla protagonista ai personaggi di contorno, vogliono essere il più sviluppati
possibile. Io mi ci affeziono e poi crepano o finiscono dispersi.
Su Fritz, che viene anche
citato nella prima parte, non mi sbilancio.
Scoprirete cosa gli è
successo davvero nella storia della mia socia, RLandH,
che prima o poi inizierà a mettere in fila pezzi e a postare.
POSTA LUNA, POSTA.
Il sequel delle due storie,
prima o poi, lo dovremmo scrivere insieme.
Abbiamo già iniziato a
scriverlo.
Siamo pessime.
Ps nelle recensioni mette l’hastag
#postaLunaposta per motivarla a iniziare a pubblicare
la sua storia o qui diventiamo vecchi.
Una cosa sulla quale ci tengo
a soffermarmi un minuto in più è l’importanza dei sentimenti di Nina verso
Levi. Sicuramente avrete notato che essi non sono praticamente mai al centro
della narrazione, perché per il flashback sarebbe prematuro, mentre invece per
le parti in presente, io trovo cretino anteporre i sentimenti alla drammaticità
della situazione.
Questa è sfortunata come un
cane in chiesa, come si dice a Modena, ne tocca da tutte le parti, viene
rapita, le sparano, rimane bloccata oltre il Wall Maria…. Ovviamente l’amore scivola un po’ in basso nella
catena di priorità, ma non per questo è meno vero.
Ogni riferimento a Levi sto cercando di renderlo il più vero
possibile.
Il più sentito, ricercando di
far si che sembri prezioso.
Non è la classica storiella
con la signorina in questione persa per il bello ma dannato, tanto sesso, tanti
drammi e tutti a casa.
Ho cercato di creare un
personaggio vero, che esprime concetti veri e sentiti.
Motivo per cui ho anche speso
molto tempo sul flashback. Il pericolo Mary Sue, come in tanti mi hanno anche
detto nei commenti sino ad ora positivi, è sempre in agguato.
Non credo che Nina lo sia per
una serie di cose.
Tanto per iniziare, non è
autosufficiente. Ha il desiderio di diventarlo, ma non è brava come Levi, ne ha
poi questa grande forza di volontà. Cambia idea in fretta, prima insiste, poi
cede, poi si riprende, perché è umana, sanguina e vuole andare a casa.
So che questo è un manga, non
è qualcosa di reale. Ma io ci tengo a dare il dovuto spessore agli OC, a
renderli tangibili.
Se no come fanno le persone a
provare empatia?
Non mi sono chiesta ‘questa
cosa è da Mary Sue?’ quanto piuttosto ‘Questa cosa è credibile?’.
Se avesse spaccato la faccia
a tre uomini, salvandosi da sola, allora sarebbe stato strano.
Invece è una appena
diciottenne, dottoressa che di combattimenti corpo a corpo con altri essere
umani ne sa poco o niente, quel che ha imparato nell’esercito, ma lo dice le
stessa che è più avvezza ai libri che alle legnate.
Io ci ho provato, ma a voi va
l’ardua sentenza finale v.v
Ora comunque Levi le fa fare
un po’ di upgrade.
E presto vedremo anche la
mamma cattiva, promesso.
Manca poco.
Un paio di noticine e la
pianto, che le NdA stanno diventando più lunghe del
capitolo.
Le Sorelle della Congrega
sono come le nostre suore: giovani donne che rinunciano al loro nome e al loro
titolo – i membri del Culto delle Mura sono quasi tutti nobili, che qui ho
inventato tutto di sana pianta dall’inferno al paradiso- e danno la loro vita
al Culto, impegnandosi a ubbidire e non sposarsi.
L’umanità incrollabile di
Erwin che, chi legge il fumetto, sa che non esiste.
Che posso dire, Nina ancora
questo lato del fratello ancora non l’ha visto e ci sarà il carramba
che sorpresa in merito.
Se lo meritava.
Dulcis in fundo, i libri.
Su di loro non dirò niente perché
è alla base della futura storia che scriverò con RLandH
(#postaLunaposta) ma AMEREI leggere le vostre
supposizioni. Cosa c’è dietro questo mistero?
Ditemi la vostra, vi imploro.
Come sempre grazie a chi
legge la storia e mi segue.
Le letture sono lievitate e
io vi adoro.
Ringrazio le due dolci anime
che mi hanno commentato lo scorso capitolo e tutti gli otto che mi hanno
aggiunta fra le seguite.
Ultimissima cosa, ho iniziato
una Ereri per non farci mancare nulla, la trovate
qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3508941&i=1
Al prossimo capitolo!
Un abbraccio titanoso.
C.L.