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Autore: Adeia Di Elferas    16/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Doveva essere notte, ma il caldo della stanza ricordava a Caterina il primo pomeriggio di un giorno di luglio. Le cicale frinivano ancora oltre la finestra lasciata aperta per lasciare entrare quella poca aria che si sollevava su Forlì.

Caterina sentiva le palpebre pesanti e fece un'immensa fatica nel sollevarle e guardarsi in giro, in cerca di indizi su quello che era accaduto. Non ricordava nulla, se non l'afa del cortile, l'impatto col terreno polveroso e poi gli incubi, che si erano susseguiti senza sosta, riportandola ai momenti più bui della sua esistenza.

Quando riuscì a mettere a fuoco la camera, capì di essere alla rocca. Si sentiva debolissima, ma le sembrava di non avere la febbre, né di essere ferita.

Si rese conto all'improvviso di avere delle pezze bagnate sulle gambe, sui piedi e sulle braccia. Le avevano abbassato la febbre. Poi si accorse di avere una mano racchiusa in quella di Giacomo, che dormiva accucciato a un lato del letto. L'altra mano, invece, era ostaggio di quelle più minute di Lucrezia.

Caterina si spaventò nel vedere la madre al suo capezzale. Se Lucrezia era accorsa in fretta e furia da Imola per assisterla, significava che la sua condizione era stata ritenuta grave e che la notizia della sua indisposizione era probabilmente già di dominio pubblico.

Solo in un secondo momento Caterina si avvide di un'ombra vicino al muro. Riconobbe il profilo affilato e familiare del medico di corte e subito cercò di parlargli, ma la voce le morì nella gola troppo secca.

Quel misero sforzo le procurò subito un fortissimo dolore alla testa e a tutti i muscoli, mentre il mal di schiena le rendeva penosa anche quella posizione di riposo.

“State tranquilla.” le consigliò il dottore, facendo un paio di passi verso il letto e parlando a voce abbastanza bassa da non svegliare gli stremati Giacomo e Lucrezia: “Avete avuto febbri intermittenti per giorni e brividi scuotenti...”

Caterina deglutì un paio di volte e, solo quando sentì di riuscire a sillabare qualche parola senza strozzarsi, chiese: “Malaria?”

Il medico sospirò: “Potrebbe. Difficile dirlo, mia signora. Avete avuto anche sintomi poco chiari.”

La Contessa conosceva la malaria molto bene. Era nata e cresciuta nelle terre milanesi e pavesi, dove la malaria era il pane quotidiano. Sapeva bene che non tutte le forme si assomigliavano e che l'esito non era sempre favorevole. A volte il malato sembrava guarito e poi un ultimo accesso di febbri gli dava il colpo di grazia.

Come un lampo, si ricordò di quando le avevano detto che probabilmente ne aveva sofferto anche mentre aspettava Livio. Quella volta quasi non se n'era accorta. Aveva dato tutte le colpe alla fatica, alla condotta scombinata che aveva avuto e alla gravidanza. Questa volta, invece, se di malaria di trattava, la malattia aveva colpito con maggior ferocia e senza preavviso.

“Caterina...?” la voce di Lucrezia, per quanto ancora incerta, splendeva di gioia.

La figlia, cosciente e apparentemente vigile, la guardò e le fece un debole sorriso.

Pure Giacomo si svegliò, incredulo nello scoprire la moglie sveglia e intenta addirittura a interagire con la madre.

Il giovane non riuscì a parlare, così si limitò a stringere a sé il corpo quasi senza forze della moglie, che accolse l'abbraccio come fosse un balsamo benefico.

Il medico si fece avanti e suggerì: “Lasciatela riposare, mi raccomando. Non possiamo ancora essere sicuri che sia fuori pericolo.”

Caterina avrebbe voluto minimizzare, ma sapeva che il dottore aveva tutte le ragioni, perciò permise a sua madre e a suo marito di esprimere comunque il loro sollievo per il suo risveglio, ma poi invitò entrambi a lasciarla un attimo sola.

“Sto bene, davvero...” disse, a voce bassa e roca: “Andate anche voi a riposare...”

Pur di far contenta Caterina, Giacomo avrebbe fatto qualunque cosa, perciò annuì immediatamente e concordò: “Va bene. Tornerò appena me lo dirai. Sono qui, nella stanza accanto.” e dandole un delicato bacio sulla guancia, il Governatore Generale si rimise in piedi e si avviò alla porta, quasi alle lacrime per il sollievo improvviso.

Lucrezia accarezzò lentamente la fronte ancora imperlata di sudore freddo della figlia e si apprestò a seguire il genero, quando Caterina la bloccò, colta da un impulso improvviso: “Potresti fare una cosa per me?” chiese.

La madre non se lo fece ripetere e si mise di nuovo in ginocchio accanto alla figlia, pronta a ricevere ordini.

La Contessa non ci aveva ancora pensato lucidamente, ma quella malattia improvvisa le aveva aperto definitivamente gli occhi. Lo spettro della morte l'aveva scossa e le aveva fatto comprendere appieno quanto Giacomo fosse indifeso, e come lui i suoi figli, Ottaviano tra tutti. Se lei fosse morta quella notte, il suo Stato sarebbe stato inghiottito dal caos e nessuno ne sarebbe uscito vivo. Rodrigo Borja, poi, non avrebbe perso un istante e avrebbe immediatamente imposto un suo parente come nuovo signore di Forlì e Imola e a quel punto tutto sarebbe finito davvero nel sangue.

Caterina non poteva permettere una simile incertezza. Doveva assicurarsi un alleato leale e incorruttibile, qualcuno che, in caso di bisogno, sarebbe stato in grado di prendere il suo posto e di difendere i suoi figli e il suo Stato.

“Potresti scrivere a mia sorella Bianca?” chiese Caterina.

Lucrezia si accigliò: “Certo.” disse, senza capire davvero.

Così la figlia spiegò: “Convincila a tornare. Io scriverò a Tommaso, appena potrò. Tu scrivi a Bianca e convincila a tornare. Fa' in modo che sia lei a voler tornare, solo così Tommaso accetterà la mia proposta...”

Lucrezia aprì appena le labbra, parve ripensarci, ma alla fine si decise a esprimere la sua perplessità: “Bambina mia, ci hai pensato bene?”

Caterina distolse lo sguardo, per farle capire che ci aveva pensato più che bene e che non aveva alcuna voglia di discutere.

La madre allora chinò appena il capo, in segno di obbedienza e poi permise a un debole sorriso di incresparle le labbra: “Accetterà, ne sono sicura.”

Caterina ricambiò debolmente il sorriso e poi congedò la madre.

Rimasta sola con il medico, la Contessa permise alla sofferenza fisica di riapparire sul suo volto, che si distorse in una smorfia di dolore. Il mal di schiena e di testa non la volevano lasciare e una certa nausea ancora le agitava lo stomaco.

Il medico prese dal tavolino la caraffa dell'acqua e ne versò un po' in un calice. Si accostò al letto della malata e glielo passò con gentilezza.

Caterina sospirò, trattenendo un gemito mentre le sue coste ammaccate protestavano per quel gesto, e rifiutò l'acqua, sentendo che avrebbe potuto vomitare da un momento all'altro.

“Vi abbiamo bagnato le labbra con latte e miele.” la informò il dottore: “Ma è da giorni ormai che non mangiate e non bevete... Dovrete fare uno sforzo o non vi riprenderete.”

La Contessa persisteva nel tenere il viso voltato di lato, con una smorfia infantile di disgusto alla sola idea di sorbire anche un solo sorso.

“Ricordate, mia signora – la redarguì il dottore, appena più secco – questa è una guerra, non una semplice battaglia.”

Quel ricordo delle parole che si erano scambiati durante l'epidemia di peste fu sufficiente per convincere Caterina a cedere. Con cautela, la donna prese il calice e, aiutata dall'uomo, deglutì a fatica qualche goccio d'acqua, lottando contro i conati e la nausea.

 

Giovanni Sforza si grattò la fossetta del mento e rilesse con attenzione le parole scritte dal suo parente, il Cardinale Ascanio Sforza.

Da troppi giorni, ormai, si rigirava tra le mani quella strana missiva senza decidersi a dare risposta o – come il Cardinale velatamente comandava – a partire immediatamente per Roma per conoscere la sua futura sposa.

Era vedovo da un paio d'anni, ormai, e per quanto Pesaro lo distraesse abbastanza dalla solitudine, Giovanni sarebbe stato ben disposto a prendere una nuova moglie.

Una Borja, però...

Con un sospiro pesante, il ventiseienne posò gli occhi di un tranquillo verde ramato di castano sul panorama che si intravedeva dalla finestra. Una nuova signora per la città. Forse era davvero la cosa migliore da fare, benché si trattasse di una donna dal cognome ingombrante.

Lui era solo un misero figlio illegittimo, benedetto dal nome Sforza per puro buon cuore di suo padre. Non poteva rifiutarsi. Doveva aiutare la sua famiglia d'origine come e più degli altri Sforza, per sdebitarsi delle fortune che gli erano derivate dai suoi natali.

Con l'animo pesante, l'uomo prese il necessario per scrivere e si mise alla scrivania. Stava già per cominciare un'accorata lettera di ringraziamento per il suo parente, quando pensò che forse sarebbe stato meglio partire direttamente, senza perdere tempo con missive inutili e attese infinite di una risposta.

Certo, non sarebbe potuto partire immediatamente. Prima doveva sistemare ben bene Pesaro, in modo che in sua assenza tutto filasse liscio, ma poi sarebbe partito per Roma.

In fondo una ragazzina di appena dodici anni non poteva già essere diabolica e infida come suo padre, no?

Deglutendo con le tempie che pulsavano con forza, Giovanni si allentò un po' il colletto e sprofondò nella sua poltroncina di cuoio, chiedendosi perché mai Ascanio avesse pensato proprio a lui.

 

Col passare delle ore, la febbre aveva abbandonato del tutto il corpo della Contessa. Il medico di corte si faceva sempre più sicuro del fatto che si fosse trattato di un attacco malarico e che il peggio fosse passato.

“Tuttavia – aveva notato Caterina, con oggettività – entrambi sappiamo che potrebbe ripresentarsi in qualsiasi momento.”

Vivere con lo spettro della malattia non sarebbe stato stato facile, forse. Quando le era stato detto che in gravidanza aveva avuto sintomi compatibili con la malaria, Caterina non vi aveva dato peso e per anni non ci aveva più pensato.

Ora sentiva di più il peso della responsabilità non solo verso i suoi figli, ma anche verso suo marito e il suo Stato. Erano tutti ancora troppo indifesi per restare soli. Lei vedeva i trent'anni affacciarsi all'orizzonte e sapeva che invecchiando nessuna malattia diventava più facile da superare.

Tuttavia, con Giacomo cercò di mostrarsi il più spavalda possibile, tanto per rassicurarlo, come per infondere un po' di coraggio anche a se stessa.

“Ho avuto paura, quando ti ho vista cadere per terra...” stava dicendo Giacomo, quella sera, mentre aiutava Caterina a bere un po' di brodo caldo condito con spezie di ogni genere, secondo le precise indicazioni della Contessa.

Lucrezia era stata mandata dai bambini più piccoli, affinché li aiutasse a prendere sonno, convincendoli che la loro madre stava meglio e che presto si sarebbe ripresa del tutto.

Caterina avrebbe voluto fare subito un'apparizione pubblica per smentire le scomode voci che di certo si erano già sparse sulla sua malattia, ma Luffo Numai, da buon amico, le aveva consigliato di attendere. Se i forlivesi l'avessero vista pallida, malferma sulle gambe e con gli occhi ancora cerchiati da orribili occhiaie, di certo le avrebbero creduto solo in parte e presto l'avrebbero etichettata come malaticcia e quindi debole.

“Non dovevi averne.” rispose Caterina, deglutendo il brodo caldo e sistemandosi un po', puntellata contro i cuscini: “Sono una Sforza, non basta certo un colpo di caldo per uccidermi.”

“Se davvero è stato un colpo di caldo...” ribatté Giacomo, alzando le sopracciglia.

In realtà il Governatore Generale aveva origliato più di uno scambio di battute tra sua moglie e il medico e aveva ben intuito che le cause in gioco dovevano essere molto più serie, ma in un certo senso voleva reggere la recita della moglie, che voleva imputare tutto all'afa.

“Ero stanca e tesa per la storia del papa e faceva un gran caldo.” si ostinò a dire Caterina: “Mi ero vestita troppo, per mettermi a tirar di spada a quell'ora del pomeriggio.”

Giacomo si sforzò di rasserenare lo sguardo e annuì con convinzione: “Infatti. Stai attenta, d'ora in poi.”

Caterina promise una maggiore attenzione in futuro e cercò di finire di consumare la sua cena in silenzio, sempre sostenuta dal marito, pronto a cogliere in lei qualsiasi segno di difficoltà nel portare il cucchiaio alla bocca.

Comunque, poco prima di lasciar cadere del tutto il discorso, Caterina si azzardò a dare un consiglio – quasi un ordine – al marito: “Giacomo, ascolta, se mai dovesse accadermi qualcosa di grave, se dovessi morire...”

“Non dirlo neanche per scherzo.” fece subito lui, secco.

Caterina non lo ascoltò, e riprese: “Se dovessi morire, scappa. Prendi Bernardino, se riesci prendi dell'oro nelle nostre casse e scappa. Non farti trovare mai da nessuno. Scappa in campagna o al massimo cerca riparo da uno dei miei fratelli, ma non tornare mai più a Forlì, né a Imola.”

Giacomo strinse il morso, ma cercò immediatamente di alleggerire l'atmosfera: “Se berrai tutto il brodo, vedrai che non morirai.”

La Contessa accettò l'ennesima cucchiaiata, anche se avrebbe voluto dire a Giacomo quello che aveva intenzione di fare. Voleva spiegargli perché desiderava il ritorno di Tommaso. Voleva fargli capire che se a lei fosse capitato qualcosa di grave, Tommaso sarebbe stato una sicurezza. Inoltre, Caterina nutriva la silenziosa speranza di potersi assicurare l'appoggio di sua sorella Bianca, convincendola a prendersi cura dei suoi figli più piccoli, in caso di sua morte prematura.

Anche il Governatore Generale non osava sfiorare argomenti che riteneva fuori luogo e quasi proibiti. Stare al capezzale della moglie gli aveva aperto una volta di più scenari a cui si era rifiutato di pensare fino a quel momento. Se la sua Caterina fosse morta, lui non avrebbe potuto evitare rappresaglie nei suoi confronti. In un attimo, ne era certo, avrebbero trovato il modo di uccidere tanto lui quando suo figlio Bernardino. Senza Caterina, Giacomo non aveva nessuna voce in capitolo. Anche se aveva già preso qualche precauzione in merito qualche mese prima, sentiva come non mai il bisogno di affermarsi ancora di più, di ottenere abbastanza potere da sentirsi al di sopra di certi pericoli.

Però quella sera, nel silenzio ovattato della stanza immersa nella rocca, Giacomo e Caterina non parlarono di nessuno dei crucci che li angustiavano. Si scambiarono parole sussurrate, piccoli sorrisi e si bearono l'uno della vicinanza dell'altra, segretamente terrorizzati all'idea che quell'idillio fosse a un passo dall'essere distrutto.

 

I Consigliere di Piero Medici non avevano fatto altro che mettergli pressioni, cercando di convincerlo ad andare di persona a giurare fedeltà a papa Alessandro VI.

Il giovane non aveva accettato, all'inizio, ma non aveva ancora nemmeno mandato i suoi emissari, lasciando aperta l'ipotesi che alla fine sarebbe davvero andato di persona. Il tempo che si stava prendendo giocava a suo sfavore, se ne rendeva conto.

Piero, però, non sapeva nemmeno da che parte cominciare. Si sentiva attanagliato e circondato da nemici e da situazioni in bilico.

In casa aveva quel pazzo di Girolamo Savonarola, che inneggiava al nuovo papa, vedendolo come il padre di una nuova Chiesa, il riformatore, colui che avrebbe salvato la cristianità dall'abisso in cui si stava gettando. E in tutto questo vedeva sempre i Medici come la causa d'ogni male fiorentino.

Fuori dalla porta, invece, aveva i suoi cugini, Lorenzo e Giovanni – soprattutto Lorenzo, dannazione – che si facevano chiamare i Popolani e che cominciavano ad avere un seguito numeroso e agguerrito, composto soprattutto da fiorentini contrari ai Medici, ma pronti a seguirne due che andavano loro stessi contro la propria famiglia.

Aveva sentito dire che Milano, guidata senza soluzione di continuità da Ludovico Sforza, si apprestava a fare grandi passi – anche se era ancora difficile comprendere il piano del Moro – e parimenti Napoli stava ribollendo come una pentola sul fuoco. Il papa sarebbe stato il nuovo ago della bilancia e probabilmente si sarebbe schierato per una o per l'altra forza.

Piero scosse il capo, in un tintinnio di monili e preziosi, pensando che solo qualche anno prima almeno uno dei due schieramenti principali avrebbe avuto a capo, o almeno tra i capi, anche Firenze.

L'unico che sembrava credere ancora nel potere fiorentino era quello che si firmava 'eques armorum' di Forlì e Imola, il sedicente Governatore Generale delle truppe e delle fortezze di Caterina Sforza.

Piero si era sorpreso nel leggere la sua prima lettera, datata 10 aprile '92, trovando la sua grafia molto elegante e avvezza alla scrittura. Aveva sentito dire che quell'uomo, un certo Giacomo Feo, era un rozzo stalliere elevato a Governatore per puro capriccio della Tigre. Forse, aveva pensato subito, aveva chiesto l'aiuto di uno scrivano, per quella missiva.

In quella sua prima lettera, Feo gli faceva le condoglianze per la morte di suoi padre Lorenzo. Niente di particolare, Piero ne aveva ricevute anche troppe di quelle dimostrazioni di cordoglio. Tutte uguali, tutte tremendamente piatte e fasulle. Ma sul finale il forlivese aveva aggiunto la sua imperitura fedeltà e la sua speranza nel trovare in Piero un buon alleato. E aveva parlato a titolo personale, non al posto della sua signora.

Infine, quell'epiteto autoimposto: eques armorum. Praticamente si firmava 'vice-signore' di Forlì e Imola.

Piero si passò una mano inanellata sul viso. Ora che suo figlio era nato, avrebbe dovuto sentirsi più sicuro e invece non faceva altro che arrovellarsi nel dubbio e nell'incertezza. Che accidenti poteva combinare, se l'unico che gli aveva dimostrato un minimo di appoggio era un signor nessuno che fino al giorno prima aveva pulito lo sterco dei cavalli?

 

 
   
 
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