Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    21/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Alfonso Este aveva pregato a lungo per un ritorno a Ferrara agevole e rapido, ma la pioggia scrosciante aveva deciso altrimenti, seguendolo fin dal momento in cui si era lasciato alle spalle le porte di Roma.

I suoi sedici anni lo rendevano irrequieto e indeciso su molte cose, ma almeno sulla ferma intenzione di non prendersi una polmonite sulla strada di casa non aveva mai avuto dubbi.

Per quanto la sua scorta avesse protestato, il giovane erede di Ercole Este aveva dichiarato che avrebbero passato qualche giorno alla corte di Forlì, presso sua cognata. Addusse mille scuse per quella decisione, mettendo in mostra tutta la sua giovanile timidezza, ma non volle sentire ragioni, quando provarono a dissuaderlo, mostrando già una fermezza degna di un uomo.

Presentatosi alle porte della città, si fece annunciare subito alla signora della città, che, gli venne riferito, era fortunosamente reperibile.

“Se non fosse stato per il brutto tempo – ridacchiò l'uomo che lo scortò in città fino alla residenza della Contessa, un certo Cardella, sedicente cancelliere di Stato – l'avreste di certo mancata. Sempre a caccia o in giro a far mercato...!”

Alfonso, che di quella cognata aveva sentito dire di tutto e di più, sorrise a quella descrizione, chiedendosi se mai quella donna sarebbe stata per lui più congeniale che non la timida, timorata e troppo attaccata ai libri Anna Maria.

Caterina, appena saputo della presenza in città del cognato, ordinò subito alle balie e alla domestiche di preparare adeguatamente i suoi figli, facendo loro indossare i vestiti migliori e facendoli poi schierare vicino all'ingresso della rocca.

Alfonso Este si presentò su un cavallo baio castagno, tutto bagnato dalla pioggia, seguito a ruota da una manciata di uomini in arme che rappresentavano la sua scorta. Alla vista di quel misero drappello, Caterina si chiese se il figlio di Ercole, signore di Ferrara, fosse in disgrazia presso il padre o se invece fosse semplicemente abbastanza ardito e sicuro di sé da accettare un simile viaggio con così poche guardie al seguito.

Il ragazzo, armato alla leggera come si conveniva per un viaggio come quello, passò al trotto sul ponte di Ravaldino e si arrestò appena davanti alla signora della città, inducendo il suo destriero a fare un piccolo inchino con il muso.

La bestia inclinò il collo e poi si scrollò un po', per levarsi la pioggia di dosso, mentre il suo cavaliere scendeva con grazia di sella.

“Mia signora – salutò Alfonso, avvicinandosi a Caterina, che attendeva accanto ai suoi figli, messi in ordine d'età, e a un piccolo gruppo di rappresentanti dello Stato, tra cui spiccava l'elegantissimo Giacomo Feo – carissima cognata.” rimarcò l'Este, esibendosi in un baciamano da manuale.

La Contessa accettò quel pomposo cerimoniale, approfittandone per squadrare con attenzione il viso del ragazzo. Le avevano riferito, a mezze parole, che il matrimonio tra Alfonso e Anna Maria per il momento non era idilliaco, sia perché lui era spesso assente, sia perché avevano continuo motivo di litigio nella passione nutrita dalla milanese per gli studi e le lettere.

L'ovale del volto di Alfonso era gentile e un po' allungato, i suoi occhi sembravano placidi e accomodanti, ma Caterina notò una luce inconfondibile nelle sue iridi scure, quando lo vide sorridere.

Lo avevano descritto tutti come un grande cacciatore, un abile spadaccino e un infaticabile cavallerizzo, tutte doti ottime per un guerriero, ma non sufficienti per il futuro signore di una città.

La sua ignoranza, così si vociferava, aveva il potere di far dimenticare a tutti la sua prontezza con le armi.

Per esperienza Caterina sapeva che credere troppo alle voci non era una mossa saggia, per cui si ripromise di indagare con attenzione le carenze del giovane, nei giorni a venire.

Mentre Alfonso Este si presentava alla Contessa e ne lodava la bellezza in modo tanto aperto da risultare quasi volgare, Giacomo Feo aspettava nelle retrovie con impazienza. Non gli piaceva quel signorotto tronfio e ben vestito che si era presentato all'improvviso senza nemmeno farsi anticipare da una lettera in cui chiedeva umilmente ospitalità. Si era fatto forte di un legame di parentela e si era semplicemente presentato, così, senza il minimo stile.

“Organizzeremo un banchetto in vostro onore, domani sera.” promise Caterina: “Purtroppo la nostra è una corte piccola e temo che i nostri cuochi non sarebbero in grado di onorarvi degnamente già stasera.”

Alfonso alzò le labbra in un sorriso accattivante: “Sarà un piacere aspettare che arrivi la sera di domani, dunque.”

La Contessa presentò gli uomini che le stavano alle spalle, da Luffo Numai e Giacomo. Tutti loro chinarono il capo ad Alfonso, che ricambiò quel gesto dedicando un sorriso e uno svolazzo della mano a ciascuno.

Caterina, allora, passò a presentargli nel dettaglio i suoi figli, partendo da Ottaviano, che dedicò allo zio acquisito un saluto un po' stentato e decisamente troppo secco. Chiuse Sforzino, che coi suoi cinque anni risultò comunque più avvezzo a quel genere di cose rispetto al fratello maggiore.

Caterina, poi, mettendo in atto tutte le sua abilità diplomatiche, chiese con cautela come stesse Anna Maria e Alfonso poté rispondere in modo altrettanto cauto con qualche frase di rito con cui, in realtà, non diceva assolutamente nulla.

Giacomo assisteva al siparietto tenendo la mani lungo i fianchi, resistendo all'impulso di stringere i pugni per calmarsi. Non capiva cosa lo stesse infastidendo di più, se il modo cordiale in cui Caterina accoglieva quell'ospite improvvisato o il modo in cui i due sembravano capirsi al volo. Entrambi sapevano cosa dire e come dirlo, quali argomenti toccare e quali lasciar perdere. Vedere di persona quanto Caterina fosse una donna d'alto rango, avvezza a trattare coi suoi pari, faceva soffrire Giacomo più del previsto.

Finché, infatti, la osservava discorrere coi nobili di Forlì o coi soldati, la poteva riconoscere appieno. Anche se magari usava un tono più fermo o parole più complicate, era sempre lei. Invece ora che parlava con Alfonso Este, stava mostrando il suo volto pubblico, quello che probabilmente aveva sfruttato alla corte romana e che avrebbe sempre usato con i grandi signori d'Italia.

Giacomo non sarebbe mai riuscito a fare come lei. Lui non era nato nobile e certe cose non le avrebbe mai capite. Quella distanza, ora così evidente, gli stava aprendo una voragine nel petto.

“E per il banchetto di domani sera...” soggiunse Alfonso, con un alzata apparentemente casuale di sopracciglia, dopo che Caterina lo ebbe pregato di fermarsi alla rocca piuttosto che in paese: “Che ne direste di fornire un po' di cacciagione fresca ai vostri cuochi?”

La Contessa sorrise di rimando e concordò: “Ho sentito che siete un ottimo cacciatore. Potremmo uscire domani all'alba.”

Alfonso annuì: “Non aspettavo di meglio.”

Dopodiché Caterina indicò al ferrarese e ai suoi dove potevano lasciare i cavalli e quali servi seguire per raggiungere i loro alloggi temporanei.

Mentre i piccoli Riario ritornavano ai loro impegni quotidiani, Giacomo raggiunse la moglie e le sussurrò, con una certa acidità: “Immagino che io non sia invitato alla battuta di domani.”

Caterina si accigliò, sorpresa da quelle parole e soprattutto da quel tono, e ribatté: “Non saprei. Saresti in grado di prendere almeno una beccaccia, per non sfigurare davanti al nostro ospite?”

Giacomo strinse il morso e, prendendo una direzione opposto a quella della Contessa, si congedò controllando la propria rabbia dicendo semplicemente: “Hai ragione tu, come sempre.”

 

Piero Medici aspettava con ansia di essere ammesso alla presenza di Alessandro VI. Trovava inammissibile l'attesa a cui era stato obbligato, ma non aveva avuto la prontezza di lamentarsene subito con le guardie che l'avevano segregato in quella saletta, dunque ormai gli sembrava inutile, se non addirittura poco saggio, alzare la voce.

E poi assieme a lui c'era il resto dell'ambasciata partita da Firenze, quindi doveva stare molto attento a come si comportava. Gentile Becchi, Pierfelice Pandolfini, Tommaso Minerbetti e Francesco Valori non avrebbero pensato un attimo a sparlare di lui, se avesse commesso qualche passo falso alla corte del papa.

Puccio Pucci, poi, era un grandissimo pettegolo. Le lettere che partivano dalle sue stanze erano innumerevoli e molto sostanziose. Piero non aveva mai avuto modo di appurare di persona cosa scrivesse ai suoi corrispondenti, ma poteva ben immaginare quanto le chiacchiere sulla vita privata sua e della sua famiglia fossero tra i punti principali dei suoi lunghi e dettagliati discorsi!

Così, mentre stava fermo in un angolo della stanza, occhieggiava alla finestra, scrutando il panorama reso incerto dalla pioggia scrosciante, senza dar segno di impazienza o nervosismo.

Roma gli era parsa fin dalla prima occhiata una città buia e oscurantista, in aperto contrasto con la magnificenza delle dimore papali, che si erano aperte ai suoi occhi come una pietra preziosa di oro e argento.

Passando tra gli alti palazzi della città, Piero aveva detestato la pioggia gelida che gli aveva inzuppato gli abiti e si era quasi sorpreso, una volta all'asciutto, di scoprire gli incartamenti che aveva portato con sé ancora intonsi.

“Sua Santità vi vuole ricevere.” annunciò uno dei cerimonieri, permettendo finalmente ai fiorentini di raggiungere la sala delle udienze.

Rodrigo Borja lasciò che gli uomini appena giunti gli baciassero anello e piede ed esprimessero tutta la loro gioia nel vederlo seduto sullo scranno papale.

Solo terminati quei convenevoli, il papa si rivolse direttamente a Piero: “Sono lieto di vedervi, finalmente.” sottolineò l'ultima parola in modo molto significativo.

Aveva ricevuto visite da ogni angolo d'Italia, ormai e, se poteva scusare quelli più lontani, non poteva certo credere che ai fiorentini fossero serviti tre mesi per raggiungere Roma.

“Come sta vostra moglie, Alfonsina, perla della famiglia Orsini?” domandò Alessandro VI, fingendosi sinceramente preoccupato: “Ho sentito dire che la nascita del vostro secondo figlio l'ha provata molto.”

Piero, gli occhi fissi al tappeto rosso sotto ai suoi piedi, annuì, ma rassicurò il pontefice circa la salute della sua consorte.

“Molto bene, molto bene...” fece Rodrigo, mentre con un cenno chiedeva ai servi di portargli qualcosa da bere: “Spero che stia in salute, soprattutto ora che vostro zio, Virginio, dimostra certe simpatie...”

Piero Medici comprese bene cosa il papa intendesse dire. Si riferiva al fatto che Virginio Orsini, fratello della sua defunta madre, Clarice, aveva perpetrato il suo appoggio ai Della Rovere anche dopo l'elezione di Alessandro VI, schierandosi sempre più apertamente in favore di Napoli.

“Mio zio non ha nulla a che vedere con Firenze.” si schermì il Fatuo, scuotendo appena il capo, mentre il solito tintinnare di monili accompagnava ogni suo gesto.

Alessandro VI allargò le braccia in modo plateale e accettò il calice che il servo gli stava porgendo: “Come dite voi.” bevve un sorso: “Scusate, ma le udienze di oggi mi hanno prostrato. Vorrete tornare domani per parlare in modo più disteso?”

Puccio Pucci guardò il suo signore di traverso, aspettandosi che il figlio del Magnifico si imponesse, dopo la lunghissima attesa a cui erano stati costretti, e rifiutasse quell'ennesima dilazione.

Il Fatuo, invece, si morse il labbro e poi accondiscese: “Certo, Vostra Santità.”

Mentre i fiorentini lasciavano la camera con espressioni cupe in viso, Rodrigo si accigliò e pensò a come liberarsi in fretta e bene di quegli scomodi ospiti. Non gli era sfuggito l'incartamento che spuntava dalla bisaccia di cuoio del Fatuo. Di sicuro quell'imbranato voleva proporgli qualcosa. Chissà, magari un matrimonio per unire le loro famiglie o qualche concessione speciale. Ebbene, era un illuso. Rodrigo non sarebbe sceso a patti con qualcuno che sosteneva Giuliano Della Rovere e che appoggiava gli Orsini nella loro testarda opposizione.

Alessandro VI attese che le porte si richiudessero dietro le spalle del signore di Firenze e poi disse al cerimoniere: “Fate entrare il prossimo.”

Questi, un po' sorpreso, fu a un passo dal notare come il papa avesse appena detto al fiorentino che per quel giorno le udienze erano chiuse, ma si ricordò subito di essere solo un sottoposto e così eseguì l'ordine senza azzardarsi a dire nulla.

Piero Medici vide con la coda dell'occhio una nuova ambasceria entrare nella sala delle udienze e gli fu chiaro quanto Alessandro VI fosse stato con lui falso e arrogante.

Quando Puccio Pucci lo fissò con biasimo, Piero si difese subito: “Meglio anche per noi che si parli domani in tranquillità. Si hanno molte cose da dire, a questo papa...”

Ma come sempre, chi più si difende, più sembra colpevole e così anche quella volta le parole del Fatuo lo misero ancor più in ridicolo, e quelli che lo accompagnavano non poterono fare altro che scambiarsi occhiate sconsolate e deluse.

 

I cacciatori erano usciti da Ravaldino molto prima che sorgesse il sole. Quel giorno non pioveva, ma una nebbia fitta e densa rendeva quasi impossibile vedere al di là del proprio naso.

Giacomo aveva espresso la sua preoccupazione, mentre aiutava la moglie a preparare il suo cavallo, dicendole che quel clima non era affatto adatto alla caccia e che sarebbe stato troppo pericoloso addentrarsi nei boschi con quella foschia.

Caterina aveva minimizzato, esaltata all'idea di una battuta di caccia assieme a qualcuno che sapeva il fatto suo. Ricordava con malinconia le uscite assieme a suo padre e ai cacciatori pavesi e da anni sperava in un'occasione come quella. Era curiosa e speranzosa nei confronti di Alfonso Este ed era ancor più felice di poterlo vedere all'opera con quel clima impietoso per i cacciatori.

Quando l'Este era arrivato con un paio dei suoi nelle stalle, Giacomo aveva subito smesso di parlare, conscio del fatto che nemmeno un cognato doveva sapere che tra lui e Caterina c'era davvero un legame, e si era rassegnato a passare la mattina in spasmodica attesa del ritorno della moglie.

Alfonso, splendido nella sua veste da caccia, su cui risaltava lo stessa della sua famiglia, un'aquila argentata in campo azzurro, squadrò il Governatore Generale, chiedendosi che mai ci facesse nelle stalle, dato che non sarebbe stato presente alla battuta.

“Avete deciso di unirvi a noi nella caccia?” chiese il ferrarese, indirizzandosi a Giacomo, che stava stringendo i finimenti al cavallo di Caterina.

Questi ci mise un po' a capire che il sedicenne si stava rivolgendo proprio a lui. Quando se ne avvide, sospirò e scosse il capo.

“Al Governatore non piace molto, la caccia.” rispose la Contessa, temendo che il marito potesse dire qualcosa di sbagliato.

“Ma vedo che se intende di finimenti e selle.” commentò Alfonso, senza intento derisorio, solo per non far morire la conversazione: “Avete una passione per i cavalli?”

Caterina aprì la bocca, per anticipare Giacomo, ma egli fu più rapido di lei nel rispondere: “Sono stato uno stalliere per un po'.”

Alfonso parve sorpreso: “Da stalliere a Governatore Generale?” guardò perplesso Caterina e poi di nuovo Giacomo e notò tra loro una certa tensione: “Ebbene...” riprese, per sviare un po' l'attenzione di entrambi: “Mi hanno detto che siete anche cavaliere, dunque avete fatto carriera in fretta. Bravo.”

Giacomo ringraziò con un cenno del capo e poi lasciò le stalle senza nemmeno salutare.

Una volta nel bosco, Caterina ripensava ancora a quel siparietto assurdo. Per fortuna Alfonso Este sembrava non avervi dato troppo peso, già catturato dall'euforia della caccia.

Non appena avevano imboccato il sentiero che portava verso le prime querce, i cacciatori aveva concordato sul fatto che fosse meglio dividersi un po'. Con quella nebbia gli animali avrebbero fatto più fatica ad accorgersi di loro, ma se fossero arrivati in mucchio, quel vantaggio sarebbe andato subito perso.

Caterina, pur volendo vedere all'opera Alfonso, si era ritrovata da sola in mezzo alla nebbia, senza avere più tracce degli altri, già dopo i primi metri.

L'aria fredda di quell'alba le entrava nelle ossa e il sapore pensate della nebbia le si spandeva nel naso e sulle labbra, riportandola a una realtà che le era appartenuta da bambina.

La malattia l'aveva lasciata un po' più debole, ma mentre convinceva il suo cavallo a proseguire tra gli alberi a passo lento e accorto, si sentiva di nuovo forte e sicura. Stringeva in mano la lancia, non l'arma migliore per la caccia che si aspettava, ma non era ancora in vena di prendere la spada.

L'arco, con quella visibilità, era improponibile. Il rischio di prendere per sbaglio un altro dei cacciatori era troppo alto.

Arrivata a una quercia che conosceva bene, Caterina scese da cavallo e legò l'animale al tronco. Gli sussurrò qualche parola, per convincerlo a stare tranquillo e poi si addentrò ancora di più nel fumoso grigiore di quel novembre.

Forse aveva ragione Giacomo: una battuta del genere era un azzardo. Se era vero che gli animali avrebbe fatto fatica a vedere i cacciatori, era altrettanto vero che i cacciatori avrebbero fatto fatica a vedere gli animali.

Nel silenzio quasi assoluto del bosco, Caterina sentì il fremito di un essere vivente alle sue spalle. Il rumore di foglie secche pestate e lo spostamento d'aria improvviso di qualcosa o qualcuno che parte in corsa. Anzi, che parte alla carica.

Il tempo di girare il viso verso la fonte del rumore e una macchia scura, grossa e minacciosa, le fu addosso.

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas