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Autore: Gloria Victoria    19/08/2016    0 recensioni
«Non saprei bene spiegare come tutta questa faccenda sia cominciata. O quando, esattamente. Ricordo solo che ero innamorata del suo migliore amico e poi, solo pochi mesi dopo, c’eravamo noi.
Noi, Emilia e Gregory. [...] E fu in quel momento che mi resi conto che non era solo attrazione fisica, quello che provavo per lui. C’era altro nel nostro rapporto, era da sempre stato così. Non eravamo mai stati solo amici, neanche al tempo di me e David. Quel qualcosa era da sempre presente. Un
feeling speciale che, sapevo, non avrei più avuto con nessun altro.»
Gregory e Emilia erano amici. O forse, qualcosa di più. Ma sono anni che non si vedono, hanno due vite diverse, non più condivise da otto anni. Si può ritrovare una persona dopo che la si è persa quel che sembra una vita fa?
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Un mostriciattolo rosa e una bottiglia di vodka
 
 
Otto anni dopo
 
      «Mya! Mya!»
      Emisi un buffo suono fra un gemito e un grugnito e mi tirai la coperta sulla testa, sperando che quella vocina martellante si fermasse. La mia preghiera non fu, naturalmente, esaudita.
      « Mya! Mya! Mya! Mya! Mya!»
      Si ripeté pericolosamente vicina, questa volta, e dopo pochi istanti qualcosa di un peso non trascurabile si abbatté sul mio fianco. Mi sentii mozzare il respiro e scattai a sedere, trovandomi a fissare due scurissimi occhi castani che mi sorridevano da un viso tutto fossette. Sospirai rassegnata, mentre con una mano scompigliavo la massa di ricci neri della cui proprietaria mi sedeva sulle gambe.
      «Che ore sono, tesoro?» domandai con la voce impastata.     L’esserino urlante scese dal letto e tornò di corsa alla porta.
      «È tardi!» urlò e si mise in attesa, tormentandosi le mani e trattenendosi dal saltellare. Mi chiesi per l’ennesima volta perché avessi acconsentito a badare alla mia figlioccia per una settimana e deciso così di privarmi del sonno anche in vacanza.
      «Certo…» borbottai, alzandomi a mia volta. Mi girò la testa e mi appoggiai di nuovo al letto, maledicendo il mio organismo mal organizzato che mi tradiva sempre in momenti come quelli. Cali di pressione, mancamenti improvvisi, giramenti di testa. Sembravo una donna incinta non-incinta. Ed ero anche una persona molto coerente e con un forte senso di logica.
      Con passo incerto mi avvicinai allo specchio a figura intera della mia stanza e due occhi nocciola, arrossati e socchiusi, mi restituirono lo sguardo. Guardai scettica i miei capelli biondi, più simili ad un cespuglio di rovi, in quel momento, che ad altro. La sera prima, la gentilissima Lucy aveva deciso di volermi fare le trecce, con le quali avevo passato gran parte della notte, finché non si era finalmente addormentata. E quello che mi ritrovavo quella mattina era il risultato delle indubbie capacità da parrucchiera della mia figlioccia.
      «Perché sei così agitata, tesoro?» domandai alla piccola, mentre entravamo in cucina per prepararci la colazione. Benché Amy, sua madre, mi avesse offerto di fermarmi nella loro casa vuota per quella settimana, avevo preferito portare Lucy da me. Mi era mancato, quell’appartamento, che potevo avere tutto per me visto che i legittimi proprietari — i miei genitori — avevano deciso di passare le vacanze a Londra. Era enorme e mi piaceva quando, di sera, mi sedevo davanti all’enorme vetrata del salotto con un bicchiere di vino in mano e guardavo quella città che mi aveva fatto da casa per quattro anni immersa nella luce. Era quello che mi sarei concessa di fare, per essere precisi, se non avessi avuto un mostriciattolo rosa a carico.
      «Perché tu mi hai promesso di portarmi allo zoo!» squittì Lucy in risposta alla mia domanda, arrampicandosi su una sedia e sistemandosi al suo posto.
      «Davvero?»
      «Davvero!»
      Scossi la testa divertita e mi versai del caffè, mentre addentavo un croissant. Versai del latte anche alla bambina che mi sedeva davanti e, poco dopo, ci ritrovammo fuori, a rabbrividire per il vento di dicembre, mentre mentalmente mi davo dell’idiota per certe promesse. Quando avrei imparato a tenere la bocca chiusa? Avessi almeno controllato il meteo, prima di lasciarmi convincere da Lucy ad imbarcarmi in quella — catastrofica — impresa!
      «Sei sicura di non voler rimanere a casa al caldo, Lucy?» le chiesi, nella speranza che rinunciasse alla prospettiva di due ore all’aperto in quel tempo terribile. Nemmeno lei doveva sentirsi attirata dal vagabondare per le strade in quel fred…
      «No!» Come non detto. «Io voglio vedere gli elefanti! Mamma dice che ci sono due elefanti grandi e uno piccolo e che sono un sacco carini e che…»
      Sospirando, la presi per mano e ci addentrammo insieme nei meandri oscuri della New York invernale. Il cattivo tempo mi aveva sempre resa molto melodrammatica. La piccola Lucy mi parlò di elefanti fino a quando non arrivammo allo zoo,  riuscendo, in qualche modo, a risollevare persino il mio umore. Un paio d’ore allo zoo non avevano mai ucciso nessuno, mi dissi alla fine, mentre pagavo il prezzo d’ingresso per entrambe. Anche se ad accompagnarle c’erano sette gradi e un cielo che non prometteva nulla di buono, non poteva essere così male. Mi rimangiai, tuttavia, ogni buon proposito quando varcammo i cancelli dello zoo.
      Evidentemente, tutta New York aveva deciso che quella era la giornata ideale per andare a trovare gli animali. Tutto il mio buon umore fu sostituito dallo sconforto. Il freddo, una probabile bufera in arrivo e bambini. Molti bambini. Stupida gente senza nulla di meglio da fare. Ed io che mi univo alla loro idiozia! Una donna in ferie che passava una delle sue tre agognate settimane di riposo a svolgere un lavoro persino più impegnativo di quello di direttrice della sezione marketing di una rivista di moda.
      «Andiamo!» lo strillo di Lucy mi distolse dai miei piacevoli pensieri e, con lo sguardo di un Sherlock che veda Mycroft andare a fargli visita, m’incamminai insieme a lei lungo le gabbie di quei poveri esseri viventi rinchiusi in celle. Il mio palese disprezzo per quel posto non sembrava minimamente preoccupare la mia accompagnatrice, che saltellava da una gabbia all’altra, trascinandomi dietro senza pietà.
      Trovammo gli elefanti - quelle dolce creature tanto adorabili e cucciolose, a detta della creativa Lucy - solo un’ora più tardi. Avevamo vagabondato, mangiato schifezze, giocato con un gruppo di urlanti bambini e riposato - per due secondi, ma la buona volontà c’era - e, infine, eravamo giunte alla parte dello zoo che ospitava i benedetti elefanti. Avendo intuito, dal suo discorso di quella mattina, quanto desiderasse vederli, le avevo proposto di cercarli direttamente, senza farci distrarre da altro. Ma entrare in un posto del genere con lei era stato come guidare Sheldon verso una piscina piena di palline colorate.
      Un caos.
      «Guarda, Mya!» gridò Lucy entusiasta, indicandomi l’enorme animale che, probabilmente credeva, non avrei notato altrimenti. «Sono così grandi!»
      «Sì, tesoro, ho visto.» cercai di sorriderle. In fondo, mi dissi sospirando per l’ennesima volta, ne sembrava davvero felice ed il mio fine ultimo era quello di non farmi odiare da lei durante una settimana. E, per cinque giorni, ci ero riuscita alla grande. L’indomani sarebbero tornati i suoi genitori, quindi sarei stata nuovamente libera.
      Non era che odiassi i bambini. Anzi, solo pochi mesi prima li adoravo. Ma poi era accaduto qualcosa che aveva cambiato il mio modo di pensare all’intera faccenda. Insomma, non che un bambino mi avesse fatto un torto… per lo meno, non intenzionalmente… ma in fondo in fondo non riuscivo a togliermi di mente l’idea che fosse stato proprio così. Era un pensiero che mi faceva sempre sentire uno schifo. Non potevo certo dare la colpa a un bambino di qualcosa di cui non era responsabile! Nonostante me ne rendessi conto, però, il mio disagio nei loro confronti non diminuiva. Mi chiedevo, spesso, se sarei mai riuscita a superarlo completamente.
      In quel momento, diretta com’ero verso pensieri tristi e pericolosi, fui tirata per la mano da Lucy. La bambina mi trascinò a gran velocità verso un punto indefinito dello zoo, minando al mio già precario equilibrio. Non mi sentivo affatto bene, quella mattina. La sera prima saremmo dovute andare a letto prima…
      «Lucy, rallenta! Dove stai andando?» esclamai, articolando la frase a fatica. Lei, però, invece di rispondermi, aumentò il passo. Era sbalorditiva, la forza con cui mi trascinava quella bambina di pochi anni. Vidi che ci avvicinavamo ad una rampa di scale, ma ancora non mi era chiara la sua destinazione. Feci per fermarmi e trattenerla con maggior forza, ma improvvisamente sentii la mia testa girare pericolosamente e mi arrestai al posto, senza riuscire a fermare anche Lucy. La sua mano sfuggì alla presa della mia e la bambina, liberata così bruscamente da quel contatto, inciampò verso le scale. Il mio cuore fece un balzo, mentre la scena mi si parava davanti come a rallentatore.
      «Lucy!» la mia voce uscì strozzata e mi lanciai verso di lei. La testa continuava a girarmi, ma la paura mi spinse ad agire. Non sarei riuscita a raggiungerla in fretta, ma questo pensiero non arrivò che in seguito. Ovvero quando il volo di Lucy fu bruscamente interrotto e, invece di schiantarsi al suolo e ruzzolare per le scale, il suo corpicino rimase sospeso in aria. Ci misi un secondo di più per rendermi conto che la bambina non stava lievitando, ma che c’era qualcuno a sorreggerla.
      Senza riuscire a staccare gli occhi dal viso sorpreso e spaventato di Lucy, mi avvicinai in tutta fretta e la presi in braccio, abbracciandola.
      «Tesoro, stai bene?» domandai sottovoce, dandole un bacio fra i capelli. Mi stupii di me stessa e della mia preoccupazione, che stonava con quel fastidio di sottofondo che avevo provato durante tutta la settimana e solo pochi istanti prima al dovermi occupare di lei ventiquattr’ore al giorno.
      «Sì…» rispose lei, mentre mi stringeva a sua volta, probabilmente stupita quanto me per quella dimostrazione d’affetto. Certo, non mi aveva detestata durante quei giorni, ma le coccole non avevano mai fatto parte delle nostre giornate.
      Solo dopo che mi fui accertata che stesse davvero bene, più per lo spavento che per un danno fisico, alzai lo sguardo verso il suo salvatore per ringraziarlo. Non avevo degnato della minima attenzione quella persona che ci aveva probabilmente evitato una giornata all’ospedale ed una crisi isterica di Amy. Quando i miei occhi ne incontrarono un paio azzurri, però, trattenni il respiro.
      «Greg?!» domandai, con la voce di colpo stridula.
      «Emilia.» mi sorrise lui di rimando.
 
***
 
      «Greg!»
      «Emilia?»
      «Cosa…?!»
      «Greg, cosa diavolo ci fai qui?»
      «Cerco di coprirvi, è ovvio.»
      «Interrompendoci?!»
      David, sollevato sui gomiti per non pesarmi addosso, guardava il suo migliore amico con sguardo truce. Io stavo morendo di vergogna, talmente rossa da far concorrenza ai capelli firmati Weasley. Greg scrollò le spalle, appoggiandosi allo stipite della porta.
      «Stava per entrare Tammy, doveva prendere delle coperte. Avreste preferito che fosse stata lei a vedervi in queste condizioni?» disse con voce annoiata, gettandomi, però, un’occhiata ammiccante. Le mie guance andarono, se possibile, ancor più a fuoco.
      «Prendile e vattene.» ringhiò David. Greg alzò le mani in segno di resa e, ridendo, afferrò la pila di coperte da uno dei quattro letti della stanza. Poi tornò alla porta e, con un’ultima risata, spense la luce e ci lasciò di nuovo soli.
      «Dov’eravamo rimasti?» si rivolse a me David, tornando ad assumere l’espressione che aveva avuto pochi minuti prima. A me sembrò, però, che fosse forzata. La ‘magia’ del momento si era spezzata e lo spinsi di lato, alzandomi a sedere ed abbottonando la camicetta.
      «Non ne ho più voglia.» borbottai, facendo per scendere dal letto. Sentivo un improvviso peso al cuore, un disagio che poco prima non era lì. Le sue braccia, però, mi circondarono la vita e sentii il petto di David accostarsi alla mia schiena.
      «Dove stai andando?» sussurrò fra i miei capelli. Provai un brivido ed ebbi subito la tentazione di tornare sul letto insieme a lui, ma la sensazione d’inadeguatezza che mi aveva infuso l’entrata di Gregory si amplificò quando formulai quel pensiero. Scivolai via dalle braccia di David e, senza guardarlo, infilai i piedi nelle scarpe da ginnastica che avevo lasciato sul pavimento.
      «Fuori, dagli altri. Si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto.»
      Lo sentii sbuffare con un leggero fastidio nella voce, ma continuai a non guardarlo.
      «Cosa t’importa di cosa pensano loro? Forza, torna da me.»
      «No, non… voglio, ora.» Speravo capisse, dopotutto era…
      «D’accordo. Come Sua Maestà desidera.» sbottò, però, lui, facendomi voltare di scatto sorpresa per il tono. Lo vidi rimettersi la maglia e scendere a sua volta dal letto, per poi uscire in fretta dalla stanza senza nemmeno guardarmi.
      «Ma cosa…?!» mormorai, incapace di muovermi.
      Rimasi a fissare la porta con un’espressione da vera idiota, sentendo dentro una sensazione di vuoto. Cioè, okay, avevo fermato quell’attività tanto piacevole per lui, ma che bisogno c’era di comportarsi in quel modo?
      Stizzita, uscii a mia volta. Lo trovai già con gli altri, seduto accanto al fuoco. Non c’era posto accanto a lui, così mi sedetti dall’altro lato del falò, scura in volto. Lui mi ignorò completamente, cosa che non fece che aumentare la mia irritazione. Non era da lui, comportarsi così. Insomma, eravamo stati beccati dal suo migliore amico! Avrebbe dovuto darmi un po’ di tempo per farmi passare l’imbarazzo… no?
      Ero talmente assorta nei miei rabbiosi pensieri, che quando qualcosa mi sfiorò le spalle sussultai. Girandomi vidi Greg che mi copriva con una di quelle coperte che avevano segnato la fine del romantico appartamento di me e David.
      «Se non fossi sicuro di aver visto Luke accendere il fuoco, avrei scommesso che lo avessi fatto tu con lo sguardo.» ghignò, sedendomisi accanto. Io tornai a guardare le fiamme, grugnendo.
      «Quello doveva essere una risata?» mi chiese. Sentii il suo sguardo sul viso, ma non mi girai a fronteggiarlo.
      «No.» sputai, stringendomi la coperta addosso. Benché fosse una notte d’inizio di giugno e benché io fossi seduta davanti ad un fuoco, sentii un improvviso freddo.
      «Cosa c’è che non va?»
      «Nulla.»
      «Emilia, dài. Cos’è successo? Credevo di avervi dato altro tempo per… be’, continuare a fare quello che stavate facendo, non il contrario.»
      «Greg, non ne voglio parlare.»
      Gregory sospirò e si alzò, allontanandosi. A quell’ennesimo abbandono mi sentii improvvisamente svuotata dalla rabbia e riempita di tristezza, tanto che temetti di scoppiare a piangere. Non lo avrei fatto, non davanti a lui, ma gli occhi avevano già cominciato a pizzicarmi. Prima che avessi il tempo di pensare ad alzarmi ed a appartarmi da qualche parte per sfogare la mia frustrazione, però, Greg tornò, portando in mano due bicchieri di plastica ed una bottiglia contenente un sospettoso liquido trasparente.
      «Greg! Sei impazzito? Ti uccideranno, se lo scoprono.» sbottai, parlando sottovoce, senza tuttavia riuscire a nascondere un sorriso, mentre il mio umore di risollevava lievemente. Perché se c’era qualcosa di peggiore del rubare un’intera bottiglia di vodka al mio gruppo, questo era… no, nulla. Non c’era nulla di peggiore, l’avrebbero ucciso. Era come togliere Mrs Purr a Gazza.
      «Loro hanno già svuotato l’altra bottiglia, non ne vorranno dell’altra per un po’. E fino ad allora io e te ne avremo avuto abbastanza.» rispose lui, passandomi uno dei bicchieri. Versò un dito di vodka per entrambi e sollevò il proprio bicchiere.
      «A noi!» sussurrò, gettando un’occhiata circospetta intorno. Io mi trattenni dal ridere per non destare occhiate sospette dagli altri e lo imitai.
      «A noi.» dissi e bevvi tutto d’un sorso. Feci una smorfia quando il liquido scese lungo la mia gola, tossendo leggermente.
      «Cosa diavolo è, questo?» chiesi con voce strozzata, strabuzzando gli occhi. Era veleno quello, altro che vodka!
      «L’orgoglio di mio zio. Gliene ho rubato un po’, prima di venire qui. Forte, eh?»
      Scossi la testa, dandogli una gomitata.
      «La vodka normale non sarebbe stata abbastanza per te, eh? Sei un idiota.»
       «È per questo che mi ami.» ammiccò, versando il secondo giro.
   
 
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