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Autore: Lory221B    18/08/2016    7 recensioni
Sherlock e John vivono in epoche diverse, in posti diversi, eppure fanno parte di un unico schema, uniti dal destino e divisi dal caso.
Dal diciottesimo secolo, ai ruggenti anni venti, passando per il presente, un futuro prossimo dominato dall'AI, fino a giungere in un futuro post apocalittico molto lontano. Una sola cosa è certa: Sherlock e John si ritrovano sempre.
Liberamente ispirata all'Atlante delle nuvole - Cloud Atlas
(Johnlock)
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di sir A.C.Doyle, Moffatt, Gatiss BBC ecc.; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro per il mio puro divertimento

Premessa dell’autrice: è una storia un po’ complessa, che si ispira come idea a Cloud Atlas - l’Atlante delle Nuvole. C’è la parte canon e poi, con un collegamento, si viaggia nell’AU e nel tempo, senza rispettare l’ordine cronologico. Per cui un capitolo inizia e non esaurisce la sua storia, che verrà ripresa nei capitoli successivi. Spero sia chiaro. Forse si viaggia anche un po’ nell’OOC, ma farò di tutto per mantenerli IC.



Tu ed io, contro il Mondo, contro il Tempo



L'avventura del porto e il diario di Sir William Sherlock Scott Holmes 


« Sherlock? » sussurrò John. Respirava a fatica, il cuore che batteva all’impazzata e un suono appena percettibile in lontananza. Sembrava lo squittio di un ratto o qualcosa di simile.

« Sherlock? » riprovò, a voce più alta. Si portò una mano sulla testa, massaggiandola piano e cercando di aprire gli occhi. Sentiva  freddo, probabilmente perché era disteso a terra, sul pavimento umido. Riuscì ad aprire completamente gli occhi, a fatica, sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco la situazione. Era tutto buio, lugubre, tranne uno spiraglio di luce che proveniva da una finestra del magazzino dove si trovava disteso a terra.

Era con Sherlock, avevano visto il sospettato, lo avevano inseguito per il porto, fin dentro il magazzino.

Doveva essere ancora lì.

Ricordava perfettamente ogni secondo di quella folle corsa, ma non riusciva a ricordare come fosse finito steso a terra.

Sentiva l’odore del mare proveniente dal porto, il rumore delle onde che si infrangevano contro la banchina, quel continuo squittio fastidioso, ma nessun rumore di persone o veicoli. Sembrava che Londra fosse addormentata. Era solo.

Percepì che non stava bene, che c’era qualcosa che non andava. Era affaticato, lento. Capì che se sentiva freddo, non era per colpa del pavimento umido, c’era qualcos’altro.
 
Lentamente comprese perché era a terra; scese con la mano lungo il fianco e percepì una spiacevole sensazione sotto i polpastrelli: qualcosa di bagnato e vischioso, che conosceva bene. Era sangue, il proprio sangue, un proiettile lo aveva colpito sul fianco.

Come in un flash ripercorse gli attimi precedenti, che prepotentemente gli esplosero davanti, appena raggiunta la consapevolezza che gli avevano sparato: stavano correndo, Sherlock gli aveva urlato qualcosa e poi il buio. Probabilmente gli aveva intimato di stare attento e non aveva visto l’uomo che poi lo aveva colpito.

Stava morendo? Da medico sentiva di dire di sì. Non nell’immediato, ma se non fossero arrivati i soccorsi, sarebbe stata la sua ultima sera. Ma quello che più lo preoccupava, più della sua salute e di tutte le cose irrisolte che avrebbe lasciato se fosse morto,  era che Sherlock non era accanto a lui.

Il detective non lo avrebbe mai lasciato a terra, in quelle condizioni, con una ferita e in fin di vita. Forse era andato a cercare soccorsi? Forse non si era accorto che era grave? Possibile?

Sperava ardentemente che fosse così, perché l’altra ipotesi era peggiore. John tremò sotto il peso delle sue deduzioni, tremò temendo che fosse successo qualcosa a Sherlock, tremò perché la sola idea non era possibile, il suo detective era sopravvissuto anche ad un salto da un palazzo, non poteva essere morto.

« Sherlock! » gridò più forte, un urlo disperato che rimbombò nel magazzino. Lo sforzo gli costò caro, iniziò a tossire con forza e temette che avrebbe perso conoscenza. Cercò di farsi forza, doveva vedere Sherlock, doveva trovarlo, voleva vedere quel viso, per essere sicuro che stesse bene e per poterlo salutare un’ultima volta, se quella fosse stata la sua ultima sera.

 La pallottola aveva trapassato la sua carne ma non era ancora uscita, sentiva un dolore acuto dove era entrata, ma cercò di non pensarci, di concentrarsi su qualcosa che non fosse lui, qualcosa che faceva più male ancora, l’idea che Sherlock non ci fosse più.

“Perché?” era l’ultima parola che aveva pronunciato il detective, prima di iniziare la folle corsa per il porto, dentro al magazzino dove si trovava John.

Aveva solo chiesto “perché?”, con un leggero tremore nella voce, per niente da Sherlock. Si era vergognato subito, di averlo detto a voce alta, come se il pensiero gli fosse sfuggito di bocca, senza poterlo fermare.

Era uscito dalle sue labbra e aveva colpito John con la forza di un pugno. Il dottore non aveva avuto il tempo di pensare a quell'unica parola, di esitare davanti alle mille frasi che avrebbe dovuto usare per spiegarsi. Forse sarebbe bastato dire “te ne sei andato”. No, era troppo riduttivo.

Avrebbe balbettato qualcosa, di incoerente e stupido, e Sherlock si sarebbe arreso, ancora una volta.

Ma era arrivato quell’uomo, quello che cercavano da giorni e tutte le parole erano morte in un secondo. Nuovamente il gioco era davanti a loro, impedendo una conversazione imbarazzante che John non voleva sostenere.

Ricacciò quei pensieri e cercò di girarsi sul fianco sano, per trovare un appiglio che lo aiutasse a mettersi in piedi. Non vedeva che ombre di scatoloni ammassati lungo i lati e null’altro.

Una lacrima iniziò a rigargli la guancia « Se è uno scherzo, ti uccido Sherlock » sussurrò John, iniziando a strisciare in direzione del fiotto di luce, quando sentì un peso fastidioso nella tasca e ricordò, dandosi dell’idiota per non averci pensato prima, che aveva ancora il cellulare con sé.

Estrasse lo smartphone e premette la selezione rapida per chiamare Sherlock. Curioso come il suo numero fosse ancora memorizzato sulla prima posizione, anche se lo aveva dato per morto, anche se aveva sposato Mary, anche se si vedevano sempre meno. Era ancora al numero 1 e sembrava ricordargli sfacciatamente, chi era, da sempre, la sua priorità.

Premette invio e rimase in attesa, finché non sentì una suoneria in lontananza. Il battito accelerò nuovamente; non era il solito suono preimpostato che sentiva quando il cellulare di Sherlock squillava. Solo in quel momento apprese che Sherlock gli aveva assegnato una suoneria specifica, un pezzo di opera classica, tratto da “Le nozze di figaro”, l’unica opera che avevano visto assieme, una sera di tanti anni prima, quando Moriarty non era ancora la grande minaccia e la vita sembrava perfetta così com’era.

Il dottore sorrise amaramente e cercò con tutte le forze di raggiungere il luogo da dove proveniva il suono, chiedendosi se avrebbe trovato Sherlock e in che stato.


***** * *****
18 agosto 1790

Porgi, amor, qualche ristoro
al mio duolo, a’ miei sospir.
O mi rendi il mio tesoro.
O mi lasci almen morir!

Siamo partiti dal porto di Londra e continuo a canticchiare quest’aria de “Le nozze di Figaro”. A tutti sembro sfacciatamente allegro, poveri idioti incapaci di distinguere la felicità artefatta da quella vera.

Inutile dire che non capiscono il testo.

Se Mycroft non vi avesse costretto a partecipare al suo viaggio, sarei in qualche sobborgo di Londra, con la mente persa grazie a qualche sostanza in grado di farmi dimenticare, per un attimo, il brusio di questa metropoli. Il brusio dei miei mille pensieri.

Nonostante la mia ritrosia, dovuta anche a voler contraddire mio fratello a prescindere, l’avventura si prospetta interessante. Sarà un viaggio lungo, tutto un Oceano tra noi e l’America, con la Gran Bretagna alle nostre spalle.

M sento strano, come se fosse il sogno di una vita che finalmente si realizza: andare per mare, vedere altre terre, lasciare la noia di una vita grigia a Londra. Non credo sia questo, ma voglio pensare lo sia.

C’è un mondo nuovo che mi attende; non ho altre soluzioni in ogni caso, ormai sono su questa nave e non posso andare da altre parti.

Mi trovo a scrivere un diario, per la prima volta nella mia vita. Un diario, un posto dove riversare pensieri. Non sembra una cosa da me, ma mi è stato regalato, sembrava importante ed eccomi qui, fintamente felice, fintamente allettato dalla prospettiva del viaggio verso l’America, un po’ felice di lasciare Londra.


17 ottobre

Due mesi e non riesco a togliermi quest’aria dalla testa. E’ come un tormento, la mia mente è come travolta, non riesco più a ragionare lucidamente. Mio fratello mi guarda con una strana espressione negli occhi, un misto di stupore e pietà, come se avesse capito che non riesco più a pensare.

Non sono malato.

No, è quell’aria, anche se non capisco cosa mi sconvolga tanto di un’opera come “Le nozze di Figaro”.

La mia mano sta tremando alla luce della candela, la fisso e non vuole saperne di stare ferma. Sto sporcando tutto il foglio con l’inchiostro, forse sto davvero impazzendo.

Non mi è mai capitato, in tutto il corso dei miei trent’anni, di sentirmi così.

Da quando la nave è salpata dal porto di Londra, sento uno strano senso di vuoto. Non capisco perché al secondo mese di viaggio stia già perdendo la lucidità, il raziocinio. La mia mente si sta impigrendo, ho bisogno di stimoli, ho bisogno di qualcosa che occupi il mio tempo.

Qualcosa di interessante che solletichi il mio interesse.

E’ insopportabile stare sulla nave, camminare per il ponte, fissare l’acqua sempre uguale, i marinai che lavorano attorno a me, con l’aria scocciata di chi deve guadagnarsi da vivere così, mentre io sono qui, solo per accompagnare mio fratello nel suo viaggio d’affari.

Vorrei fare qualcosa anch’io, ma non c’è lavoro per l’aristocratico della nave.

Il viaggio, quello che credevo fosse comunque interessante e pieno di esperienze, si sta rivelando di una noia assoluta. Non ho niente da fare, se non suonare il mio violino e scrivere su questo stupido diario.

Sto perdendo la mia preziosa mente in questa situazione di pigrizia, sto perdendo il raziocinio.

Mycroft direbbe che non l’ho mai avuto o che è rimasto a Londra, assieme a una parte di me.


30 ottobre

Sono sempre più insofferente. Il tempo sembra non passare mai, i giorni sono tutti uguali su questa gabbia galleggiante.

Uno degli uomini dell’equipaggio, l’unico apparentemente sopportabile, mi sembra si chiami Victor, ascolta curioso le mie deduzioni. Sono riuscito a capire ogni cosa di tutte le persone presenti, con gran fastidio della maggior parte dell’equipaggio. Dice che sarei un ottimo poliziotto da un punto di vista investigativo,  ma pessimo come capacità di prendere gli ordini. Mi fa ridere, mi ricorda un po’ John.

Per il resto, non sopporto nessuno.

Come sulla terraferma, anche in mare non riesco a trovare un motivo per apprezzare la compagnia delle persone. Saluti falsi, discorsi ripetitivi e frasi fatte.

Gli uomini dell’equipaggio non  vedono me e Mycroft di buon occhio, siamo i due snob che hanno ereditato la fortuna della famiglia.

Mio fratello si limita ad ignorarli, li vede come tanti pesci rossi che saltellano per la nave. Io li evito, sto meglio da solo, con il mio violino.

Mi manca John.

Mi direbbe di non restare solo.


2 novembre

Perché l’ho scritto? Non mi manca John.

Non so nemmeno perché stia scrivendo di lui.


4 novembre

Victor, si chiama Victor, eppure l’ho chiamato John.

Davanti a tutti.

Anderson mi ha chiesto “chi è John?”, con un sorriso maligno. Gli ho spaccato il naso e ho ancora le nocche che mi fanno male. Ma non importa. Non ascolto nemmeno le minacce inutili di mio fratello. Come se potesse davvero punirmi in qualche modo.

Siamo in mezzo all’Oceano. Lo sa che non può togliermi il cibo, già così si lamenta che mangio poco e sto dimagrendo.

Non può togliermi il violino o potrei davvero dare di matto, senza altro da fare.

 Non lo so perché l’ho chiamato John, non si somigliano nemmeno. Victor è alto, castano, ha i capelli ricci e gli occhi azzurri.

Semplicemente, Victor non è John.


5 novembre

Vorrei tornare a quel giorno, vorrei tornare indietro. Inutile continuare a fare finta di niente. Non sto diventando matto, non sto impazzendo, non sopporto di stare così male. Non è nella mia natura, io non do importanza ai sentimenti, io mi controllo, non sento dolore. Non voglio sentirlo.

Non voglio sentirlo più.

Ti odio.


***** *****
Angolo autrice:
Prima di tutto, per chi stesse seguendo altre mie storie, non le ho abbandonate, ci mancherebbe, solo quando mi si fissa un tarlo in testa, non c’è verso, devo scrivere.
Un sentito grazie a chi leggerà e commenterà questa storia, nata da una vignetta che mi fatto pensare a Cloud atlas, che mi ha fatto pensare a tutte le vite che Sherlock e John potrebbero vivere.
Alla prossima


   
 
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