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Autore: futacookies    21/08/2016    4 recensioni
{Longfic • Duncan/Courtney • accenni Trent/Gwen e Alejandro/Heather • commedia romantica}
Duncan Nelson, scapestrata rockstar, nota al pubblico e ai paparazzi per l'eccesso con cui conduce la propria esistenza, viene citato in causa dal direttore dell'Ottawa Royal Palace, di cui - si dice - avrebbe distrutto numerose stanze durante la propria permanenza.
Al suo agente non resta che rivolgersi allo studio legale Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen, per cui toccherà alla sua storica ex, Courtney, tirarlo fuori dai guai.
Dal capitolo 5:
Ma la voleva davvero, la sua attenzione? Oppure era unicamente uno stupido capriccio, l’ombra semisvanita di quello che una volta era stata, con lui? Non lo sapeva, ed era terrorizzata dall’idea di scoprirlo – non ci sarebbe ricascata in alcun modo, le ci erano voluti anni per liberarsi completamente di lui e adesso, che ci era finalmente riuscita, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggersi.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Heather, Trent | Coppie: Alejandro/Heather, Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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NdA: Salve a tutti! Prima di lasciarvi al capitolo, volevo sinceramente ringraziare coloro che hanno letto/recensito/messo tra le preferite/ricordate/seguite la mia storia, perché mi sono davvero sentita motivata a continuare a scrivere, e considerando che vengo da un periodo di crisi d’ispirazione, per me è stato importantissimo!
Fede ♥
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«Summer I was fearless.»
 
  • Capitolo II
 
«Era proprio necessario?», domandò Courtney a Heather, mentre la faceva accomodare sulla poltroncina di fronte alla sua.
L’altra emise un versetto di superiorità e cambiò argomento – quasi –: «Duncan? Davvero?», chiese, e con quel “davvero” Courtney pensò che le stesse implicitamente dicendo che fosse davvero caduta in basso – be’, lei era caduta in basso. Non disponibile però a cederle tanto facilmente la vittoria, le rispose per le rime: «Il divorzio? Di nuovo
Heather roteò gli occhi e tacque, segno che le aveva concesso il punto – Heather 1, Courtney 1.
Poi entrambe si guardarono e scoppiarono a ridere – Courtney abbandonò il suo posto dietro la scrivania e si sedette accanto a lei. Dopo tutto, si conoscevano da molto tempo, col passare degli anni la rivalità tra loro era scemata ed erano quasi diventate amiche. Quasi.
«Allora», cominciò Heather, ridendo sotto i baffi, «quali sono le cose importantissime per il nostro caso di cui dobbiamo discutere
«Dimmelo tu, quasi signorina Wilson!», disse Courtney scimmiottandola.
Avendo notato l’immediato incupimento di Heather, comprese che Alejandro doveva aver fatto qualcosa – qualcos’altro, s’intende. Sospirando, si alzò e le mise in braccio un cestino, passandole di volta in volta fogli inutilizzabili che venivano prontamente fatti a pezzetti.
«Quel viscido, subdolo, maledetto idiota! Lo sapevo, io, che sarebbe dovuto restare in quel robot, che sarebbe stato meglio per tutti – sarebbe stato meglio per me! – se non fosse mai riuscito ad uscire!».
Courtney non le rispose e si limitò a passarle un altro foglio – fortuna che la carta andava buttata proprio quel giorno.
«Ha provato a scusarsi, se sai cosa intendo. Un biglietto scritto distrattamente e una scatola di cioccolatini possono funzionare una volta – forse due, in caso di moglie particolarmente saggia e accondiscendente», qui il suo tono cambiò, tanto per far notare che lei era una moglie saggia e accondiscendente, «ma non tre!», sentenziò infine.
Altro foglio. «Questo è lo spirito!», commentò Courtney. Altro foglio.
In realtà, Courtney sapeva che non avrebbero divorziato nemmeno in quell’occasione – la prima volta, Alejandro l’aveva trascinata in tribunale accusandola di trascurarlo eccessivamente. La seconda, ci erano andati insieme eppure non avevano combinato nulla. Si chiedeva perché la terza dovesse essere quella buona.
«Quell’essere…», si fermò. Altro foglio. «Quell’essere me la pagherà cara, se crede di potermi trattare così! Oh, ma io gliela farò pagare, oppure non mi chiamo più Heather Wilson!»
«In realtà», cominciò Courtney titubante, «sarebbe Heather Burromuerto.»
«Mh.», sbuffò l’altra.
Male. Molto male. Iniziava sempre così.
«Heather…», la richiamò Courtney con tono di rimprovero.
«Sì?», le rispose acidamente.
«Non hai mangiato i cioccolatini, vero?», chiese con aria di minaccia.
«No!», disse immediatamente l’altra. Poi arrossì. «Forse.», si corresse, tentando di nascondere la propria colpevolezza. Courtney le lanciò un’occhiataccia. «Che c’è?», sbottò l’altra. «Sarà pure un viscido, subdolo, maledetto idiota, ma conosce bene i miei gusti.»
Ah, be’, ecco l’inizio della fine.
A quel punto avrebbe dovuto mandarla fuori a calci, chiamare il giudice e dirgli che la sua assistita ritirava la richiesta di separazione – ma era passata solo mezz’ora e aveva bisogno di trattenerla fino alle dodici e trenta. Un’ora intera. Represse il desiderio di passarsi una mano sul volto e provò a salvare il salvabile.
«Niente più cioccolatini!», affermò con decisione. Allo sguardo ironico di Heather, decise di passare alle maniere forti. «Secondo me te li ha mandati solo per poterti rinfacciare che sei ingrassata…», buttò lì, spiando con la coda dell’occhio la sua reazione.
Da lì in poi dovette semplicemente assistere a una crisi isterica di quelle forti: le passò tutti i fogli che le restavano, ascoltò cose irripetibili e si sentì quasi in colpa per quello che avrebbe dovuto passare Alejandro la prossima volta che avrebbe incontrato sua moglie.
«Oh, ma glieli manderò io i cioccolatini, al cianuro però!», pronunciando quella frase Heather strillò così forte che Edward Fleckman ebbe il coraggio di bussare e chiedere se andasse tutto bene.
«Oh», rispose Courtney piazzandosi di fronte allo spiraglio della porta appena aperta per impedirgli di scorgere quanto accedeva nella stanza, «niente che non si possa risolvere con un po’ di camomilla…»
«Perfetto, perfetto!», esclamò lui, cercando disperatamente di aprire un po’ di più la porta, «perché allora mentre io mi occupo della signora Wilson…» – fu interrotto da Heather, che sbraitò: «Quasi signorina!» – «Be’, sì, quello. Dicevo, mentre io mi occupo della situazione, perché tu non accogli finalmente i nostri clienti?»
Lei gli rivolse uno sguardo scocciato.
«Il signor Nelson minaccia di andare in un altro studio!», aggiunse sottovoce, come se fosse una cosa della gravità assoluta. Courtney si sporse oltre la spalla di Edward per guardare Duncan e lo sorprese a fissarla con espressione accigliata – il solo fatto che la fissasse, con qualunque espressione, la metteva a disagio – e gli rispose con una smorfia. Poi sfoderò un gran sorriso e disse a Fleckman: «Non lo farà.»
E gli chiuse la porta in faccia.
Nel frattempo Heather si era calmata e la guardò con curiosità, come se non riuscisse a capire cosa le stesse dando tanto fastidio – quando il suo volto si distese in un ghigno divertito, capì che aveva collegato tutto a Duncan.
«È quasi ora di pranzo.», disse a Courtney, «suppongo che dovrei andarmene per lasciarti lavorare…»
«Ma?»
«Ma chiaramente l’idea di dover parlare con Duncan ti scombussola e non sei psicologicamente pronta, in più l’idea di farlo aspettare ancora un’ora è così crudelmente deliziosa che non posso fare a meno di darti una mano!»
Si scambiarono un sorriso complice e attesero i cinque minuti che le separavano dalla pausa pranzo, poi presero i cappotti e uscirono.
«Finalmente!», ruggì Duncan, furioso. «Aspetto da un’ora e mezza che finiate di confabulare e strillare e qualunque altra cosa abbiate fatto lì dentro!» aggiunse, indicando la porta del suo ufficio per enfatizzare la propria affermazione – era proprio incazzato nero, che bellezza!
«Be’, quando finalmente ti riceverò nel mio studio, avrai aspettato due ore e mezza.»
Duncan la guardò confuso.
«I diritti sindacali, scemo!», esclamò Heather. Poi, vedendo che continuava a non recepire il messaggio, aggiunse con una smorfia: «La pausa pranzo.»
E Duncan capì – e si fece tutto rosso e cominciò a sbraitare che no, non ci sarebbe stata nessuna pausa pranzo perché lui quella mattina aveva a stento fatto colazione e aveva rinunciato alla sua vacanza e aggiunse qualcosa sulle vecchiette sorde. E poi riprese a fare scenate chiedendo dove fossero i suoi di diritti sindacali. Courtney fece spallucce e gli propose di andarli a cercare.
In quel momento John Smith ritenne che fosse il caso di proporre una soluzione pacificatrice: «E se andassimo a pranzo insieme?»
Heather accolse la sua idea con un’altra smorfia e un verso scocciato: «Certo», disse ironicamente, «pochi giorni fa ha aperto un ristorante thai all’angolo della strada.», intanto erano entrambe quasi in ascensore.
Duncan rabbrividì al solo pensiero e disse tra i denti al suo agente: «Non se ne parla.»
«Perfetto!», dichiarò Courtney, premendo il pulsante del piano terra.
«Ma…», protestò l’agente debolmente. Heather gli sorrise e gli fece l’occhiolino.
L’ultima cosa che le due videro prima che si chiudessero le ante fu John Smith diventare rosso come un peperone, poi si diedero il cinque.
 
***
 
«Non hai idea di quello che è successo, Gwen!», disse Courtney, quasi sottovoce per evitare di disturbare gli altri clienti del ristorante. Heather continuava a ridere sottecchi mentre sfogliava il menù.
Cominciò a raccontarle tutto quello che era successo quella mattina, dai ruffiani complimenti di Fleckman, alla settimana in più di vacanze, al lunedì libero e alla gloria, al ritardo di Duncan, a come lo avesse lasciato aspettare per un’ora e mezza o dueuna parte di lei desiderava fortemente di non trovarlo al ritorno. Un’altra però era consapevole che lui avesse preso sul personale la lunghissima attesa che gli aveva imposto e sapeva che probabilmente l’avrebbe trovato il mattino dopo se lo avesse lasciato aspettare tutta la notte.
«Be’», commentò Gwen dall’altro lato della cornetta, «è inaspettato. Potrebbero succedere delle cose divertenti!», aggiunse.
«Mh…», borbottò, «potrei appenderlo alla finestra e lasciarlo lì. Quello sarebbe divertente.»
Vide Heather voltarsi quasi completamente per evitare di riderle in faccia.
«Scusa un attimo, Gwen.», coprì il microfono per impedirle di sentire, e sussurrò stizzita all’altra: «Che ci trovi da ridere?»
Tutto ciò che ebbe in risposta fu un gesto della mano che sembrava voler scacciare via un moscerino – o le sue parole.
Alzò gli occhi al cielo e tornò a parlare con Gwen, che si dilungò con varie battutine – Courtney sapeva che si era resa conto della situazione, e che stava ironizzando semplicemente per non fargliela pesare inutilmente.
«Ah!», esclamò l’amica infine, «potresti mandare un messaggio a Trent, per invitarlo a cena stasera? Io lo farei, ma ho esaurito la promozione…»
«…e dato che è il tuo giorno libero non uscirai e non potrai riattivarla.», terminò al posto suo con un sorriso, poi chiese: «Chiamarlo no, eh?»
«Non vorrei disturbarlo, è così impegnato con le prove…», si giustificò in un sussurro.
Heather scosse la testa e sillabò la parola “approfittatrice”. Courtney la ignorò.
«Non preoccuparti, ci penso io.»
Si salutarono affettuosamente e terminarono la conversazione.
Per il resto del pranzo lei e Heather non toccarono più l’argomento Duncan, tantomeno quello Alejandro, limitando di molto il dialogo – finirono col parlare di smalti e rossetti, come due adolescenti.
 
***
 
Duncan, seduto sui comodi divani d’attesa all’ingresso dello studio legale, non trovava pace. Avrebbe dovuto andarsene, cercare un avvocato che volesse davvero aiutarlo e tirarlo fuori dai guai, e non accontentarsi di quella stronza psicopatica che probabilmente avrebbe preso accordi con l’accusa per assicurarsi che ricevesse la pena massima – che poi, avrebbe passato dentro un paio di mesi, al massimo.
Si sarebbe aspettato che desse di matto per l’irragionevole ritardo con cui si erano presentati – irragionevole, ma mica tanto – invece era già passata a sciocche ripicche infantili, appoggiata da Heather. Represse un brivido. Se quella schizzata gli avesse permesso di spiegarsi, di certo non avrebbe reagito così. Forse. Comunque aveva deciso che non gliel’avrebbe data vinta e non si sarebbe piegato al suo gioco. Se era convinta che avrebbe aspettato il suo ritorno come un cucciolo bastonato, be’, aveva sbagliato i suoi calcoli.
«Fleckman, quando finisce la pausa pranzo della paz… di Courtney?», gli chiese. Edward Fleckman, quello strano tipo che non aveva potuto accettare il caso pur avendo un sacco di tempo da perdere, si sporse dal suo ufficio e fece spallucce. «Possiamo chiamarla», propose. Duncan annuì e guardò di soppiatto John, che sonnecchiava su una delle poltroncine.
«Courtney? Sì, ciao. Senti, tra quando dovresti tornare? Tra mezz’ora? Bene!», fece segno a Duncan che cominciò a ridacchiare. «Come? Perché lo voglio sapere?», Fleckman fece una pausa e cominciò a guardarsi intorno in cerca di una scusa. «Sai, curiosità… non vorrei che i tuoi clienti aspettassero troppo…», altra pausa. Sguardo imbarazzato. «Il signor Nelson? No, non ha niente in mente…», altra pausa, durante la quale Duncan sentì soltanto urla sconnesse. «Sì, sì, ho capito, glielo dirò. Non c’è bisogno che strilli così!», ennesima pausa, altre urla sconnesse. «Certo che sono dalla tua parte!», Duncan rise, «No, Courtney, quello non era il signor Nelson che rideva. Va bene, sì, va bene. Ho detto che ho capito! Sì, a dopo, ciao.»
Quando quella telefonata terminò, Edward tentò di ricomporsi e di non sembrare una povera bestiolina maltratta.
«Courtney mi ha gentilmente chiesto di dirle che se non la troverà qui nell’esatto momento in cui tornerà dalla pausa pranzo la appenderà davvero alla finestra – aveva mai minacciato di appenderla alla finestra? – e la lascerà lì finché le sue mutande non cederanno e le faranno fare un imbarazzante e probabilmente mortale volo dal ventiduesimo piano. Ha anche aggiunto che nel fortunato caso in cui dovesse sopravvivere dovrà trovarsi un avvocato migliore di lei.»
Duncan rise sarcasticamente. «Ha detto proprio così?», chiese.
«Quasi.», rispose Fleckman.
Fece spallucce e disse di controllare di tanto in tanto il suo agente, e, nel caso in cui si fosse svegliato, di impedirgli di andarlo a cercare. Poi si voltò e se ne andò.
Ovviamente, sarebbe tornato prima che Courtney o John potessero anche solo sospettare della sua momentanea fuga – avrebbe cercato il McDonald’s più vicino, avrebbe fatto il bagno di folla salutato e ammirato dai suoi fan, avrebbe creato un po’ di problemi ai giornalisti e sarebbe tornato all’ovile felice e contento. E magari sarebbe riuscito a sopportare quella donna folle.
In quell’occasione, nonostante gli avvertimenti di John di non farsi scoprire da nessuno, non cercò nemmeno di nascondersi – così i primi fan lo riconobbero appena uscì dal palazzo, ma nessuno si chiese perché fosse lì. Poi il loro schiamazzo attirò quanta più gente possibile e si creò uno strano corteo che lo accompagnò fino alla sua destinazione.
Erano quelle le piccole gioie della vita – incontrare gente che ti venerava, divertirsi alle spalle del proprio agente, riuscire ad ingannare il proprio avvocato. Anche se avrebbe preferito di gran lunga un qualunque avvocato diverso da Courtney, nonostante quel Fleckman l’avesse dipinta come quanto di meglio si potesse trovare. Era sicuro che da quella collaborazione non sarebbe nato nulla di buono – era anche abbastanza sicuro che lo avrebbe costretto a vivere chiuso in casa, se mai fosse riuscito a tornarci, e che avrebbe trovato centinaia di modi diversi per fargli pesare la prigionia. Perciò si godeva quell’ultima mezz’ora di libertà, pur contando i minuti che passavano – perché non avrebbe mai concesso a Courtney l’opportunità di rinfacciargli qualcos’altro.
Sarebbe stato un braccio di ferro continuo con lei, già lo sapeva: lo avrebbe esasperato e lo avrebbe fatto impazzire con quella sua irritabilità e la mania di strillare – certe cose non sarebbero mai cambiate. Si chiese quante altre cose di lei non fossero cambiate in quegli anni e si rese conto che ormai erano meno che estranei – eppure non ci avevano messo molto a trattarsi con la confidenza che avevano un tempo. Per la prima volta in quella giornata, Duncan ebbe paura di quello che sarebbe potuto succedere durante quella collaborazione. Poi ignorò quella sensazione e si dedicò al suo triplo cheeseburger, mentre il locale si riempiva di curiosi e all’esterno si sentiva un vociare frastornante.
Poi sentì il rumore delle macchine fotografiche e capì che la situazione era diventata potenzialmente rischiosa: si guardò intorno cercando un’altra uscita, ma appena alzò gli occhi si ritrovò circondato da fan che lo osservavano e realizzò di essere stato fregato dal suo stesso gioco. In fondo, però, era abituato a gestire i paparazzi, quindi cosa sarebbe potuto andare storto?
 
***
 
Quell’idiota, quello stupido! Gli aveva detto che non avrebbe dovuto lasciare l’edificio – in realtà lo aveva minacciato di farsi trovare nello studio nel momento in cui lei fosse tornata, ma il succo era quello. Invece non solo era uscito, non solo aveva attirato l’attenzione di qualunque essere umano nell’isolato, non solo aveva fatto accorrere i paparazzi, ma le aveva anche rubato l’ascensore. Come se non bastasse, le aveva pure fatto una boccaccia. Gliele avrebbe cantate non appena lo avesse raggiunto e gliene avrebbe dette così tante che l’avrebbe ridotto in totale obbedienza fino alla fine di quel caso.
Quando mise piede nell’ingresso fu certa che tutti avessero percepito la sua ira – Edward si rintanò nel suo ufficio, Lizzie corse dietro la sua scrivania, John Smith scattò in piedi come un soldatino. Duncan invece le rivolse uno sguardo strafottente e fece spallucce.
«Tu!», esclamò, indicandolo e marciando verso lui come una valchiria. Lo afferrò per la collottola e lo trascinò nel suo ufficio buttandolo dentro con la malagrazia, mentre lui borbottava che fosse una reazione esagerata. Gli lanciò uno sguardo al vetriolo e si rivolse al suo agente. «Signor Smith! Qui. Adesso.»
Il poveretto si alzò e corse a sedersi su una delle poltrone di fronte alla scrivania di Courtney – almeno, pensò lei, qualcuno che ubbidiva c’era.
Dopo che si richiuse la porta alle spalle con un tonfo li guardò minacciosamente – se Duncan pensava di potersi comportare come quando erano adolescenti e lei era disposta a perdonargli tutto, be’, si sbagliava. Non avrebbe ceduto tanto facilmente, anzi, non avrebbe ceduto affatto.
Poi iniziò a parlare: «Considerando che fossi disposta a perdonare il vostro ritardo…», scandì lentamente per aggiungere maggiore pathos al discorso che stava prendendo forma nella sua mente, ma fu interrotta da Duncan.
«Cosa che non avresti fatto.», le rivolse un altro sorriso strafottente e lei dovette reprimere a tutti i costi il desiderio di ucciderlo a mani nude – o anche solo di schiaffeggiarlo –, perché mostrarsi tanto irritabile al primo incontro non avrebbe affatto giovato alla sua reputazione di super avvocato preciso e affidabile. Alzò gli occhi al cielo – per l’ennesima volta in quella allucinante giornata – e disse tra i denti qualcosa che suonò molto come “sì, va bene, come dici tu”.
«Ciò non toglie», riprese irritata dopo aver raggiunto il suo posto, «che l’essere uscito nonostante te l’avessi categoricamente vietato non sia stata una buona idea.»
Al che tra loro cominciò una violenta discussione su fatto che lei non fosse nessuno per dargli ordini e sul fatto che lui non dovesse in alcun modo mancare di rispetto alla sua autorità. Courtney sapeva che di lì a poco il litigio avrebbe assunto una dimensione leggermente violenta: entrambi si erano alzati e lei aveva aggirato la scrivania per fronteggiarlo. Cominciarono ad insultarsi incuranti dell’impotente spettatore che c’era alle loro spalle e, nel momento in cui Duncan le disse che non ricordava che fosse così acida, non riuscì a trattenere lo schiaffo che aveva già pronto da quella mattina. Quello fu il culmine del battibecco, dopo il quale lei tornò soddisfatta al suo posto e lui si risedette massaggiandosi la guancia arrossata.
«Pazza psicopatica.», le disse, riservandole un’occhiata terribile.
«Solo con te.», gli rispose, e stavolta fu il suo turno di sfoderare un sorriso insolente.
«Suppongo», intervenne John Smith, «che adesso possiamo finalmente dedicarci al caso per cui siamo qui.»
«Certo!», trillò Courtney sorridente. Duncan grugnì qualcosa sulla sua potenziale sete assassina, ma fu ignorato.
 
***
 
Quella sorta di interrogatorio le stava causando l’orticaria – per riuscire a curare al meglio la difesa di quello scemo, avrebbe dovuto conoscere ogni particolare dell’accaduto, se solo Duncan avesse conosciuto qualcuno.
«Te l’ho già detto!», esclamò lui di fronte alla sua pressante insistenza, «ero ubriaco: non mi ricordo nulla.»
Aveva sillabato l’ultima parola per chiarirle il concetto, ma lei non poté trattenere un verso di stizza – avrebbe dovuto schiaffeggiarlo ancora, e poi ancora, e ancora, e ancora fino a fargli tornare la memoria. O un briciolo di intelligenza.
«Tu spiegami:», cominciò minacciosamente lei, «come posso difenderti in tribunale, se non ho alcun tipo di materiale a cui aggrapparmi?»
«Be’, sei tu l’avvocato, princip…», gli aveva allungato un calcio sotto al tavolo e gli aveva rivolto uno sguardo furente. «Non terminare quella frase.», scandì lentamente. Duncan roteò gli occhi e provò ad appoggiare i piedi sulla scrivania – allora, pensò Courtney, questo non ha capito niente.
«Stammi bene a sentire, brutto scemo: non ho intenzione di perdere l’intero pomeriggio facendoti domande di cui non conosci la risposta.», si era alzata e in quel momento torreggiava inviperita su di lui, «Quindi, per domani mattina, voglio una lista completa di tutti i presenti a questa tua festa, con annesso numero di telefono.»
Nel momento in cui Duncan provò ad obiettare qualcosa gli tirò giù le gambe dal tavolo e gli pestò violentemente un piede. «Sono stata chiara?», ruggì. «Cristallina.», le rispose.
«Bene!», esclamò. «Allora ci vediamo domani.», cacciò fuori l’agenda e controllò gli appuntamenti del giorno dopo – appuntamenti che non esistevano, dato che l’unico caso che stava seguendo era quello di Heather.
«Si può fare alle undici.», sentenziò verso di loro.
«E io non ho diritto di controllare la mia agenda?», le chiese irritato.
«Tu non hai un’agenda.», affermò John seccato. Poi guardò Courtney: «Ci saremo.», asserì sbrigativo.
«Ora», disse Courtney alzandosi, «fuori
«Con piacere!», ringhiò Duncan.
«In realtà, abbiamo un altro problema.», dichiarò John.
Entrambi lo guardarono: Courtney aveva l’aria di qualcuno che stava davvero per commettere un omicidio a mani nude, mentre Duncan era più che altro confuso.
«Affacciatevi.», ordinò lui e i due ragazzi si sporsero lievemente dalla finestra – la folla che Duncan si era portato dietro era stata moltiplicata, si erano aggiunti altri fotografi e anche troupe televisive di show di gossip.
«Tu!», ululò Courtney arrabbiata. «Ti avevo detto che uscire sarebbe stata una pessima idea, ti avevo espressamente ordinato di restare qui e attendere il mio ritorno, ma, ovviamente, dovevi fare di testa tua! Imbecille!»
«Io?», strepitò Duncan in risposta. «Vuoi forse dire che è stata colpa mia? Tu mi hai fatto sprecare un’intera mattina soltanto per dispetto!»
«Se non aveste fatto un’ora e mezza di ritardo, facendomi aspettare inutilmente, tutto questo non sarebbe successo!»
«Ragazzi…», John tentò di interromperli, ma nessuno dei due ci fece caso.
«C’erano paparazzi ovunque! Non sono stato svegliato stamattina alle sei e mezza – sei e mezza! –, non ho sopportato il volo aereo più squallido mai visto e non ho rinunciato alla mia splendida vacanza soltanto per sentire i tuoi capricci!»
«Oh, poveretto!», esclamò ironicamente lei, «Be’, io dovrò passare i prossimi mesi difendendo una causa già persa – rimettendoci probabilmente tutta la mia credibilità – soltanto per i tuoi capricci, quindi direi che siamo pari!»
«Ragazzi…»
«Pari? Pari? Noi non saremo mai pari!», sbraitò Duncan.
«Oh, questo puoi ben dirlo!», gridò lei in risposta e gli assestò un altro schiaffo.
«Ragazzi!», tuonò John in tono di rimprovero. Ruggirono in coro: «Che c’è?» e poi si guardarono in cagnesco.
«Strillarvi contro non farà magicamente sparire tutta quella gente», indicò la finestra e fece una pausa, «mi farà soltanto venire il mal di testa.»
Courtney era già sull’orlo della crisi isterica, e non era trascorso nemmeno un giorno – avrebbe mandato la parcella del suo psicanalista a Duncan e Edward.
«Quindi, cosa dovremmo fare?», chiese Duncan, nervoso quasi quanto lei.
«Be’… insomma… considerando che adesso probabilmente anche la casa fuori città sarà sotto assedio… ci sarebbe una sola soluzione…», farfugliò John in risposta e poi guardò Courtney speranzoso.
Naturalmente lei aveva già capito dove il signor Smith voleva arrivare ed emise un gridolino di terrore. «Cosa? Non se ne parla, no, no e poi no!», esclamò agghiacciata – non avrebbe nascosto Duncan a casa sua nemmeno per tutto l’oro del mondo. «Il massimo che posso concedervi», disse in tono di superiorità, «è che si accampi qui.»
«Mi spiegate di cosa diamine state parlando?», chiese Duncan spazientito.
«Vedi, Duncan, nonostante i paparazzi non avrebbero dovuto sapere niente di questa storia, ma hanno scoperto tutto lo stesso, meno informazioni riusciranno ad ottenere meglio sarà per tutti. Capirai perciò che non se ne parla di uscire dall’ingresso principale, né tantomeno di tornare a casa…»
Il ragazzo borbottò un cenno d’assenso e il suo agente continuò.
«…e considerando che in qualsiasi albergo saresti facilmente rintracciabile, come ultima possibilità non resta che appellarci alla gentilezza della signorina Barlow e chiederle di ospitarti, almeno per i primi tempi.»
Duncan gli lasciò appena il tempo di terminare la frase e poi lo investì con una serie di improperi – gli disse che non sarebbe andato mai a vivere sotto lo stesso tetto di quella squinternata, che probabilmente lo avrebbe ucciso nel sonno o gli avrebbe avvelenato il cibo, che non avrebbe permesso di uscire per nessun motivo e tante altre cose che si confusero tra le sue urla.
Edward Fleckman, che stava sentendo tutto nell’ufficio acconto a quello di Courtney, ringraziò qualche divinità per la rogna che era riuscito a scampare.
«È inutile che fai la primadonna, tanto ho già rifiutato.», lo ammonì lei, possibilmente offesa dalle sue parole. Probabilmente Duncan avrebbe riempito di improperi anche lei, per averlo definito una primadonna, ma John parlò prima che potesse combinare altri danni.
«Signorina Barlow, ci pensi:», disse John, tentando un’ultima arringa, «lasciare Duncan in giro, permettergli di interagire con tutti quei giornalisti, è forse una saggia idea? In fondo è stata proprio lei a dire che questo era un caso perso in partenza e non credo sia il caso di buttarsi la zappa sui piedi, giusto? Se decidesse di ospitarlo, riuscirebbe a tenerlo sotto controllo molto più facilmente…»
Courtney sembrò pensarci e Duncan iniziò a sudare freddo – se avesse accettato, avrebbe trovato il modo di renderle la vita impossibile e le avrebbe fatto rimpiangere di aver ascoltato il suo agente. Tentò di dire qualcosa per scoraggiarla, ma ormai le si leggeva negli occhi che nulla di quello che avrebbe potuto dire l’avrebbe smossa dalla sua decisione – la possibilità di controllarlo e comandarlo a bacchetta era stata per lei più invitante di qualunque altra conseguenza.
«E va bene», sospirò – come se quanto stesse per succedere le costasse un’immane fatica –, «accetto.»
 
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Note dell’autrice: Salve (di nuovo)!
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto – nonostante siamo parecchio lontani dal trattare Duncan e Courtney come coppia! Tuttavia, dopo questo plot-twist della convivenza forzata ne succederanno delle belle, ve lo assicuro.
Per quanto riguardo il rapporto Heather/Courtney/Gwen, sebbene adesso sembri nebuloso e poco chiaro, ho intenzione di dedicare alcune paragrafi all’argomento, cosa che farò anche per delineare meglio i vari personaggi secondari ed OC che ho sparso per la storia. Inoltre, pur essendo la storia ambientata molto dopo l’adolescenza dei protagonisti– quindi quando ormai il reality è un capitolo chiuso per tutti loro – vorrei riuscire a includere quanti più personaggi possibili, anche solo con riferimenti, perciò già dal prossimo capitolo vi ritroverete bombardati di nomi messi quasi a caso.
E sicuramente adesso vi sarete annoiati a morte e avrete smesso di leggere, perciò vi lascio e vi do appuntamento a domenica prossima per il terzo capitolo!
A presto,
Fede
  
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