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Autore: JulesBerry    18/08/2016    1 recensioni
Seguito di "I have finally realised I need your love".
[Prevista revisione - e anche piuttosto urgente, Santo Merlino - dei capitoli già pubblicati.]
- Dal capitolo 26 -
«Ci sono sempre stati troppi cocci di me, sul pavimento. Potresti farti del male tentando di raccoglierli e rimetterli insieme» sfilò la mano dalla presa di Fred, percependola più allentata, e si alzò sotto il suo sguardo attonito. «Non sentirti in colpa se non ce la fai più. Non sentirti in colpa se decidi di aprire quella porta. Fosse possibile, sarei la prima a varcarne la soglia per allontanarmi un po’ da me.»
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Fred Weasley, George Weasley, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Che l'amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell'amore'
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Capitolo 28



 
Essere amati profondamente da qualcuno ci rende forti;
amare profondamente ci rende coraggiosi (II)
 

Love is our Resistance
They’ll keep us apart and
They won’t stop breaking us down
Hold me, our lips must always be sealed



“È finita”, fu l’unica cosa che fu capace di pensare quando, sulla sua schiena, avvertì la pressione di quello che doveva essere il piede del nemico, che in tal modo le mozzò il respiro.
«È davvero un peccato dover versare tanto sangue puro» commentò la voce sadica del Mangiamorte, rigirandosi tra le dita tozze la bacchetta. «Sei ancora in tempo per cambiare idea.»
Margaret raccolse tutte le sue forze e sollevò di poco il busto facendo leva sui gomiti, voltando il viso per riservargli un’occhiata pregna del più profondo odio e disprezzo. «Preferisco morire e andare dritta all’Inferno
«E morirai» le disse lui con disgusto, assottigliando lo sguardo. «Ma sappi che a me piace giocare con il cibo, prima di mangiarlo.»
Non le fu consentito riflettere sul significato di quelle parole, dal momento che queste trovarono concretizzazione ancor prima che il suo inconscio potesse assumerne consapevolezza.
E il dolore della Maledizione Cruciatus, atroce, la investì in pieno, insostenibile come solamente avrebbe potuto esserlo la peggiore delle torture.
“Ti senti come se ti stessero infilzando con dei coltelli bollenti”, le avevano raccontato in passato, ma non ne aveva mai pienamente capito il senso: d’altro canto, come avrebbe potuto immaginare una sofferenza così grande senza averla mai provata?
Ma stavolta le percepiva, le lame che la trafiggevano, come le dita che stupidamente e senza risultati cercavano di conficcarsi nel freddo e impenetrabile pavimento; voleva urlare, lasciare che quelle lacrime salate che si sforzava di trattenere trovassero sfogo oltre le palpebre chiuse, ma le sue labbra rimasero sigillate e i suoi occhi non ne vollero sapere di rinunciare a resistere. Voleva morire e porre fine a quell’agonia, ma il suo cuore non aveva mai battuto tanto forte per tenerla in vita come allora.
“Tutto passa, Maggie. Il dolore passa, e bisogna imparare a combatterlo”, sembrava dirle la voce di sua nonna Julia, con quella frase che – ripescata da un lontano cassetto della memoria – aveva preso a rimbombarle nella testa. “Perché, tesoro mio? Semplicemente perché ci sono dei momenti in cui non possiamo permetterci di provarne”.    
Era quello, uno di quei momenti; il momento in cui avrebbe dovuto lottare contro qualcosa che, sebbene sfuggisse al suo controllo, non lo faceva totalmente. Doveva esistere una chiave, un modo per opporsi e non soccombere, una possibilità che quello strazio fisico e mentale si attenuasse.
Forse sarebbe bastato svuotare la mente, forse sarebbe bastato estraniarsi un po’ da sé.
“Forse basterebbe concentrarsi sui ricordi felici”.

Così, prepotente e inevitabile, il pensiero di Fred si era già fatto strada nella sua testa, prendendo a pugni l’angoscia che la stava distruggendo ma che nulla avrebbe potuto contro la forza di un amore che era esploso dirompente, irrefrenabile, scalpitando e puntando i piedi con cocciutaggine per farsi dare ascolto. E quei mesi trascorsi a Hogwarts, con lui, erano stati i più belli che avesse mai vissuto, perché era da quelli che tutto era cominciato; perché un dopo stabile non ci sarebbe stato senza la preliminare esistenza di solide fondamenta, ed era anche tra quelle mura che queste erano state costruite.

«Dillo ancora.»
La voce di Fred suonava allegra, quella tarda notte di fine gennaio del 1996, nella Sala Comune di Grifondoro deserta. Stava disteso sul tappeto a poca distanza dal camino, la testa poggiata sulla pancia di Margaret e una bottiglia di Whisky Incendiario – per metà vuota – a portata di mano. Erano andati di nascosto a Hogsmeade, di nuovo, e ne avevano approfittato per fare una sosta di un paio d’ore alla Testa di Porco, con il risultato che era già da considerarsi un miracolo che fossero riusciti a ritrovare la strada di ritorno al Castello senza troppe complicazioni – se si escludono, naturalmente, tre cadute rovinose all’interno del passaggio segreto della Statua della Strega Orba e i conseguenti attacchi incontrollabili di ridarella.
Margaret – che probabilmente, in corpo, aveva più alcool che sangue – aveva assunto un’espressione comicamente concentrata e aveva scrutato il soffitto, come chiedendogli un piccolo suggerimento. «Fagiolo Sorofoposo... Soforosopo... Sopofopo... Sopoforoso!» aveva riso ancora, tentando di pronunciare la nuova parola d’ordine, così di cuore che le lacrime avevano ripreso a scorrere liberamente. «Non saprei dirlo neanche da sobria!»
«La Signora Grassa se n’è accorta» l’aveva presa in giro lui, costretto a portarsi entrambe le mani all’addome a causa dei crampi indotti dalle continue risate. «Mi diverto un mondo quando litigate» aveva aggiunto, ripensando allo screzio avvenuto qualche minuto prima tra la sua sbronza ragazza («Non me ne frega niente se è Sorosofoso, o Sporosofo, o chissà quale altra diavoleria! I fagioli mi fanno schifo, santo Merlino!») e un’assonnata e terribilmente irascibile Signora Grassa («Dovrei lasciarvi chiusi qui fuori! Irrispettosi e prepotenti! Svegliare una povera donna a quest’ora della notte!»), che di certo non si poteva dire avesse preso molto in simpatia la piccola di casa Stevens.
Questa aveva provato a mettersi seduta e aveva bevuto un altro sorso di Whisky, incredibilmente seria. «Vedrai come ti divertirai quando la staccherò dal muro, quella stronza.»
«Oh, questa non voglio perdermela!» anche lui si era seduto e le aveva fatto cenno di dargli la bottiglia, che la giovane fissava con fin troppo amore. «Durante il pranzo passeresti inosservata.»
«Dovresti smetterla di assecondare le mie idee malsane, lo sai?» l’aveva ammonito lei con fare scherzoso, al che Fred non aveva esitato a sorriderle con malizia.
«Non saranno mai malsane quanto le mie» aveva quindi asserito con convinzione, ammiccando.
«Non ci giurerei, Weasley.»
«Rassegnati, Stevens: viaggio su altri livelli.»
«Sì, su altri livelli di idiozia» aveva infine sentenziato Margaret, ma nessuno dei due era riuscito a resistere oltre e così entrambi avevano ricominciato a ridere; lei, nel frattempo, gli si era avvicinata e gli aveva preso il viso tra le mani, mentre il suo braccio le cingeva la vita. «Siamo irrecuperabili» aveva sussurrato con un pizzico di dolcezza che bene si amalgamava con quel tono divertito, per poi poggiare le labbra sulle sue, appena schiuse, in un bacio che era stato appena una tenera carezza.
E si erano sorrisi, complici, abbracciandosi un po’ di più per sentirsi più vicini.


Sperava che stesse bene. Sperava che almeno lui riuscisse a salvarsi e a continuare con la sua vita, anche senza di lei.
Non voleva che soffrisse; glielo aveva più volte ripetuto negli istanti più bui, protestando con veemenza quando lui tentava di zittirla e di assicurarle che sarebbero stati bene, forse incapace di contemplare la possibilità di perderla senza sentirsi morire dentro. Ma lei non l’avrebbe mai lasciato per davvero: esistono catene che non possono essere spezzate, fili destinati a rimanere integri e a non essere tagliati, legami indissolubili ed eterni. Sarebbe rimasta al suo fianco, e lui l’avrebbe scorta nel tiepido vento primaverile che dispettosamente scompiglia i capelli, o nella pioggia di settembre che gli avrebbe accarezzato la pelle nella forma più gentile da essa conosciuta.
Non importava quanto dura sarebbe stata: lui doveva andare avanti. Doveva riuscirci per se stesso, doveva riuscirci per lei e per ciò che insieme, uno accanto all’altra, avevano costruito, ma in particolar modo doveva riuscirci per Alexander.
E se il dolore fisico non fosse bastato, l’immagine del sorriso dolce del suo bambino le procurò una fitta al cuore. I mesi erano trascorsi, e lei aveva ingenuamente creduto che le sarebbe stato concesso abbastanza tempo per tenere quella piccola estensione della sua anima tra le braccia, ma c’erano ancora così tante cose che avrebbe voluto dirgli.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per un altro minuto, uno soltanto, con suo figlio stretto al petto, per assicurargli che non lo avrebbe abbandonato, durante il suo meraviglioso cammino, e che avrebbe seguito i suoi passi silenziosamente e con pazienza, osservandolo cadere e poi rialzarsi e donandogli la forza di proseguire per la sua strada a testa alta. Avrebbe voluto respirare per un’ultima volta l’adorabile profumo che il suo corpicino emanava e dargli un bacio sul nasino, per sussurrargli con voce spezzata dal pianto che, nonostante le incertezze, lo aveva amato fin dal primo istante, e che quell’amore avrebbe continuato a vegliare su di lui incessantemente.
Ad alleviare le sue pene, arrivò la consapevolezza che Alexander sarebbe comunque stato felice. Troppo piccolo per rendersi conto della perdita e soffrirla, sarebbe cresciuto tra persone che non gli avrebbero mai fatto mancare il loro inquantificabile affetto. Avrebbe avuto un’infanzia serena, circondato da nonni premurosi e da una miriade di zii e amici amorevoli e attenti, e in tal senso era certa che Abigail avrebbe saputo porsi come un’ottima figura di riferimento e che sarebbe stata in grado di offrire a Fred tutto l’aiuto possibile e necessario.
Su di lei, Margaret non aveva mai avuto alcun dubbio. Aveva sempre saputo che, qualora lei non ce l’avesse fatta, sua cugina non si sarebbe tirata indietro e avrebbe accettato quella sfida senza ripensamenti, in nome del legame che le aveva tenute unite per quasi vent’anni.
Ma le faceva male, lasciarla. Le faceva male pensare che non ci sarebbero state altre notti passate a osservare le stelle, distese su di un prato e perse nella loro personale dimensione, mentre il mondo andava avanti e loro erano di nuovo troppo giovani e strafottenti per curarsene. Le faceva male sapere che tutti quei piccoli sogni che avrebbero dovuto realizzare insieme si sarebbero invece dispersi nel buio, destinati a non conoscere futuro.

«Progetti per i prossimi dieci anni?» le aveva chiesto Margaret, mordicchiando la sua bacchetta di liquirizia e rigirandosi pigramente sul suo materasso a una piazza e mezzo. Il 1994 era appena arrivato, accolto dal ticchettio dell’orologio da parete e da un’esplosione di fuochi d’artificio ben visibile dalla finestra della camera.
Abigail, che avrebbe compiuto quindici anni di lì a un paio di settimane, si era allungata fino a una scatola di Calderotti e l’aveva attirata a sé, famelica. «Fare rifornimento di questi. Li adoro.»
Meg aveva riso, rubandogliene uno. «Sono seria, Abbie» aveva puntualizzato, allora, godendosi il suo sguardo omicida.
L’altra, infatti, aveva stretto al petto la confezione di dolciumi e aveva corrugato la fronte, minacciosa. «Anch’io, per cui sta’ lontana se non vuoi che ti tagli le mani» l’aveva avvisata, tremendamente seria, ma poi aveva riso e li aveva lasciati andare, protendendosi verso un pacchetto di Api Frizzole che lei era convinta non vedesse l’ora di finire tra le sue grinfie. Ne aveva offerta una alla cugina ed era tornata a distendersi, più pensierosa: quali potevano essere, i suoi progetti? «Non saprei, sai? Dieci anni sono tanto tempo.»
«È proprio questo, il bello» aveva considerato Margaret, accarezzando Dannis – il suo gatto ciccione e ai tempi ormai anzianotto –, che le si era appena disteso accanto, sul piumone. «Possiamo spaziare con la fantasia, senza badare ai limiti. Ci sono così tante cose che potremmo fare o diventare.»
Abigail aveva sorriso, più convinta. «Potremmo viaggiare, visitare le grandi città, conoscere gente nuova.»
«Vivere come vogliamo, fregandocene di tutto il resto.»
«Senza dimenticare il mio rifornimento di Calderotti.»
Meg aveva riso e le aveva dato una cuscinata, fingendosi esasperata. «Ci rinuncio!»                


Erano sempre state loro due: Margaret e Abigail, Abigail e Margaret, complici e testarde e incapaci di dividersi.
Era certa che Abigail avrebbe tenuto tutto dentro. Non lo avrebbe esternato, forse non avrebbe neanche battuto ciglio; si sarebbe limitata a vivere il suo dolore in silenzio, perché mostrarlo in pubblico avrebbe significato privarlo del suo valore e della sua dignità, per lasciare che la inondasse negli istanti di agognata solitudine. Avrebbe sorretto gli altri, facendosi carico della loro sofferenza oltre che della sua, ma pregando continuamente che ci fosse anche qualcuno disposto a sorreggere lei.
Margaret sapeva che George non avrebbe esitato. Le avrebbe stretto la mano nei momenti più difficili e le avrebbe fatto forza, asciugandole quelle lacrime delle quali – con ogni probabilità – sarebbe stato l’unico rispettoso spettatore.
Era felice che si fossero trovati. Era felice di aver contribuito, nel suo piccolo, a salvare quella storia, atteggiandosi a invisibile Cupido personale e spesso un po’ impiccione. Era felice che fossero riusciti ad abbattere quel ridicolo muro di cinta che li aveva visti divisi e inavvicinabili, sconvolgendo chiunque non avrebbe scommesso neanche uno zellino su di loro.
Era felice per Abigail, ma soprattutto era felice per George; aveva a fianco una ragazza che lo meritava e che, passo dopo passo, aveva imparato ad amarlo incondizionatamente, nei pregi come nei difetti, sorridendo con tenerezza di fronte ai primi e chiudendo benevolmente un occhio sui secondi; gli avrebbe dato grandi gioie, ma al contempo non avrebbe perso l’occasione di strigliarlo se ne avesse avuto le ragioni.
Non avrebbe potuto desiderare di meglio, per colui che vestiva i panni di suo migliore amico da una vita intera, per la persona che non aveva mai mancato di riservare un sorriso ai suoi occhi ultimamente troppo carichi di ansie e di preoccupazioni.
Era così che funzionava, tra di loro. Troppo abili nel riconoscere i rispettivi cambiamenti di umore, si ritrovavano a estorcersi informazioni o a confidarsi spontaneamente e senza alcuna remora, durante quelle conversazioni al confine sottile tra la serietà e la drammatica comicità che terminavano tra sospiri scherzosamente esasperati e risate sincere e spensierate. C’erano sguardi grondanti di affetto e pizzicotti sulle guance, battute dal sapore di frecciatine ben studiate, frasi lasciate a metà che non necessitavano di un completamento per essere comprese.       
 
«Fareste una bellissima coppia, secondo me» aveva buttato lì con falsa innocenza, rigirandosi la tazza di tè bollente tra le mani in attesa che si raffreddasse un po’.
George stava facendo lo stesso, quella notte di metà aprile, dondolandosi svogliatamente sulla sedia della cucina nel piccolo appartamento situato sopra ai Tiri Vispi. «Grazie, ma no, grazie» aveva ribattuto con un mezzo sorriso, ammiccando. «Sto benissimo da solo, al momento. Me la spasso alla grande.»
«Non lo metto in dubbio, ma sareste adorabili» aveva invece insistito Margaret, passandogli lo zucchero. «E quantomeno – Merlino sia lodato! – avete cominciato a comportarvi civilmente. È un passo avanti gigantesco, io non lo sottovaluto.»
«Non ti rassegnerai fino a quando non sarai riuscita a farmi cambiare idea, eh?»
«Considerami come una sorellina capricciosa che farà i dispetti fino a quando non avrà ottenuto ciò che vuole.»
Avevano riso entrambi, cercando di non fare troppo rumore per non svegliare gli altri, poi George si era soffermato a guardare un punto imprecisato della sua tazza e aveva sorriso ancora, stavolta più addolcito. «Sarebbe stato figo, però.»
«Cosa, Georgie?» gli aveva chiesto Meg, affettuosa, piegando leggermente la testa di lato con curiosità.
«Averti come sorella» aveva risposto lui, allora, sorridendo più apertamente alla sua espressione colpita. «Sarebbe stato incredibile: me la vedo la mamma che si strappa i capelli dall’esaurimento!» aveva scherzato, brioso, giusto prima di bere un sorso di tè e farsi un po’ più pensieroso. «E sicuramente quei nove anni di lontananza non ci sarebbero mai stati.»
Margaret gli aveva sorriso con tenerezza e gli aveva stretto brevemente la mano, annuendo. «Sarebbe stato bello, è vero. Ma a quest’ora lui non ci sarebbe» aveva specificato, accarezzandosi con amore il pancione. «E neanche questo» aveva quindi indicato l’anulare sinistro sul quale brillava il suo anello di fidanzamento, per poi lanciare un’occhiata divertita alla porta chiusa della sua camera. «E tuo fratello non starebbe dormendo in mutande nel mio letto, puoi giurarci.»
«E anche questo è vero» aveva convenuto George, ridendo per quell’ultima constatazione mentre osservava la ragazza alzarsi per prendere dei biscotti dalla credenza. «Ciò non toglie che sarai sempre la mia sorellina capricciosa.»
Lei si era voltata e l’aveva guardato con una particolare luce negli occhi. Lo aveva invitato ad avvicinarsi, forse commossa, e aveva lasciato che la stringesse, facendosi sempre più piccola in quell’abbraccio. «La tua sorellina che ti vuole un bene infinito.»
«Te ne voglio anch’io, mia adorabile spina nel fianco.»


Improvvisamente, il dolore cessò.
Scossa e indolenzita, riaprì gli occhi bagnati di quelle lacrime che si era imposta di non versare, e il suo campo visivo fu intermente invaso dal freddo pavimento sul quale era malamente e dolorosamente accasciata. Rientrò in contatto con quell’amara realtà, mentre il suo respiro si faceva più regolare e il cuore, al contrario, lavorava furiosamente, quasi a voler esaurire tutti i suoi battiti.
Margaret si stava chiedendo quanto tempo sarebbe passato, prima di ricevere il colpo di grazia, quando il Mangiamorte la strattonò violentemente e la ribaltò sulla schiena; le puntò la bacchetta alla base del mento, facendo pressione per sollevarle la testa e costringere il suo sguardo a incontrare quel sorriso maligno che gli deformava il volto.
«Vi schiacceremo uno a uno, come miserabili insetti.»
La ragazza, a quel punto, mise da parte le buone maniere e gli sputò in faccia. «Non ci avrete mai!» ringhiò, rabbiosa, certa che quello sarebbe stato il suo ultimo gesto in quella vita, ma – prima che potesse accorgersene – due diversi Schiantesimi colpirono l’uomo e lo scaraventarono a qualche metro di distanza da lei, liberandola dalla sua morsa.

Dei passi affrettati si mossero in due direzioni diverse, secondo differenti priorità, ma lei non riusciva a trovare la forza di voltare la testa e verificare con certezza a chi questi appartenessero; fu solo quando – qualche secondo dopo – un ammasso disordinato di capelli biondi le si riversò addosso che riconobbe Abigail.
«Honey» le sussurrò questa, preoccupata, inginocchiandosi; sul suo viso sporco di polvere, sangue e calcinacci spiccavano una spaccatura sul labbro inferiore e un profondo taglio all’altezza del sopracciglio destro, nonché un alone nero a circondarle l’occhio sinistro.
Meg, compiendo uno sforzo enorme, le regalò un piccolo, debole sorriso in cui sperava di far convergere tutta la sua riconoscenza. «Tempismo perfetto, blondie» le disse in un filo di voce, stringendo nella sua la mano che le accarezzava con premura i capelli.
«Non azzardarti a lasciarmi. Non pensarci nemmeno, Margaret» fece Abigail, sull’orlo delle lacrime, ma non riuscì a tranquillizzarsi neanche dopo aver visto l’altra annuire. «George, aiutami a sollevarla!»
Ma George non la stava ascoltando: era troppo impegnato, tra un cazzotto e l’altro, a cambiare i connotati al Mangiamorte, su cui si era avventato con violenza pochi istanti prima.
«Non» gli sferrò un pugno dritto sulla mascella, livido di rabbia, «dovevi» un altro ancora, stavolta destinato al naso, «farlo!» lo strattonò, ovviamente non contento del risultato. «Dovrei riservarti lo stesso trattamento, lurido bastardo
«George, ti prego!» Abigail lo chiamò di nuovo, supplichevole. Lui le lanciò una rapida occhiata e, dopo un attimo di esitazione, annuì, mollando la presa; si rialzò e puntò con astio la bacchetta contro il Mangiamorte semisvenuto, al che la giovane sussultò e sgranò gli occhi. «Cosa vuoi fare?»
«Nulla di ciò che stai pensando. Noi non siamo come loro» la rassicurò lui, quindi, con amarezza, prima di tornare a guardare, disgustato, il suo avversario. «Incarceramus» mormorò, e delle funi uscirono dalla bacchetta e avvilupparono l’uomo, immobilizzandolo. Avrebbe preferito andarci giù pesante, ma si frenò. Piuttosto, raggiunse Margaret e si chinò su di lei, e nonostante tutto provò a sorriderle. «Ehi» le disse in un tono più affettuoso, sfiorandole la guancia con un tocco esitante, quasi avesse timore di farle del male.
Lei gli strinse la mano, esattamente come aveva fatto in precedenza con la cugina, e ricambiò per come poté il suo sorriso. «Ciao, raggio di sole.»
«La gamba sinistra è rotta, ma posso sistemarla» osservò Abigail, guardando prima Margaret e poi George. «Mettila seduta, non dovrebbe volerci molto.»
«Non potete rischiare la vostra vita per salvare la mia. Non potete» obiettò flebilmente la maggiore delle due, mentre l’amico la aiutava a sollevare la schiena; non c’era parte del corpo che non le facesse tanto male da provocarle la nausea.
Abigail spostò lo sguardo dalla sua gamba al suo viso e incurvò un angolo della bocca in un mezzo sorriso amaro. «La stiamo rischiando a prescindere. Non sei tu, il problema.»
«Motivo per cui non devi dire idiozie» aggiunse George, serio, cingendole le spalle per sorreggerla.
Lei arricciò le labbra e tornò a fissare il pavimento. «Non so cosa mi è preso. Pensavo di avere tutto sotto controllo.»
«Tu pensi troppo» Abigail scosse la testa, stendendole la gamba per raddrizzarla e ignorando le sue smorfie di dolore. «A volte bisogna solo smettere di calcolare ogni mossa e provare ad agire d’istinto» fece un rapido movimento con la bacchetta, cui seguì un inconfondibile verso strozzato e sofferente da parte della cugina, evidentemente colta alla sprovvista.
Questa si massaggiò il ginocchio con cautela e scrutò l’altra con una velata aria di rimprovero. «Dovevi avvertirmi che l’avresti fatto. Sei stata scorretta.»
«Cosa sarebbe cambiato? Non avrebbe fatto meno male, anche se te lo avessi detto» commentò Abigail, porgendole una mano per consentirle di alzarsi. «E adesso hai di nuovo una gamba» aggiunse, stavolta strizzandole l’occhio con complicità.
Margaret annuì e le sorrise con riconoscenza, mentre le sfiorava affettuosamente il braccio. «Grazie.»
«Non serve» rispose Abigail distrattamente, dal momento che la sua attenzione si era appena catalizzata sull’espressione tanto contratta quanto indecifrabile di George, a un paio di metri da lei. Rigirava tra le mani la bacchetta – recuperata pochi istanti prima – della migliore amica, pensieroso, apparentemente non molto interessato a ciò che le due ragazze avrebbero potuto dirsi. «Ehi, stai bene?»
Lui, come risvegliato da un lungo torpore, sollevò lo sguardo e annuì, avvicinandosi. «Sì» porse la bacchetta a Margaret, ma, nell’esatto momento in cui i suoi occhi incontrarono quelli di lei, gli equilibri che si era prefissato di mantenere presero a vacillare. Esitò, e sospirò pesantemente. «No, non sto bene» ammise, forse innanzitutto a se stesso. «Hai idea di dove sia mio fratello, Meg?»
Lei scosse la testa, martoriando la stoffa della maglietta con le dita della mano non impegnata. «Ci siamo persi di vista» fu l’unica cosa che riuscì a dire, tormentata com’era da quella rinnovata angoscia che rischiava di asfissiarla.

Il rumore della battaglia non le era mai sembrato tanto doloroso quanto in quel preciso istante.

George continuò a scrutarla, dilaniato da un conflitto interiore che gli rendeva tremendamente difficile ponderare le diverse possibilità d’azione. Eppure, in cuor suo, era così semplice prendere una decisione. «Vado a cercarlo.»
«Veniamo con te» si affrettò Margaret, ma lui non ne parve particolarmente entusiasta.
«Preferisco che rimaniate qui, è più tranquillo. Non sei nelle condizioni di affrontare altri rischi, né di rimanere da sola.»
«Non se ne parla!» protestò lei con ritrovato e inaspettato vigore, con un lampo ad animarle gli occhi. «Se pensi che io sia disposta a...»
«Margaret, santo cielo!» la interruppe, alzando la voce, in un tono che – più che esasperato – aveva tutta l’aria di una supplica. I suoi nervi diventavano più fragili a ogni secondo buttato via inutilmente. «Lascia che me ne occupi io» le disse con più calma, avendo notato una certa rigidità nei suoi muscoli facciali e un nervoso velo di lacrime inumidirle le stanche iridi verdi; capiva che la sua era una necessità vitale, non un mero capriccio, ma non poteva permettere che lo seguisse. «Per favore
«Non sei l’unico cui importa di lui
«Lo so, Meg» le accarezzò la spalla, rassicurante, cercando il suo sguardo. «Fidati di me. Lo troverò.»
La vide annuire, non senza una certa riluttanza, e per un attimo pensò che la questione fosse stata risolta; non aveva evidentemente messo in conto un’eventuale reazione da parte di Abigail, che di scatto – forse in modo automatico – aveva serrato la mano attorno al suo polso una volta avvertito il sentore di un imminente allontanamento.
«Non posso lasciarti andare da solo» protestò quest’ultima, infatti, intensificando la presa; nella sua espressione ansiosa era possibile leggere molto più della semplice preoccupazione. Gli si avvicinò di più, a un passo di distanza. «Non posso permettere che ti accada qualcosa. Non potrei perdonarmelo.»
George comprendeva le sue paure: erano le stesse che provava anche lui al pensiero di dover separarsi da lei, di dover lasciarla per andare da solo. Si erano detti che non si sarebbero divisi, che avrebbero affrontato quella sfida mortale insieme, che si sarebbero fatti scudo a vicenda contro qualsivoglia avversità; tuttavia, era quasi scontato che, quelle stesse promesse, lui e suo fratello se le fossero tacitamente fatte innumerevole tempo prima. Gli faceva male, dover decidere tra due persone per lui così importanti, ma al contempo era come se ogni scelta gli fosse stata preclusa.
Aveva inconsapevolmente accompagnato Abigail da Margaret; era ora che le loro strade si dividessero fino a quando anche quell’altro compito che si era preposto di svolgere non fosse stato portato a termine.
Intrecciò le dita alle sue e le strinse la mano intensamente; era l’unico modo in cui avrebbe potuto chiederle perdono. «Dovete rimanere insieme, al sicuro. Io me la caverò.»
«Hai bisogno di me» la voce di Abigail non suonava più tanto sicura; si era ridotta a poco più di un incerto, flebile bisbiglio. «Ho bisogno di te

Tutto, dentro di lei, tremava.
Forse di rabbia, per una vita ingiusta che nulla le aveva mai regalato senza chiedere qualcosa in cambio, e che ancora una volta minacciava di strapparle via dalla pelle e insieme a essa quanto di più prezioso aveva coltivato; o forse di paura, consapevole che quella avrebbe potuto essere l’ultima occasione per tenere accanto a sé quanto di più simile alla serenità avesse messo radici nei suoi giorni.
Tremava, e aveva bisogno che qualcuno la stringesse e le sussurrasse che sarebbe andato tutto bene.
Tremava, eppure non riusciva a muoversi.

Lui le portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e le accarezzò la guancia, percorrendole con delicatezza la linea del viso fino al mento. Avrebbe tanto voluto sorriderle. «Mi odio, Gail, perché se c’è una cosa che vorrei non dover fare è allontanarmi da voi, da te, e non sapere se potrò mai rivedervi» distolse per un breve istante lo sguardo dal suo nel tentativo di ritrovare la forza necessaria a sopportarne il peso. «Ma non posso fare altrimenti. Vorrei averti accanto, ma al tempo stesso non voglio trascinarti di nuovo lì in mezzo. Sarebbe diverso, se fossimo solamente io e te; adesso c’è tua cugina che più di ogni altri ha bisogno che tu le stia vicina. Spero tu possa capirmi.»
Abigail non sapeva cosa dire; non sapeva se ce l’avrebbe fatta ad accettare di lasciarlo andare. Ma poi guardò Margaret, e si sentì un’egoista.

La ragazza si era messa un po’ in disparte, per nulla intenzionata a prendere parte a discussioni che – in linea di massima – non la riguardavano, impiegando il suo tempo ad assicurarsi che il Mangiamorte di poco prima fosse ben legato e, soprattutto, che non ne stessero per sopraggiungere degli altri. Aveva un’aria concentrata e, come suo solito, trasudante determinazione, ma essa non poteva celare quanto, in realtà, lei stesse soffrendo, e non solo fisicamente.
Glielo si leggeva in ogni espressione del viso, in ogni doloroso respiro, nelle mani strette a pugno e nelle unghie che, indolenti, si conficcavano nei palmi ormai anestetizzati; glielo si leggeva in tutte quelle parole che avrebbe desiderato urlare e che, invece, si era costretta a comprimere tra l’addome e la gola, come se la consapevolezza di non trovarsi a fianco dell’unica persona di cui, in quell’istante, aveva realmente necessità di percepire la vicinanza, non fosse una pena già abbastanza grande da avvertire addosso.

Abigail chiuse per un attimo le palpebre, salvo poi reindirizzare la propria attenzione sul ragazzo che, di fronte a lei, attendeva con un sorriso triste una sua parola.
Raccolse tutte le sue forze e annuì, mentre la sua mano correva – quasi animata da vita propria – a sfiorargli quel foro che mai sarebbe riuscita ad abituarsi del tutto a vedergli al posto dell’orecchio. «Fa’ attenzione. Non vogliamo perderci altri pezzi per strada.»
Lui rise sottovoce e le fece l’occhiolino, in una sorta di muta richiesta che la portasse a non perdere le speranze. «Tornerò presto. Ci rivediamo qui.»
«Va bene» rispose lei, piano, incurvando un angolo della bocca allo scopo di mascherare quel dolore che le attanagliava il cuore. Lo osservò allontanarsi, passo dopo passo e sempre più distante da lei, fino a quando la sua figura non fu sparita oltre il muro.
Margaret le si approssimò, titubante, e le strinse docilmente un braccio, nel tentativo di infonderle quel coraggio di cui era certa avesse bisogno e, al medesimo tempo, di appigliarsi anche lei a una possibile fonte di salvezza. «Se la caveranno.»
«Lo so» annuì Abigail, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso rassegnato. «Gli saremmo state addosso come delle sanguisughe se non lo avessimo creduto veramente.»
«Eppure non riusciamo a non avere paura per loro» constatò l’altra, pensierosa, incrociando il suo sguardo; erano entrambe tanto sommerse da emozioni e sentimenti così in contrasto che il rischio che quel labile equilibrio andasse in pezzi difficilmente sarebbe potuto risultare più elevato.
Quanto avrebbero resistito a quella lenta e infida tortura chiamata attesa?
«È uno dei prezzi che l’amore ci chiede di pagare» osservò Abigail, arricciando istintivamente le labbra, quasi fosse infastidita. «Non fa sconti, quel bastardo

Accorse un improvviso rumore di passi, accompagnato da quello, secco e agghiacciante, delle Maledizioni e delle Fatture che nel frattempo venivano scagliate, ad apporre il punto conclusivo a quella loro non voluta e avvilente inerzia.
Quello scambio – presumibilmente tutt’altro che amicale – stava avendo luogo a qualche metro di distanza da loro; abbastanza lontano da non coinvolgerle ma abbastanza vicino da essere udito e da alimentare il loro stato di tensione.
Levarono le bacchette e si scambiarono un lungo sguardo emblematico, internamente consapevoli di quale sarebbe stata la loro mossa successiva.
«Dobbiamo davvero aspettare qui?» chiese Abigail con perplessità, corrugando la fronte.
Margaret, allora, sollevò le sopracciglia e sbuffò dal naso con apparente leggerezza. «Secondo te?» fece di rimando, retorica, iniziando a percepire le scariche di adrenalina scuoterle la spina dorsale.
L’altra sogghignò e le strizzò l’occhio con fare inequivocabilmente complice. «Ottima risposta, sorella

Si avviarono, spedite ma altrettanto vigili e soprattutto non disposte a essere colte di sorpresa; la strada da percorrere non era molta, ma ciò non toglieva che potesse rivelarsi ugualmente piena di insidie.
Si chiedevano chi ci fosse, al di là di quella parete, nel bel mezzo di quel corridoio; si chiedevano chi dei loro stesse lottando per la vita aggrappandosi a ogni concreta possibilità, a ogni pallida ma pulsante e più che mai viva speranza.
Svoltarono l’angolo nello stesso istante in cui lo Schiantesimo di Desmond Stevens colpì Rowle in pieno petto, seguito da un Incantesimo Pietrificus che pose fine ai giochi.
L’uomo si concesse un sospiro esausto e si asciugò la fronte appena imperlata di sudore con un gesto distratto e sbrigativo della mano. «E anche questo è momentaneamente sistemato.»
«Puoi fare di meglio» lo stuzzicò Margaret, alle sue spalle, incurvando le labbra in un piccolo, stanco, sorriso sornione.
Lui si voltò di scatto, profondamente sorpreso; impiegò una manciata di secondi per rendersi pienamente conto che le due ragazze che aveva di fronte fossero per davvero sua figlia e sua nipote.
Si avvicinò a loro, rapido, ansioso di accertarsi che stessero entrambe bene. «Iniziavo a credere che non vi avrei mai trovate» confessò, mentre abbracciava Margaret e tendeva una mano verso Abigail, non mancando di indugiare su quel livido nero che circondava l’occhio gonfio e certamente dolorante di quest’ultima. «Chi è stato?» chiese, dunque, irrigidendosi di colpo.
Sciolse la stretta, e Meg poté notare come sul suo volto albergasse qualcosa di indecifrabile, qualcosa che andava al di là della prevedibile tensione e che lei non riusciva a interpretare.
Abigail, d’altro canto, contrasse i lineamenti in una smorfia, come se per la prima volta dopo un certo lasso di tempo avvertisse quel fastidio, cui doveva essersi inconsciamente assuefatta a tal punto da non percepirlo. «Non importa. Solo uno stupido Ghermidore.»
Desmond parve un attimo interdetto, poi annuì lentamente e spostò lo sguardo verso un punto imprecisato a qualche metro da lui, come sovrappensiero. «I ragazzi? Dove sono?»
«È una lunga storia, ma siamo certe stiano bene» tagliò corto Meg, insospettita dall’atteggiamento vago e misterioso di suo padre. Sembrava quasi che volesse tener loro nascosto qualcosa. «Cos’è successo?»
L’uomo trasalì e tornò a guardarla; il suo volto adesso era segnato da angoscianti e forse immotivati sensi di colpa. Non sapeva come dirlo, non sapeva come confessare quanto accaduto, non riusciva neanche a pensarci senza che un’atroce fitta di dolore gli prendesse il corpo.

E Margaret e Abigail capirono; capirono che qualcosa doveva non essere andato secondo i piani, capirono che qualcosa di irreparabile doveva essere accaduto. E l’ansia, prepotente, si fece sentire con ritrovata forza, paralizzando i lineamenti di quei volti che solo attendevano una risposta che in realtà non avrebbero voluto ricevere.
«Zio, chi...» tentò Abigail, illudendosi di aver trovato il giusto coraggio per porre quella maledetta domanda, la cui restante parte però le morì in gola.
Ci pensò Meg – riluttante e con la voce appena rotta da un pianto che non ce la faceva più a rimanere represso – a completarla. «Chi è morto?»
Desmond le fissava, immobile, incapace di dire una parola; lui, che con le parole ci aveva costruito una carriera, solitamente così abile nel manipolarle e nel piegarle a suo piacimento, si ritrovava impotente e impossibilitato a usarle di fronte agli occhi colmi di lacrime di sua figlia. Perché era consapevole di quanto fossero pesanti, quelle che gli si chiedeva di pronunciare, e mai – per alcuna ragione al mondo – avrebbe desiderato essere egli stesso portatore di un dolore così grande. Ma Margaret meritava di sapere; sua nipote meritava di sapere. Erano ormai passati anni dai tempi in cui, bambine e indifese, era chiamato a proteggerle e a tener nascoste quelle amare verità che le avrebbero ferite; quei tempi, in cui probabilmente glielo avrebbero lasciato fare, erano ovviamente finiti. E adesso lui si trovava lì, di fronte a loro, costretto a gettare nuova benzina sul fuoco di quella sofferenza che, in altre circostanze, avrebbe fatto di tutto per spegnere.
«Ragazze...» raccolse le sue forze, ma non ebbe neanche la possibilità di dare una sorta di ordine al caos che albergava nella sua testa che subito la sua attenzione si focalizzò altrove.
Fiutando il pericolo, i suoi riflessi abbastanza rapidi gli consentirono di scansare le due ragazze appena in tempo perché quel nuovo attacco non le colpisse. Rispose con prontezza, smascherando il suo avversario.
«Rookwood» constatò, allora, per nulla meravigliato.
L’appena menzionato piegò gli angoli della bocca in un ghigno perfido e si esibì in un mezzo inchino sfacciatamente sarcastico. «Stevens, che piacere rivederti.»
«Risparmiatelo!» sbottò Meg, con i nervi a fior di pelle, tentando un Expelliarmus che, però, fu immediatamente respinto.
L’uomo la osservò con disgusto, allo stesso modo in cui avrebbe osservato un insetto viscido e particolarmente rivoltante. «Allora è vero, quello che si dice in giro: non ci sai proprio stare al tuo posto» commentò, sprezzante, tentando un attacco che venne subito bloccato dalla diretta interessata.
Abigail e Desmond, a loro volta, provarono a contrattaccare, ma i loro colpi furono prontamente neutralizzati dallo stesso Rookwood e da una seconda figura incappucciata appena accorsa in suo sostegno.
Margaret e Abigail si scambiarono una rapida occhiata pregna di tensione: sapevano che le probabilità di farcela diventavano sempre più prossime allo zero man mano che il tempo passava e che la stanchezza e i lividi si accumulavano, ma mai avrebbero accettato di arrendersi senza combattere fino a quando l’ultima delle forze non le avesse abbandonate.

Erano tre contro due; sarebbe stato semplice, se solo i due in questione non avessero avuto dalla loro parte una totale mancanza di scrupoli e una raccapricciante abilità nel dispensare morte e sofferenze come se di fronte ai loro occhi non si trovassero esseri umani, ma oggetti privi di una qualunque dignità.
I colpi si susseguivano uno dopo l’altro, rapidi, in degli scambi tanto intensi da non permettere di carpire le intenzioni degli avversari e che lasciavano spazio unicamente ad azioni guidate dal puro intuito. Non era quello il tempo per le riflessioni e per le pianificazioni: solo l’istinto e la più sfacciata incoscienza avrebbero premiato, come le due cugine poterono ben constatare nel momento in cui il loro ammirevole lavoro di squadra riuscì a mettere fuori gioco il secondo Mangiamorte, che dopo quell’azione combinata avrebbe certamente smesso di rappresentare un problema per qualche buona ora.
Ma Rookwood era ancora in pista, e sembrava più determinato che mai; Abigail e Margaret non si persero dunque in convenevoli e prontamente si unirono a Desmond in quello che aveva preso le sembianze di un duello irrisolvibile. Era però evidente come Meg non riuscisse a stare al passo: i postumi della Maledizione Cruciatus subita, come anche quelli della recente frattura alla gamba sinistra, inevitabilmente la rallentavano, la facevano arrancare e la rendevano vulnerabile, e uno come Rookwood non avrebbe mai perso un’occasione tanto ghiotta quanto quella che la non perfetta condizione fisica della ragazza gli prospettava. Sarebbe stato impensabile, per lui, non prendere di mira con accanimento un bersaglio che altri gli avevano reso così facile; uno spreco che difficilmente si sarebbe perdonato.
La foga con cui si ostinava ad attaccarla era a dir poco imbarazzante. Meg aveva rinunciato ormai da qualche minuto a ogni logica e sferrava fatture senza nemmeno chiedersi se davvero servissero a qualcosa; si sentiva sopraffatta, prossima al fallimento, e percepiva il suo corpo cedere, non rispondere ai comandi che la sua testa cercava di impartire senza più alcun minimo successo. Quasi non capiva cosa stesse accadendo attorno a lei; non lo capì allora, né tantomeno lo capì quando vide solamente partire quel getto di luce verde dalla punta della bacchetta di Rookwood per poi sentirsi spingere via, addosso ad Abigail, trascinando quest’ultima con sé sul pavimento.
L’impatto risultò abbastanza attutito dal corpo della cugina, che a differenza sua emise un verso strozzato in risposta alla fitta di dolore che le attraversò la schiena in seguito alla caduta. Entrambe avrebbero dato qualsiasi cosa perché fosse loro concesso di rimanere lì, distese per terra, senza che nessuno venisse a dir loro che era tempo di rialzarsi e di ricominciare a combattere. L’incoscienza dei vent’anni aveva lasciato il posto alla stanchezza, alla consapevolezza di non poter più continuare e che forse sarebbe stato più dignitoso arrendersi che tentare stupidamente l’impossibile. Margaret, di certo, non si era mai sentita tanto inutile quanto in quegli istanti.
«Troppo, troppo facile» commentò malignamente Rookwood, accompagnandosi con una crudele risata che per lui aveva tutto il sapore della vittoria.

Fu allora che Meg, quasi senza accorgersene, riuscì a sciogliere le catene che si era inconsciamente costruita e a liberarsi da quella bolla che l’aveva tenuta avvolta e che l’aveva resa inerme per tutto quel tempo. La rabbia, rafforzata da un’incontenibile frustrazione e da quella stessa paura che non l’aveva mai abbandonata da quando la battaglia era iniziata, riprese a bruciarle nel petto come un fuoco sempre vivo e continuamente alimentato. Si alzò a fatica, a tratti barcollando, tenendo ben stretta nella fremente mano destra la bacchetta. I suoi occhi erano fissi in quelli crudelmente compiaciuti del Mangiamorte; lo scrutavano da dietro le maltrattate ciocche di capelli ricadute sul viso, trafiggendolo, ma non sembravano intimidirlo.
Rookwood rimase fermo e continuò a osservarla con lo sguardo di chi è convinto di avere gli altri in pugno. Non aveva paura di Margaret, non ne aveva mai avuta, e lo rimarcò contraendo i muscoli facciali in un gelido ghigno che solo aveva lo scopo di beffarsi di lei.
«La partita è finita, Pasticcino» le disse quasi in un sussurro, sottolineando quell’ultima parola, quel soprannome che così spesso la ragazza si era sentita affibbiare da quell’unica persona al mondo cui era mai stato concesso farlo. Sentirlo pronunciare tanto sfacciatamente dalla voce di quello che reputava un essere spregevole, assolutamente non degno di essere chiamato uomo, fece nascere in lei un sentimento che mai prima di allora aveva sperimentato in vita sua.
Era la brama di vendetta. Voleva vendetta, la desiderava, per quegli anni trascorsi nel terrore, per le carezze che non aveva dato a suo figlio perché troppo impegnata nell’impedire che quella maledetta guerra le sfondasse la porta di casa, per tutte quelle vite innocenti che erano state spezzate troppo presto e che non avrebbero mai più potuto bearsi della bellezza di un tramonto o di quella di un semplice sorriso.
La agognavano, questa sacrosanta vendetta, le sue dita sempre più serrate attorno alla bacchetta. Margaret non fece un grande sforzo per convincere il suo braccio a sollevarsi per puntarla dritta contro il petto del suo avversario, la cui risata gli morì soffocata in gola nell’esatto istante in cui le intenzioni della giovane si resero fin troppo chiare.
«Non ne saresti capace» biascicò Rookwood, in un mero tentativo di convincere se stesso della veridicità di quelle parole nelle quali neanche lui riusciva più a credere.
Margaret, allora, incurvò impercettibilmente l’angolo destro della bocca in un finto e gelido mezzo sorriso e per un solo istante abbassò lo sguardo sul pavimento, forse un po’ indecisa, prima di puntarlo nuovamente con disprezzo su quell’uomo che cercava di interpretare ogni sua mossa a qualche metro da lei. Non poteva negare che in fondo avesse ragione: i suoi scrupoli, la sua coscienza, la sua morale, mai le avrebbero consentito di ricorrere a una scappatoia così meschina per abbattere i suoi avversari e far valere ciò per cui si era reso necessario lottare; che senso e che credibilità avrebbe avuto, d’altronde, un ideale di giustizia ristabilito attraverso una serie di atti fondamentalmente ingiusti?
Nessuno, si rispose la giovane strega, mentre il duello con Rookwood si era riacceso e assumeva, però, delle sfumature profondamente diverse da quelle che avevano caratterizzato lo scontro precedente. La brama di vendetta non l’aveva certo abbandonata, ma anzi forniva un contributo essenziale a mantenere sempre in vita quella buona dose di rinnovata determinazione che aveva totalmente stravolto l’approccio di Margaret all’intero combattimento. I suoi colpi erano mirati, funzionali e soprattutto decisi, e davano l’impressione di essere molto più efficaci di qualsiasi altro attacco la ragazza avesse sferrato nel corso di quella sera fino a quel momento.
Il Mangiamorte, prevedibilmente, perse in poco tempo il controllo della situazione e si ritrovò in balìa delle sue azioni. Era diventato troppo difficile starle dietro, anticiparla, e anche il pensiero di poter per lei rappresentare una plausibile minaccia era diventato molto meno realistico.

Emblema del trionfo della Stevens fu quello Stupeficium che, potente e rabbioso, colpì l’uomo in pieno petto e lo Schiantò con inaudita violenza a diversi metri di distanza. Il rumore della testa dell’uomo che impattava contro il pavimento fu cupo, quasi tetro, o almeno così fu avvertito dalla ragazza, che con cautela e con la bacchetta sempre levata iniziò ad avvicinarsi a quel corpo immobile che – come lei stessa poté scoprire poco dopo – mai più avrebbe ricominciato a muoversi.
Aveva appena ucciso una persona. La sua mente non riusciva a pensare ad altro, mentre con lo sguardo indugiava apaticamente su quella nauseante pozza di sangue e sugli occhi ormai privi di vita di quell’uomo che tanto odiava e della cui morte si era irrimediabilmente macchiata. Ma non si sentiva in colpa: quella notte l’aveva posta davanti a un bivio, l’aveva costretta a scegliere tra il sopravvivere ricorrendo a qualsiasi mezzo si fosse rivelato necessario e l’arrendersi e morire.
O lui, o lei. Non aveva dubbi che la sua vita fosse infinitamente più importante di quella di un assassino.

«Maggie» Abigail la chiamava, con la voce rotta dal pianto: aveva continuato a farlo per tutto il tempo, ma fu solo in quel momento che lei riuscì a sentirla.
Margaret iniziò a sudare freddo. Non voleva voltarsi, non voleva scoprire cosa fosse accaduto, non voleva fare i conti con qualcosa che non sarebbe riuscita a sopportare e che era ormai certa fosse accaduto. Non voleva, ma dovette costringersi a farlo, e una volta che lo fece il dolore fu troppo grande e lacerante perché le sue gambe potessero reggere ancora. Sentiva il petto dilaniarsi, l’ossigeno abbandonare i suoi polmoni, le lacrime inondarle il viso e annegarla. Provò a rialzarsi, ma furono pochi i passi che riuscì a compiere prima che le sue ginocchia cedessero di nuovo. Ogni nuovo respiro la uccideva, le procurava delle fitte al cuore cui non credeva di poter sopravvivere, mentre quello di Desmond Stevens aveva già smesso di battere per sempre e lei ne diventava atrocemente consapevole mentre gli accarezzava i capelli in un pianto silenzioso.
Abigail la guardava, distrutta, desiderosa di infonderle un coraggio che neanche lei sentiva più di avere, ma Margaret non ne voleva sapere di ricambiare il suo sguardo, né quello di chiunque altro. Si limitò ad accasciarsi sul petto esanime di suo padre e a stringerlo a sé tra i singhiozzi, nell’illusione di poter in qualche modo accompagnarlo verso qualsiasi cosa esistesse dopo quella vita.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per estraniarsi, per entrare di nuovo in quella bolla insonorizzata e lasciare i sentimenti e il mondo intero fuori, adesso che si sentiva divorare con sadica lentezza dai rimpianti per il tempo che aveva sprecato, per gli abbracci non dati, per tutte quelle parole e quei semplici e un po’ scontati “ti voglio bene” che avrebbe voluto dirgli ma che alla fine aveva preferito tener dentro. Le lacrime continuavano a scendere sul suo viso, amare, bruciandole la pelle, e i sensi di colpa per non aver fatto quel poco di più che sarebbe bastato per evitare quanto appena accaduto avanzavano veloci e la torturavano, acuendo il suo dolore.
A Margaret non importava più di niente. Non le importava della battaglia che ancora imperversava tra le mura del Castello, o della possibilità di un nuovo attacco del nemico, così come non le importava di quel rumore di passi che rapidamente raggiungevano lei e sua cugina.

Qualcuno le si inginocchiò accanto e le passò un braccio sulle spalle, tentando in qualche modo di stringerla. Era una presa forte, familiare, che per un troppo breve e volatile istante le fece quasi dimenticare tutto il dolore che provava.
«Non lasciarmi» pregò in un impercettibile sussurro soffocato, cercando la sua mano.
Fred accontentò la sua tacita richiesta e la strinse un po’ più forte a sé. Non l’avrebbe mai lasciata. «Sono qui.»


- Angolo dell’autrice

Hi guys, ben ritrovati! ♥

Lo so, non posso usare continuamente le solite scuse per giustificare le mie assenze sempre più imperdonabili, ma credetemi se vi dico che fino a una settimana fa a malapena esisteva la metà di questo capitolo (e infatti ho finito di scriverlo ieri sera). C’è addirittura stato un periodo in cui ho fermamente creduto che non sarei più riuscita a continuare, quindi davvero spero che il risultato globale sia quantomeno decente perché se così non fosse non potrei perdonarmelo. Giuro però che i sensi di colpa per avervi lasciati sulle spine in maniera così subdola mi hanno tormentata per mesi. ♥

Ma alla fine ce l’ho fatta, ed ecco che SBEM, il nostro Fred è vivo e vegeto e prometto che ci rimarrà per molto, moltissimo tempo. Così come George, così come Abigail, così come la cara Margaret che – povera stella – certamente non attraverserà un bel periodo, ma si riprenderà.
Diciamo che in questo capitolo non l’ho certo risparmiata: dalla gamba rotta, alla Maledizione Cruciatus (scrivendo tutti quei flashback e quelle riflessioni mi sono un po’ uccisa), a tutto ‘sto casino con Rookwood, fino ad arrivare alla morte del nostro povero Desmond che proprio non se la meritava una fine del genere.
Il problema è che qualcuno doveva pur morire, è toccato a Desmond perché sono una persona cattiva volevo che si trattasse di qualcuno di molto vicino a Meg per rendere un po’ più tormentati e interessanti i prossimi capitoli (anche se non è detto che ci riesca, eh). Tra l’altro, prima che arrivasse quel guastafeste di Rookwood, Desmond stava per confessare una cosa importante a Meg e Gail, ed ecco che mi tocca darvi un’altra brutta notizia: è morto anche un altro personaggio. Non posso anticiparvi di chi si tratta, ma verrà spiegato nel prossimo capitolo – e sono certa che quando lo scoprirete non sarete per niente contenti della mia scelta.

Quanto invece alla scelta di Rookwood, tutti sappiamo che nei libri è lui il responsabile della morte di Fred, mentre qui è rallentato (e poi ucciso, ma lui se lo meritava eccome) dalla presenza di Desmond, Gail e Meg e dal conseguente combattimento. D’altronde, tutta la storia è un What If?, e l’introduzione di un solo personaggio può stravolgere tutto – figuriamoci quindi cosa possa fare l’introduzione di 3820940 nuovi personaggi, come nel nostro caso. Poi, ho voluto che fosse Meg a ucciderlo sia perché in tal modo avrebbe quantomeno vendicato suo padre, sia per provare a rendere ancora più difficile e interessante la sua ripresa nel dopo-guerra.
In tal senso, secondo la scaletta i capitoli relativi al primissimo periodo del dopo-guerra dovrebbero essere due (il secondo dei quali, se riuscirò a scriverlo bene, è in lizza per diventare uno dei miei preferiti), poi ci sarà un piacevolissimo salto temporale di qualche annetto che ci porterà solo cose belle. ♥ Penso comunque che il prossimo sarà veramente triste, spero solo di non incontrare troppe difficoltà come quelle che mi hanno letteralmente assalita durante la stesura di quest’ultimo. *sospira*

Mi dispiace solo di non potervi lasciare alcun trafiletto, dato che del prossimo capitolo non esiste neanche una parola. Posso però anticiparvi che tratterà dell’immediato ritorno a casa dopo la Battaglia (o almeno dovrebbe), quindi be prepared.

Detto ciò, ringrazio come sempre:

7_always_7AlileFreedomAngel_Maryaurora weasleyAzar, Beatris Humble, bridilepo, brunettes, Catebaggins, Daniela_97, Deader, Delta_MiDoraBaggins, eott56, EzraScarlet, Fanny_Weasley, FedeSerecanie, Fenicestrega31367, FranChan, hufflerin, huntingwithwolvesIce_DP, JeckyCobainjuly95, KariWhiteKatherineThomas06, Krista Kane, ladyw, maryanne armstrong, Meissa AntaresMichela_WonSik, Moon95Orma_, pintoisreal, Quella che ama i BeatlesSabry_Ace_Will_Never_Die, Secretly_SSoleil Jonestenna96valepassion95, Vivi_AB, WikiJoe, winterlover97Zvyagintsevaely, _LenadAvena_, _Sherry_, __Lunatica , che seguono la storia;

And RiddleCalypso_, EmmaDiggory15, feathersx, FedeSerecanie, Fenicestrega31367GoodbyeStregatto, JeckyCobain, Jilliana, lililisa_jb69, lolcioppiLollie, Martillaaa, MaryWeasleyMeissa Antaresorange_weasleysara9703, soxsmile, Spark_, sweet years_giuly_, Trillian_97, Vivi_AB, Welcome to the darksidewinterlover97, Zarael_Lola_Uzumaki_, che hanno inserito la storia tra le preferite;

 7_always_7, Azazel_Frederique Blackhuntingwithwolves, IpseDixit, Leeyum_isMyBatman, maryanne armstrongmax85MelodySong99Orma_, che l’hanno inserita tra le ricordate;

La meravigliosa Meissa Antares, che ha recensito il capitolo precedente. ♥

Quanto ai credits, il titolo ovviamente è lo stesso di quello della volta scorsa, mentre la canzone in apertura è Resistance, delle mie amorevoli nutrie infami preferite che ormai conoscete tutti e che sono i Muse. ♥

Non mi resta che salutarvi. Spero davvero di riuscire a scrivere il nuovo capitolo in tempi decenti e di non farvi aspettare altri sei mesi, sebbene non possa garantire niente. Adesso tra il tirocinio e la tesi di laurea e le materie che mi restano sarà un enorme casino, ma ci proverò. ♥                   
Nel frattempo, spero di trovare qualche parere – che mi fa sempre molto, molto, molto piacere – e vi mando un enorme e affettuosissimo abbraccio.

Jules

 
   
 
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