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Autore: Adeia Di Elferas    18/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gli ambasciatori mandati a Roma erano tornati quella mattina a Forlì, per riferire tutto quello che il papa aveva detto e fatto alla Contessa Sforza Riario.

Caterina, che ormai sentiva di essersi del tutto rimessa dalla malattia, si era fatta forte dell'assenza di nuovi sintomi, sperando che l'accesso malarico – se di malaria si era trattata – fosse un solo episodio destinato a non lasciare alcuno strascico.

Aveva ascoltato con attenzione le parole dei suoi messi e aveva accolto con buonagrazia le precisazioni fatte da Rodrigo Borja sul Giubileo straordinario invocato per le sue terre. L'importante era aver strappato la concessione, tutto il resto era un dettaglio.

A quanto pareva, poi, Alessandro VI si era dato da fare per convincere gli ambasciatori della Contessa a restare a Roma più del necessario, coprendoli di doni e favori. Evidentemente, pensò Caterina, il papa aveva ben pensato di non lasciarsi impressionare troppo dalla spavalderia dei quattro ambasciatori, cercando anzi di spiazzarli con un'accoglienza degna di un principe.

“Pare anche che il papa si stia muovendo per tessere nuove alleanze.” spiegò Giovanni Delle Selle, corrucciandosi appena: “A quel che dicono sua figlia Lucrecia potrebbe andare in sposa presto a qualcuno di molto importante, anche se nessuno sa dire chi sarà il pretendente ufficiale.”

“Abbiamo sentito delle chiacchiere circa un paio di facoltosi spagnoli – si intromise Maccherelli – ma sinceramente trovo difficile pensare che, ora che è diventato papa, il Borja cerchi ancora alleati in Spagna. Immagino sia più verosimile aspettarsi un matrimonio con un nobile italiano.”

Caterina aveva dato peso fino a un certo punto a quelle chiacchiere, convinta che in nessun modo avrebbero riguardato la sua famiglia e concesse finalmente il meritato riposo ai suoi uomini di fiducia.

Malgrado fosse ben consapevole dell'importanza di essere alleati con il papa del momento, sapeva altrettanto bene quanto si trattasse di alleanze deboli e pronte a voltarsi in dannose alla morte del pontefice di turno. Lei stessa, non poteva scordarlo di certo, era stata usata per allearsi alla famiglia che governava in Vaticano e di certo la sua storia avrebbe dovuto essere una lezione sufficiente per tutti quelli che la conoscevano.

Sperò solo che Rodrigo Borja scegliesse per la figlia qualcuno di accettabile, non solo in termini di titolo e cognome, ma soprattutto in termini di umanità e moralità. In fondo la figlia di Alessandro VI aveva appena dodici anni: meritava almeno quello sprazzo di pietà, visto che il fato già l'aveva condannata, affibbiandole un cognome tanto ingombrante.

 

Giovanni Sforza, gonfio il cuore di timori e incertezze, era arrivato al castello di Nepi, dove, da accordi, si sarebbe incontrato con il Cardinale Ascanio suo parente, per discutere gli ultimi dettagli di quella difficile contrattazione matrimoniale.

Era ormai la metà d'ottobre e il caldo di settembre era solo un ricordo. Nuvole grigie e portatrici di pioggia si stavano accalcando sulla rocca, come ad accompagnare metaforicamente l'animo in tempesta del povero Giovanni.

Ascanio aspettava il congiunto seduto accanto a una delle finestre. Essere Governatore di Nepi gli permetteva di distrarsi spesso dalla claustrofobica vita romana, dato che per il momento tutto gli sembrava nuovo e interessante, ma quelle terre proprio non le capiva. Forse era troppo, chiedere a un milanese di occuparsi di una città dell'Agro...

Quando finalmente Giovanni venne annunciato, Ascanio si alzò dalla poltroncina, si stiracchiò un po', diede un'ultima malinconica occhiata fuori, chiedendosi quando e se sarebbe finalmente scoppiato il temporale, e si preparò a incontrare il suo prezioso parente.

Giovanni Sforza indossava uno dei suoi abiti migliori e fece nervosi brevi passi fino al centro della stanza, salutando il Cardinale con deferenza.

Ad Ascanio bastò uno sguardo per rendersi conto che quel giovane uomo era nel suo pugno e che avrebbe potuto fargli fare qualunque cosa. Era una pedina nelle sue mani, era il pedone che avrebbe aiutato il re a fare scaccomatto all'avversario.

Così gli si avvicinò con un sorriso e, allargando le braccia, lo strinse in un caloroso abbraccio ed esclamò: “Caro Giovanni! Come sono felice di avervi come mio ospite!”

 

“E cosa dovrei scrivere allora, di preciso?” chiese il Novacula, le mani sui fianchi, le ciglia unite e gli occhi fissi sulla sua signora.

Caterina sospirò e provò per l'ultima volta: “Non potete evitare di citare la mia malattia?”

Bernardi scosse subito il capo: “No, no, mi spiace. Sono uno storiografo, mia signora, prima ancora che vostro fedele servo. E poi anche Cobelli ne scriverà, dunque che almeno vi sia una versione a voi favorevole. Dio solo sa cosa andrà a scrivere quel pennivendolo senza scrupoli...”

“E allora date la colpa al caldo.” concluse Caterina, massaggiandosi la fronte con fare stanco: “Tutti sanno che abbiamo avuto un settembre impossibile, dunque sarà credibile. Fatemi passare come una debole donna che non ha sopportato l'afa e finiamola qui.”

Il Novacula restava accigliato e indagatore, in disaccordo con quella decisione. Per quanto lo riguardava, trovava più onorevole una malattia grave come la malaria, rispetto a un colpo di calore.

“Se mi siete amico, scriverete quel che vi ho detto.” fece Caterina, alzandosi per congedarsi.

Il barbiere-storico cedette e chinò appena il capo: “Va bene, mia signora, come dite.”

La Contessa lo ringraziò e uscì dalla barberia, affrontando le prime luci dell'alba che stavano inondando la città. I primi lavoratori si stavano muovendo già senza requie e qualcuno di loro la salutò, nel vederla passare.

Da quando era tornata a farsi vedere in pubblico, quasi nessuno aveva più fatto cenno – o così almeno le avevano riferito le sue spie – alla sua malattia.

Riprendendo in considerazione un'idea che aveva già avuto tempo addietro, Caterina aveva cominciato a mandare in giro per le campagne alcuni soldati non autoctoni, in modo tale che nessuno li riconoscesse, ordinando loro di fingersi stranieri, e mettersi a origliare le chiacchiere delle taverne e delle osterie. Credendoli forestieri e incapaci di capire la loro lingua, nessuno faceva caso a loro e tutti parlavano liberamente, dando a Caterina una nuova fonte di notizie dall'attendibilità pressoché impagabile.

Aveva anche preso la pesante decisione definitiva di scrivere a Tommaso, facendo sì che la sua lettera partisse assieme a quella che Lucrezia aveva stilato per Bianca. Le erano costate parecchio, le parole che aveva scritto al suo ex castellano. Il modo in cui l'aveva costretto a lasciare Forlì era ingiusto e Caterina se ne rese conto appieno solo mentre intingeva la penna nell'inchiostro e faceva seguire una frase all'altra.

Tuttavia nella sua missiva non volle scadere nel pietismo né nella richiesta sperticata di perdono. Preferì uno stile pulito e stringato in cui semplicemente ammetteva di aver sbagliato e di aver commesso un atto deplorevole. Il modo in cui aveva chiesto, poi, a Tommaso di tornare per prendere questa volta il prestigioso incarico di Governatore di Imola, sapeva più di ordine che non di preghiera. Per quanto si fosse sforzata, non era proprio riuscita a trovare un modo più dolce per esprimersi, confidando nel fatto che Tommaso la conosceva a fondo, tanto da capire quanto quelle spigolosità nascondessero in realtà una speranza profonda e sincera.

Aspettare la risposta si stava rivelando un'autentica tortura. Sapeva bene che ci voleva del tempo, visto che i destinatari erano a Savona, ma avrebbe voluto dotare di ali i messaggeri, per permettere loro un viaggio rapido e senza intoppi.

Aveva anche dovuto avvisare suo marito della sua decisione. Se Tommaso avesse accettato di tornare, Caterina voleva che Giacomo fosse mentalmente pronto, in modo da evitare inutili litigi e sceneggiate.

Il Governatore Generale aveva preso la notizia con una certa freddezza, commentando a mezza bocca che era felice di saperlo di ritorno, purché restasse a Imola.

Quando Caterina gli chiese apertamente perché mai nutrisse tanto astio verso il fratello, fratello che prima aveva adorato e seguito senza fiatare in ogni scelta, Giacomo aveva fatto spallucce, dicendo che un marito aveva il diritto di essere geloso.

Visto che la Contessa si stava scoprendo anch'ella gelosa del coniuge, ribollendo ogni volta che lo vedeva anche solo scambiare uno sguardo con un'altra donna, non trovò nulla da ridire e lo rassicurò sul fatto che Tommaso non sarebbe stato a Forlì quasi mai: “Solo per le riunioni di Stato straordinarie.” aveva aggiunto, tanto per abituare Giacomo a quell'idea.

Così il Governatore Generale, ripresosi dopo la malattia della moglie, aveva un nuovo pensiero a oscurargli le giornate. Il modo in cui si era congedato da suo fratello lo faceva ancora sentire in torto, benché fosse convinto di aver solo agito per autodifesa. Non credeva che Caterina avrebbe deciso di richiamare a sé Tommaso...

Quell'inquietudine che accompagnava l'inizio dell'autunno – già quasi un profondo e repentino inverno – stava influenzando molto l'atteggiamento di Giacomo verso quelli che lo circondavano e verso i forlivesi.

Scansava i poveri che lo avvicinavano chiedendogli l'elemosina quando passava per strada, trattava a male parole i piccoli commercianti e si atteggiava a superiore con i nobili della città. Aveva scritto di nuovo a Firenze, sperando in una risposta di Piero Medici, benché il figlio del Magnifico sembrava prendere tempo ogni volta.

Giacomo si sentiva inadeguato e preso tra mille fuochi. Se fosse capitato qualcosa a Caterina, se Tommaso si fosse imposto su di lui, se qualcosa, qualunque cosa, lo avesse di nuovo messo in pericolo, avrebbe dovuto cavarsela da solo. Per il momento si forgiava del titolo 'eques armorum', suggeritogli dallo scribacchino che aveva vergato le sue lettere in sua vece, ma quelle vuote parole non servivano a nulla contro il bisbigliare incessante che accompagnava Giacomo ovunque andasse.

Nella rocca c'erano Ottaviano e il milanese Sfrondati, che occhieggiavano malevoli verso di lui, fuori dalla rocca gli Orcioli e i Marcobelli si lasciavano scappare sempre più spesso frasi spezzanti nei suoi confronti e perfino oltre i confini dello stato degli Sforza Riario parevano esserci malelingue sempre pronte a battere sui denti.

Giacomo, così, teneva alta la guardia, rendendosi solo più arrogante e distante da coloro che invece avrebbe dovuto accattivarsi, e, tentando di nascondere quelle sue inquietudini alla moglie – che invece sembrava sempre tranquilla come una lastra di alabastro – andava avanti giorno per giorno, temendo gli angoli bui dei corridoi e annusando con circospezione ogni piatto, temendo ora di vedere il luccicare della lama di un pugnale, ora di sentire l'odore amaro di un veleno.

 

La casa in Borgo del Cardinale di San Clemente, Domenico Della Rovere, era accogliente e tranquilla. Da quando vi era arrivato, quel 31 ottobre, Giovanni Sforza aveva cominciato ad apprezzare l'accoglienza romana, benché fosse certo che prima o poi si sarebbe pentito della sua accondiscendenza nei confronti delle richieste di Ascanio.

Quel giorno aveva in programma un incontro importantissimo. Il papa in persona, senza grandi pompe, anzi, quasi in segreto, sarebbe arrivato in quella dimora per incontrarlo. Ufficialmente per conoscere un parente del Cardinale Sforza, ufficiosamente per permettere a Lucrecia di vederlo.

Sembrava impossibile, ma pareva che al Borja importasse molto vedere la reazione che avrebbe avuto la giovanissima figlia nel trovarsi di fronte il possibile futuro sposo. Anche se secondo Ascanio era già tutto deciso, Giovanni si era messo in testa che tutto sarebbe dipeso da quel primo incontro.

A quanto aveva detto lo stesso Ascanio, Alessandro VI non aveva affatto rifiutato il corteggiamento perpetrato anche dal partito spagnolo, seppure nelle sue lettere si facesse sempre più vago e incline ai sofismi, come se volesse annoiare tanto il pretendente da convincerlo a desistere senza dovergli opporre un aperto rifiuto.

L'abito che Giovanni aveva scelto era tra i più sfarzosi e tra i più eleganti che aveva portato con sé. Seta e raso scuri, adatti a nascondere i suoi difetti, le maniche larghe e alla moda, il cappello con strascico che poteva sviare l'attenzione dal mento secondo Giovanni troppo pronunciato. Tutto era stato scelto per cercare di sfigurare il meno possibile davanti a quella che gli era stata descritta come una delle creature più incantevoli della terra.

Ascanio Sforza arrivò al palazzo appena prima del papa, per preparare una volte per tutte Giovanni.

Gli ribadì l'importanza dell'incontro e gli spiegò una volta di più come un'alleanza con i Borja avrebbe favorito Milano e 'tutti i piani del Duca'.

Per quello che ne sapeva Giovanni, il legittimo Duca, Gian Galeazzo, non faceva altro che starsene nelle su tenute pavesi, a bere, cacciare e divertirsi con la moglie. Che piani avrebbe mai potuto avere per Milano?

“Cardinale.” salutò Alessandro VI, con la medesima disinvoltura che aveva sempre usato prima di divenire papa: “Carissimo Sforza!” aggiunse, rivolgendosi a Giovanni.

Questi, impacciato, chinò il capo e ricambiò il saluto, sentendo gli occhi rapaci dello spagnolo passarlo in rassegna, intento a trovarne ogni minimo motivo di biasimo e disappunto. Il papa, benché avesse passato i sessant'anni, aveva un fisico ancora più avvenente e potente di quello del ben più giovane Giovanni e tanto bastava al signore di Pesaro per sentirsi in difetto.

“Noi dobbiamo parlare, caro Ascanio.” disse piano Rodrigo al Cardinale, sottintendendo un discorso che il porporato di certo già conosceva.

Giovanni non aveva ancora osato risollevare gli occhi, temendo di essere ritenuto troppo ardito per quel gesto. Sarebbe stato il papa, pensò, a fargli capire quando tornare in posizione rilassata.

“Lucrecia!” chiamò poi Rodrigo, voltandosi appena verso la porta e poi scusandosi coi due uomini: “Perdonate la mia piccola... Ha dodici anni, ma l'energia di una donna adulta. Non mi dà retta nemmeno a costringerla... Lucrecia!” chiamò di nuovo, con la voce appena più alta.

Si sentì la voce allegra di una ragazzina congedarsi da una delle serve e finalmente l'ospite d'onore fece capolino.

“Questa è la mia figlia prediletta – la presentò il papa – Lucrecia, salutate i nostri amici.” le disse, incoraggiandola con un breve cenno della mano.

Questa fece una riverenza, prima ad Ascanio e poi a Giovanni, che ancora stava a capo chino, incapace di farsi forza e guardare quella che sarebbe divenuta sua moglie.

“Mio signore.” soggiunse Lucrecia rivolta a Giovanni, con un accento delizioso, che ricordava tanto la Spagna quanto le ville romane: “Sono lieta di conoscervi.”

Sorpreso da quel modo diretto di indirizzarsi a lui, il signore di Pesaro sollevò lentamente lo sguardo e per poco non se ne restò a bocca spalancata nel trovarsi di fronte la figlia preferita di papa Borja. Tutto quello che gli avevano detto era vero. I suoi capelli, pettinati in finissimi boccoli d'oro, scendevano morbidi sulle spalle, il suo viso aggraziato e le sue mani sottili erano un invito ad ammirarla e la sua figura era già quella di una meravigliosa giovane, pronta ad ammaliare qualunque uomo avesse mai incontrato.

La cosa, però, che lasciò davvero senza fiato Giovanni, fu la carica di forza che avevano i suoi occhi. Lo spiavano, da sotto in su, come se sapessero cose che nessun altro poteva sapere. Erano brillanti e tranquilli, come una roccia nel mezzo del mare in tempesta.

“Bene.” sussurrò Rodrigo Borja, intento a controllare le reazioni dello Sforza e di Lucrecia: “Ascanio, vi andrebbe di ritirarci un attimo nell'angolo a discutere?”

Il Cardinale accettò all'istante e così lui e il papa si defilarono accanto alla finestra. Rodrigo avrebbe voluto lasciare sola la figlia con quell'uomo, per permetterle di parlargli liberamente, di conoscerlo un po', ma sapeva che stavano già infrangendo l'etichetta a sufficienza.

Così si accontentò di vedere le iridi delle figlia illuminarsi nel mentre si specchiavano con quelli di Giovanni Sforza. Difficile capire se la ragazzina fosse rimasta ammaliata da quell'uomo un po' goffo e di certo non bello, ma Rodrigo sapeva riconoscere nella figlia la curiosità e per il momento era già un bel traguardo.

 

   
 
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