CAPITOLO 22
In quel periodo della mia vita mi erano chiare solo poche
cose.
Tra quelle poche, che mi chiamavo Antonio Giacomelli e che
avevo qualcosa che mi tormentava. Non mi sentivo pienamente me stesso, ma
vittima di soprusi e di un destino forse troppo pesante per un ragazzo poco più
che adolescente.
Va bene, ciò che mi aveva lasciato intendere Roberto,
cercando di farmi ragionare tramite i suoi pensieri sempre complessi e
contorti, mi aveva riscosso, e sapevo che dovevo agire in un qualche modo ed
uscire dalla mia inerzia, che mi stava costringendo a vivere quel lunghissimo e
doloroso periodo di stallo. Uno stallo che stava coinvolgendo un po’ tutti gli
ambiti della mia vita. Ed io dovevo almeno riuscire a interromperlo, in un
qualche suo punto.
In quei giorni, non so di preciso cosa mi spinse ad accettare
di recarmi da Melissa. Anzi, fui proprio io a cercarla e a dirle che, se
voleva, avevo un po’ di tempo libero e potevo recarmi da lei.
Stavo comunque continuando a mentire a me stesso, poiché
sapevo esattamente cosa mi aveva spinto a compiere quel gesto, che per un po’
di tempo avevo preferito evitare con qualche scusa.
Il motivo era che la ragazza, da quel che mi aveva detto, in
casa teneva un pianoforte, ed io necessitavo assolutamente di esso. Dovevo
tornare a posare le mie dita sui tasti di quello strumento, suonarlo e ritrovare
almeno in parte la mia pace interiore, visto che ciò in casa mia ormai mi era
negato per dispetto.
Ero certo che mio padre chiudesse a chiave la porta della
saletta per recarmi danno, e mia madre a riguardo non sapeva imporsi, visti i
modi dell’uomo. Neppure Roberto poteva darmi una mano, poiché gli veniva
continuamente detto che in quella casa nulla era affare suo, a parte quelle tre
stanze che aveva affittato, ed io non riuscivo neppure a parlare col mio losco
genitore, poiché se lo facevo dapprima Sergio non mi degnava neanche di uno
sguardo, e poi mi rispondeva con una risata. Mi rideva in faccia, quindi, da
vero fellone. Sapevo che non avrebbe acconsentito alla mia richiesta, ed anzi,
più volte l’avrei supplicato di lasciarmi suonare, più lui ci avrebbe trovato
gusto a chiudere la stanza. Ed io ero completamente disperato, senza la musica
e il mio strumento.
Sapendo che quella era la causa principale e la base dei miei
tormenti, decisi quindi di aggirare l’ostacolo tentando di andare a casa di
Melissa e sperando che essa mi lasciasse toccare il suo strumento. Magari,
avrei potuto tornare a suonarlo per un po’ e a riprenderci la mano.
Dopo aver concordato tutto con Melissa ed essermi organizzato
in fretta, avvisai con altrettanta frettolosità mia madre e mi recai in
stazione, dove acquistai i biglietti che mi servivano.
La stazione del mio paesetto era davvero piccola, una sorta
di capanna con due misere rotaie che l’attraversavano. Tra l’altro uno dei
pochi treni che avrebbe fatto la sua fermata lì quel giorno era proprio quello
che faceva al caso mio, e che mi avrebbe condotto alle periferie di Bologna.
Mi attendeva davvero un viaggetto corto, ma grazie alla mia
totale imbranataggine in fatto di treni, feci fatica fin da subito a muovermi.
Per fortuna i mezzi che si fermavano alla stazione erano davvero pochi.
Dopo un viaggio molto corto, di neppure una mezzoretta,
giunsi a destinazione, e lì ad attendermi trovai Melissa, che era stata di
parola. Mi aveva infatti detto che mi avrebbe atteso alla stazione per
accompagnarmi a casa sua, e così fece.
La ragazza, che a quanto pareva aveva un anno in più di me,
mi portò a casa sua con la sua auto, un’utilitaria molto comune nell’aspetto
esteriore, guidando con una prudenza che molte volte sfociava in una sorta di
insicurezza. Non mi aveva fatto tanta festa alla stazione, limitandosi a
sorridermi e ad accompagnarmi alla sua macchina, e all’interno del mezzo stesso
non disse praticamente nulla, tenendo sempre gli occhi fissi sulla strada,
sgranandoli leggermente quando doveva effettuare un qualche sorpasso,
operazione che tra l’altro limitava ai casi più estremi.
Non mi sentivo per nulla in buone mani e cominciai a sentirmi
in pericolo quando la ragazza imbucò una strada a carreggiata unica che portava
in campagna, e che deviava dalla fitta rete di case dei quartieri più
periferici di Bologna. Infatti, la carreggiata era molto stretta ed ogni volta
che incrociavamo un auto proveniente dal senso opposto di marcia la guidatrice
era costretta a lasciare il passo, oppure ad affiancare lei stessa l’altra auto
che si era fermata per concedere la precedenza corretta e la corsia.
Ebbene, Melissa a volte titubava, ed io restavo sempre per
qualche istante col fiato sospeso.
C’era il detto popolare e diffuso che mi tornava alla mente e
che narrava il fatto che una donna al volante è un pericolo costante, ma non
avevo mai creduto a ciò, poiché ritenevo che molte donne fossero più brave
degli uomini a guidare, visto che erano più attente a tutto, ma in
quell’occasione mi dovetti ricredere per qualche istante. In seguito, col senno
di poi, compresi di non essere mai stato realmente in pericolo all’interno del
mezzo, ma in ogni caso quei tentennamenti che la guidatrice aveva dimostrato
non erano certo segno di sicurezza.
Per fortuna, anche quel viaggetto durò molto poco, a malapena
un quarto d’ora. Un quarto d’ora intenso, però.
Quando finalmente giungemmo a destinazione, le mie mani erano
leggermente sudate e il mio viso tirato, e molto probabilmente dovevo avere
assunto una strana espressione sul volto, forse a causa della tensione
accumulata negli ultimi minuti, e non riuscii a gustarmi appieno l’abitazione
della mia amica, in un primo momento.
Solo quando lei parcheggiò l’auto, dopo essere entrata in un
vasto giardino ben curato ed immerso nel verde, dopo aver varcato un bel
cancello di ferro battuto, notai che di fronte a me si estendeva un’abitazione
niente male. I genitori di Melissa non dovevano essere persone da nulla.
‘’Che bella casa!’’, le dissi infatti, dopo un attimo in cui
cercai di ristabilire i miei sensi.
‘’Grazie! Beh, sì, è una classica villa di campagna…’’, mi
rispose l’amica, sorridendomi compiaciuta mentre chiudeva lo sportello
dell’auto. Aveva detto tutto quanto come se avesse parlato di una casa qualsiasi,
quando invece a me quella pareva una reggia.
Avrei voluto chiederle se la voleva scambiare con la mia, ma
stetti zitto, lasciando perdere la vena ironica che sul momento mi aveva colto
all’improvviso. Non ero mai stato bravo a fare dell’ironia e temevo già di
impantanarmi in qualche sabbia mobile fin da subito.
‘’E comunque non è tutta casa mia e dei miei genitori. Al
piano inferiore ci vivono i miei zii e mio nonno paterno’’, aggiunse poi la
giovane, come se anche lei si fosse accorta che comunque l’abitazione era
davvero ampia. Si trattava di una di quelle abitazioni signorili di metà
Ottocento, restaurata in modo sublime, ed esteriormente appariva già più vasta
di quello che avrei mai potuto immaginare.
Conducendomi verso l’ingresso di casa attraverso un bel
sentiero di ghiaino, tutto ben curato, Melissa di tanto in tanto mi rivolgeva
qualche occhiata, ma la mia attenzione era totalmente rivolta all’ambiente accudito
e nobiliare che mi circondava.
‘’Davvero, mai mi sarei creduto che tu abitassi in una simile
villa’’, le dissi, continuando a guardarmi attorno. Il giardino era anch’esso
spazioso, e ovviamente recintato e pieno di alberi e piante varie, anche a
cespuglio, che purtroppo in quella stagione donavano una sfumatura di marrone
ovunque, e non di vivace verde come dovevano apparire durante i sei mesi più
caldi dell’anno.
‘’Te l’ho già detto, non è tutto dei miei’’, ribadì la mia
interlocutrice, come a voler dimostrare che un simile sfarzo purtroppo lo
doveva condividere con altri parenti. Inconsciamente, mi chiesi chi fossero i
genitori e i nonni della ragazza, per potersi permettere tutto ciò.
Mentre ancora mi guardavo attorno e i miei pensieri erano più
concentrati verso gli aspetti più materiali di ciò che mi circondava, quasi
venni travolto dalle quattro cugine di Melissa, che uscendo di casa ci vennero
incontro con il loro solito modo di fare molto rumoroso. Ebbi un momento di
confusione di fronte al loro festante e incasinato saluto collettivo, e continuai
a notare che quelle ragazze, quando erano assieme, dovevano essere davvero
pestifere ed insopportabili. Peccato che, molto probabilmente, dovevano passare
molto tempo assieme.
Notando il mio comportamento impacciato e sopraffatto dalla
moltitudine di cugine, Melissa, la più grande di tutte tra l’altro, mi trasse
in salvo e mi condusse in fretta dentro l’abitazione, mentre le ragazze se ne
rimasero in giardino.
Entrato in casa, mi condusse direttamente al piano superiore,
ma non potei non notare il vasto atrio, e le belle opere d’arte appese alle
pareti d’un bianco candido. Le ampie scale interne che collegavano il piano
inferiore a quello superiore erano una sorta di divisorio tra i vari alloggi,
ed erano tutte di un bel marmo tenuto splendente.
Melissa doveva aver notato il fatto che mi sentivo in
soggezione nell’ambiente, e che effettivamente non ero a mio agio fin dal
momento in cui avevo lasciato il treno, per poi salire sulla sua auto. Forse
per quello decise di cominciare la visita col botto, donandomi uno zuccherino
estremamente dolce e appetibile. In pratica, mi offrì il mio desiderio su un
piatto d’argento.
Non incontrammo nessuno nel tragitto che ci portò fin di
fronte ad una stanza dalla porta chiusa, che fu aperta dalla mia
accompagnatrice e padrona di casa, che a quel punto parve rilassarsi anche lei.
‘’Ecco, ho pensato che, per cominciare…’’.
Non l’ascoltavo neanche più. Non appena mi affacciai in
quella stanza spaziosa, ben arredata e con a lato un magnifico pianoforte, il
mio cuore esplose di gioia e felicità.
Una sensazione assurda mi pervase dalla testa ai piedi,
mentre a passi lenti mi avvicinavo allo strumento.
Melissa stava dicendo qualcosa, mostrandosi per la prima
volta timida, sfoggiando un atteggiamento che, in un’altra situazione, mi
avrebbe fatto subito pensare che con me fosse in soggezione, chissà per quale
motivo, ma in quell’istante i miei occhi planavano sul vicino strumento
musicale e nelle mie orecchie già risuonava una possibile sinfonia.
Lentamente, constatai che quel pianoforte era un modello
molto antico, e molto più pregiato del mio. Tutto in sé risplendeva, tuttavia.
Non seppi trattenermi oltre, di fronte alla spinta dei miei
desideri.
‘’Posso provare a suonare qualcosina?’’, chiesi
improvvisamente alla ragazza, che ancora stava parlando di qualcosa che non mi
importava.
Lo so che è bruttissimo da pensare e da ammettere, ma
effettivamente sapevo che avevo fatto tanta strada e mi ero permesso quel
viaggetto solo ed esclusivamente per quello strumento musicale, e non per
ascoltare Melissa, o parlare con lei. Dentro di me, il mio lato più oscuro mi
passava soddisfazione e tentazione di suonare, mentre l’altra parte di me,
opposta, mi consigliava di vergognarmi per quel mio comportamento da misero
approfittatore.
Ma, d’altro canto, si sa che la natura umana è debole, e che
di fronte alle tentazioni della vita non sa proprio dire di no. Quindi, anche
se non volevo, in realtà stavo quasi sbavando come un cane di fronte ad una ciotola
di fragranti crocchette, come avrebbe potuto affermare il grande studioso Ivan Pavlov,
e molto probabilmente non mi sarei dato tregua fintanto che non avessi avuto
modo di appoggiare le mie dita su quei tasti tanto invitanti.
Melissa mi allungò uno sguardo leggermente sorpreso per la
mia richiesta frettolosa, e forse neanche troppo gentile, ma non si oppose
minimamente.
‘’Beh, certo, se vuoi…’’.
Non mi serviva altro. Avevo il permesso per appoggiare le mie
dita su quel magnifico strumento, e il resto veniva tutto dopo e non
m’importava, in realtà.
Venni colto da una frenesia ansiosa che per qualche istante
mi fece provare qualche brivido per tutto il corpo, per poi calmarmi non appena
mi fui ben seduto di fronte alla mia possibile fonte di felicità ed ebbi sfiorato
i tasti. Da quel momento in poi, vissi qualche minuto di panico.
Melissa continuava a parlarmi e a guardarmi, e avevo voglia
di spegnerla come avrei fatto con una tv o una radio molesta, mentre io cercavo
di familiarizzare con quello strumento che in realtà non era mio e che quindi
aveva qualcosa di diverso. Ogni oggetto è diverso dall’altro, ogni cosa ha una
sorta di propria anima, in grado di renderla distinta e differente dalle altre,
a meno che non sia prodotta in serie dalle industrie dalla tecnologia più
avanzata.
Mi accorsi a quel punto che tremavo nuovamente. Frenesia,
ansia e altre mille sensazioni differenti si erano unite alla mia impellente
voglia di esaudire subitissimo il mio desiderio, ed io ancora riflettevo su non
so bene cosa.
Mi feci coraggio ed affrontai tutto di petto.
‘’Non hai un qualche spartito?’’, chiesi alla padroncina di
casa, che ormai si era accorta che non la ascoltavo e se ne stava mogia alle
mie spalle, immersa in un muto silenzio che poteva voler dire molte cose, nascondendone
altre, tra cui anche la curiosità.
‘’No, questo è il vero problema. Nessuno in casa è capace di
suonare il pianoforte, a parte mio nonno, ma lui i suoi spartiti li tiene
sempre con sé e non li lascia incustoditi in questa stanza…’’.
Ok, ciò non aveva particolare importanza, pensai, tagliando
di nuovo i punti col mondo reale. Ero pronto a suonare qualsiasi cosa, anche
una sinfonia immaginaria e orribilmente storpiata. Sapevo che mi stavo
comportando come un gran maleducato, ma ormai avevo perso ogni nesso con la
realtà, e l’oggetto dei miei desideri era lì, a portata delle mie dita.
Mi chiusi totalmente in me stesso, e l’ansia che mi
attanagliava da ogni parte svanì come la nebbia autunnale dinnanzi al primo
tiepido sole della giornata, e pure io come il nostro grande e luminoso astro
m’innalzai sopra ad ogni mio limite.
A quel punto, inutile dire che persi il controllo di me. Non
so per quanto suonai, e neppure cosa suonai di preciso, per tutto il tempo.
Sapevo solo che nessuno aveva cercato di interrompermi in alcun modo.
Ero talmente tanto preso da quello strumento che mi era molto
mancato in quelle ultime settimane che non badai a nulla, se non a cercare di
suonare e di ricreare qualcosa di decente. Il resto veniva dopo, e il mio
livello di attenzione era davvero bassissimo, in quegli attimi.
Fu una sorta di raptus, di quei momenti in cui si esce da sé
stessi per entrare in sintonia con un oggetto che diventa prolungamento del
proprio corpo, e tutto ciò che mi circondava veniva dopo. Il pianoforte,
nonostante non fosse quello che tanto amavo e utilizzavo a casa mia, si
dimostrò un valido compagno, e non deluse assolutamente le mie aspettative,
anzi.
Dopo un periodo di tempo indeterminato, le forze sembrarono
venirmi a mancare tutte assieme. La sintonia che avevo raggiunto con lo
strumento si sciolse, lentamente, oppure troppo in fretta, dipendeva da come si
rifletteva sulla situazione, ed io rientrai in me, rendendomi conto di quello
che avevo fatto.
Le dita si fecero pesanti, le gambe molli, la vista sfocata.
Lasciai perdere e, in pochi secondi, lasciai anche che le mie mani scivolassero
giù, lontane dai tasti. E allora mi voltai, sentendo il mio viso arrossarsi,
comprendendo che doveva essere trascorso un bel po’ di tempo da quando mi ero
praticamente impossessato di quell’oggetto non mio, quasi snobbando la povera
Melissa, che doveva esserci rimasta davvero male.
Quando mi girai, cercandola con lo sguardo, mi trovai di
fronte ad una platea di gente, che in silenzio mi osservava con attenzione.
La mia mandibola cedette un po’ e per un attimo mi parve di
restare senza fiato, trovandomi immerso in una situazione quasi paradossale ed
in una casa che mi era sconosciuta, così come la maggior parte dei suoi
abitanti.
Tra le persone che avevano preso posto nell’ampia stanza, riuscii
a riconoscere Melissa, che incrociando il mio sguardo stupito sorrise, e poi
notai anche le altre quattro cugine, più in un angolo rispetto agli altri
presenti, che non conoscevo e non avevo mai visto in vita mia. Quella fu la mia
prima sorta di concerto, tra l’altro a sorpresa.
Tutti mi osservavano in silenzio, quasi mi studiavano con
insistenza. L’unico seduto, posizionato tra l’altro in una posizione centrale
della camera, era un uomo anziano, a cui diedi un’ottantina d’anni, coi capelli
bianchi tirati all’indietro ed un volto severo, dai tratti marcati nonostante
l’età e le rughe lasciate dal tempo, e dai baffetti allungati e leggermente
arricciati, che mi ricordavano tanto quelli rappresentati nei ritratti di fine
Ottocento.
Fu proprio lui il primo a parlarmi e a interrompere il
silenzio.
‘’Come ti chiami, ragazzo?’’, mi chiese, con una voce forte
che risuonò nella stanza, una voce della stessa specie di quella di mio padre.
Imbarazzato e in soggezione, deglutii prima di rispondere con titubanza.
‘’Antonio’’, gli dissi, semplicemente.
L’uomo anziano annuì col capo.
‘’Bene, Antonio, piacere di conoscerti. Potrei sapere come
sei finito in questa casa?’’.
‘’L’ho invitato io, nonno. Io e le ragazze l’abbiamo conosciuto
qualche settimana fa, in un posto dove eravamo andate a fare un giretto. Insomma,
è stato tanto gentile, e ci ha fatto anche da guida. Quando ho scoperto per
caso che apprezzava il pianoforte e lo sapeva suonare, beh, l’ho invitato a
farci visita’’, spiegò Melissa, prima che io potessi rispondere in un qualche
modo e spiegando tutto quanto.
Il vecchio annuì nuovamente, con aria seria, mentre tutti
tacevano ancora nella stanza. I presenti, dieci in tutto comprese le mie
giovani amiche, erano tutti maturi a parte le ragazze, e mi pareva evidente che
formassero una grande famiglia, quella di cui mi aveva accennato Melissa.
‘’La tua visita è stata molto apprezzata. Sei molto bravo e
dotato, e mi fa piacere che le mie nipoti abbiano avuto modo di conoscerti.
Spero veramente che vorrai tornare in questa casa, e grazie per la musica che
hai suonato, era davvero splendida’’. E così dicendo, l’anziano si alzò dalla
sedia senza alcun tentennamento, e poi, appoggiandosi ad un bel bastone da
passeggio, abbandonò la stanza, senza mai abbandonare quella sua aria severa e
tirata, subito seguito a ruota dalle due coppie di adulti, che non mi degnarono
neppure di uno sguardo in quel frangente. Non me ne dispiacque.
Subito, le ragazze si avvicinarono a me.
‘’Grande, Antonio! La tua musica è risuonata tra le mura di
questa abitazione, è giunta ovunque. Noi e i nostri genitori, assieme al nonno,
non abbiamo saputo resistere e siamo venuti ad ascoltarti, senza disturbarti’’.
‘’Sei un maestro, mentre suonavi sembravi perso in te
stesso!’’.
‘’Grande, davvero’’.
‘’Hai fatto un figurone, sono pochi coloro che riescono a
piacere al nonno. E tu gli piaci. Scommetto che se tornerai a farci visita, ti
passerà un suo prezioso spartito’’, mi disse Melissa, emergendo dal caos delle
scatenate cugine, che come ogni volta infuriavano su di me, ancora seduto. Le
sorrisi.
Poi, i miei occhi caddero sul mio piccolo orologio da polso;
segnava le diciassette.
‘’Ragazze, io sono felice di esservi piaciuto e di avervi
fatto udire qualcosa, ma ora dovrei proprio lasciarvi. Entro quindici minuti
dovrei essere in stazione’’, dissi loro, smorzandone l’entusiasmo e mostrando
una smorfia agitata. L’ultimo treno che mi avrebbe potuto condurre al mio paese
passava alle diciassette e quindici, e quindi dovevo fare in fretta a giungere
in stazione, per non rimanere a piedi. In quel caso, nessuno sarebbe passato a
prendermi lì, e chissà come avrei fatto a passare la notte.
Sperai anche in un piccolo ritardo del mezzo.
‘’Oh, certo, capisco. Allora andiamo, ti riporto in
stazione’’, mi disse prontamente Melissa, comprendendo subito la mia necessità.
Le sorrisi e a passo svelto la seguii fuori dalla stanza,
dopo aver salutato le cugine che, dal canto loro, parevano deluse di non
potermi tormentare più col loro chiacchiericcio. Quando Giorgia si azzardò ad
inseguire Melissa e a chiederle se poteva venire con noi in auto, lei non si
era preoccupata di dirle di no. Forse anche la più grande tra le cugine la
pensava un po’ come me, a volte.
Non incontrammo nessun altro in giro per quell’immensa
abitazione silenziosa, e in un attimo fummo dall’auto, mentre la cupa sera
autunnale già aveva voglia di lasciare spazio alla prematura notte di quel
periodo dell’anno.
Inutile dire che partimmo con una sgommata, di quelle
classiche, ma non seppi mai se fosse voluta oppure no. Preferii restare col
dubbio e non chiederlo con la guidatrice, di nuovo tesa al volante. Non volevo
parlarle, per non disturbarla da quella missione che pareva portarle via tutta
l’attenzione(d’altronde, ne valeva anche della mia salute personale), ma fu lei
a rivolgersi a me.
‘’Grazie per essere venuto a trovarmi, davvero. Anche se
magari non l’hai capito, la tua visita ha davvero portato una ventata di novità
in casa nostra, e ciò mancava da tempo. Avrai notato che i miei genitori, i
miei zii e il nonno sono molto seri e severi, eppure tu sei riuscito a
svagarli, ne sono certa. Ed hai svagato e sorpreso anche me e le mie cugine!
Grazie’’, mi disse la ragazza, continuando a guidare con attenzione.
‘’Piacere tutto mio’’, le risposi, con grande galanteria. In
realtà, la mia mente era già in stazione, e in un corpo possibilmente illeso da
quel viaggio.
‘’Sei il nuovo idolo di casa Giacomelli, insomma’’, aggiunse,
ridacchiando per la prima volta.
Sgranai gli occhi a quelle parole.
‘’Come?!’’, sbottai, stupito dall’aver udito il mio stesso
cognome.
‘’Ho detto che sei il nuovo… oh, insomma, ti attendiamo
ancora a casa Giacomelli, per farla corta. Per la cronaca, mi chiamo Melissa
Giacomelli’’, mi disse la mia interlocutrice, cercando di fare un po’ d’ironia
e non comprendendo la mia perplessità.
‘’Come si chiama tuo padre?’’, le chiesi, a bruciapelo. Avevo
ormai una vaga impressione che mi girava per la testa.
‘’Piero, Piero Giacomelli. Ma… perché tanto interesse?! Il
tuo cognome qual è?’’, mi chiese lei, sempre più perplessa dalle mie parole.
‘’Abitate in una gran bella casa, davvero’’, mi affrettai a
risponderle, cercando di deviare il discorso e sperando che la ragazza
abboccasse e che non mi riproponesse la domanda, obbligandomi in un qualche
modo a fornirle una risposta.
Se non ricordavo male, mio padre aveva un fratello minore di
nome Piero, e quindi forse Melissa e le altre ragazze erano le mie cugine, a
rigore di logica. E l’anziano che aveva ascoltato la mia musica era mio nonno
paterno, sempre forse. Ecco il motivo di quella strana familiarità che avevo
trovato in loro fin dal primo momento in cui avevo avuto modo di recuperare il
portafoglio della mia interlocutrice.
Il mondo mi parve crollare addosso assieme alla sorta di
flebile consapevolezza di aver conosciuto casualmente le mie cugine e di aver
frequentato la loro casa senza che nessuno di noi fosse volutamente al corrente
del nostro grado di parentela. Sperai vivamente che le cose non fossero così e
che tutto si rivelasse molto meno complicato. Ma sapevo che non c’erano molte
altre possibilità.
‘’Hai ragione, è davvero molto bella’’, mi rispose
cortesemente Melissa, lanciandomi un breve sorriso e lasciando cadere la sua
domanda nel nulla. E poi, per fortuna, il viaggetto in auto finì e giungemmo in
stazione, giusto in tempo.
Scesi dalla macchina in fretta e furia, mentre la ragazza mi
diceva un semplice ciao e un ci risentiamo per messaggio, lanciandomi verso il
punto dove il mio treno mi avrebbe aspettato per riportarmi a casa, non badando
alla mia maleducazione. Per quel giorno, avevo strafatto a riguardo.
Il treno giunse puntualissimo e non dovetti attendere neppure
un attimo, saltando subito in carrozza e riprendendo poi il fiato, una volta
sedutomi in un posto vicino al finestrino, in quella terza classe in cui pochi
in quella sera stavano viaggiando. Avevo la mente confusa, non volevo pensare a
nulla e non vedevo l’ora di tornare a casa mia e di rinfrescarmi le idee.
Non badai neppure al cellulare, quando esso suonò per un po’.
Avevo paura, e nonostante il fatto che io avessi appena trovato lo sfogo ad una
mia necessità ed avessi esaudito un mio desiderio, facendomi avanti come mi
aveva suggerito Roberto, il risultato era stato solo la nascita di un nuovo
caos nella mia mente.
Tenni gli occhi socchiusi per buona parte del viaggio,
cercando di non pensare a nulla e di stare in un qualche modo tranquillo.
Quando giunsi alla mia meta, e scesi alla stazione del mio
paese, trovai una sorpresa ad attendermi.
Jasmine, imbronciata, mi attendeva lì, sola e in piedi. Non
appena mi vide, si diresse subito verso di me, con grande rapidità.
‘’Ti pare questo il modo di comportarti?! Tua madre temeva
fossi sparito…’’.
‘’Ehi, stai tranquilla! Mia madre crede che io nell’ultimo
periodo sia diventato pazzo, ma non è così. E poi, lo sapeva che sarei stato
via tutto il pomeriggio’’, le dissi io, cercando di avvolgerla in un abbraccio
tranquillo. Ma lei si ritrasse, bruscamente.
‘’A volte non riesco a capirti, Antonio. Dei giorni mi sembri
un ragazzo limpido e sereno, altri mi sembri un dannato che sta cercando in un
qualche modo di nascondere qualcosa. Ha forse un’altra ragazza?’’, mi chiese, a
bruciapelo. Era la prima volta che mi affrontava così di petto, da quando ci
conoscevamo.
Alzai le mani, in segno di resa e di sincerità.
‘’Ti giuro, non ho nessun’altra ragazza. Oggi pomeriggio
dovevo andare in un posto, e ho scoperto… insomma, non so nulla di certo e in
questo momento ho solo una gran confusione in testa, un altro giorno ti
spiegherò tutto quanto, ok? Ma sappi che io amo solo te’’, le risposi,
sinceramente.
Lei mi rivolse un’occhiatina perplessa, ma non volle
infierire. Ed io ne approfittai per allungarle un bacio sulle labbra, molto
gradito.
‘’Se ti comporti ancora in questo modo, me la prendo sul
serio’’, mi disse poi Jasmine, allontanandosi da me e donandomi un breve
sorriso, prima di darmi le spalle e di tornare a dirigersi verso casa sua.
Scossi leggermente la testa, divertito dall’atteggiamento
della ragazza che, pur cercando di nasconderlo e di non dirmelo direttamente,
si era preoccupata per me. E questo era davvero un bel gesto da parte sua.
Inoltre, indirettamente, mi aveva fatto capire quanto mi
amava. La conoscevo bene ormai, e sapevo che dentro di lei scorreva un sangue
selvaggio e indomito, e che mai si sarebbe piegata a dichiarare profondamente
il suo amore in modo aperto, poiché lo riteneva quasi una sorta di umiliazione.
Io e Jasmine ci capivamo, ci volevamo bene e ci amavamo in un modo tutto nostro
ed originale, poiché entrambi avevamo le nostre ben precise idee sull’amore e
su ogni cosa.
Ma l’importante, in fondo, era amarsi, e decantare in giro e
a parole il nostro amore non ci soddisfaceva, e ci importavano di più i nostri
sporadici contatti fisici e i nostri sguardi. Il resto, contava molto meno,
durante quei primissimi tempi della nostra relazione.
Giunsi a casa in fretta, e altrettanto in fretta mia madre mi
si piazzò davanti, sbucando da chissà dove e come un’indemoniata.
‘’Signorino, dov’è stato quest’oggi?’’, mi chiese, in un modo
che mi irritò in un solo secondo.
‘’Mamma, non c’era bisogno di fare una scenata così, cavolo!
Te l’avevo detto che sarei stato via tutto questo pomeriggio, e che sarei
tornato per la sera. Hai spaventato anche Jasmine’’, le dissi, allargando le
braccia.
‘’Ah, la ragazza che ha bussato alla nostra porta nel
pomeriggio… era davvero preoccupata per te, quando le ho detto che pure io lo
ero. In più, eri anche irraggiungibile e non rispondevi al cellulare…’’.
Mia madre stava sfogando la sua disperazione, mostrandomi due
occhietti inumiditi dalle lacrime.
‘’Oh, mamma… devi smetterla di preoccuparti così tanto per
me’’, mi limitai a dirle a quel punto, donandole un piccolo abbraccio, subito
ricambiato.
‘’Sai, dopo ciò che è accaduto qualche sera fa…’’.
‘’Non sono impazzito. Quello è stato solo un momento di
sconforto. Sto crescendo, e devi avere più fiducia in me’’. Sciolsi
l’abbraccio, lestamente.
‘’Non ho fame, magari ceno più tardi, quando l’aristocratica
madre e il figlio sono saliti in camera, così non li disturbo col mio brutto
muso mentre giro per casa’’, mi limitai a dirle di nuovo, per poi deviarla e
dirigermi verso il piano superiore.
‘’Ma…’’. Mia madre tentò di dirmi qualcosa, ma io non le
badai. Anzi, mi volsi un attimo verso di lei, prima di cominciare a salire le
scale.
‘’Mamma, uno dei fratelli di… di papà, si chiama Piero?’’, le
chiesi, a bruciapelo.
Tentennai quando era giunto il momento di dire la parola
papà, ma alla fine l’avevo detta lo stesso per agevolarmi la vita. Però, mi
scocciava chiamare quel soggetto papà, anche se purtroppo lo era. Ed avevo
bisogno di conferme, in fretta.
‘’Da quel che so, sì’’, mi rispose lei, annuendo, ma con fare
molto incuriosito.
Cercò di chiedermi altro, visibilmente sorpresa dalla mia
strana domanda, ma a quel punto avevo la risposta a ciò che mi aveva tormentato
per tutto il viaggio in treno. A quanto pareva, era certo che agendo ero
entrato in contatto con i familiari di mio padre, in modo del tutto
involontario ed inaspettato. Anche quella volta Roberto non aveva sbagliato la
sua previsione, effettuata solo il giorno prima.
Mi catapultai verso il piano superiore, felice per non aver
incontrato nessun altro a parte mia madre, e cercando di celare la confusione
che le nuove consapevolezze avevano generato nella mia mente.
Entrai in camera mia a passo baldanzoso; niente e nessuno,
neppure il più maligno e pressante dei miei tormentati pensieri, mi avrebbe
impedito di farmi una doccia dopo aver studiato un po’ per le verifiche dei
giorni successivi.
Però, le sorprese non erano finite per quella giornata.
Accendendo la luce e chiudendo la porta dietro di me, quasi non
mi accorsi che qualcuno mi aveva atteso nel buio.
‘’Alla buon ora’’, mi disse Federico, placidamente sistemato
sulla sedia della mia piccola scrivania, a fianco del letto. Mi guardava con i
suoi occhi porcini e perfidi, mentre ogni tanto si passava una mano tra i
capelli ricci e ribelli.
Inspirai sonoramente, e restai immobile per una manciata di
secondi, senza stupirmi troppo per quella presenza e imprecando contro la mia
sbadataggine, che mi aveva portato a dimenticarmi di chiudere la porta della mia
stanza da letto a chiave. Ma purtroppo, per tutta quella giornata la mia mente
era stata altrove, ed in quel momento ne stavo pagando le conseguenze.
Federico, avendo abbassato la pressione su di me, mi aveva
concesso una parvenza di precaria tregua ed io avevo abbassato la guardia, come
un pivello stolto. E mai abbassare la guardia, quando si ha un nemico da
combattere, poiché esso potrebbe tornare alla ribalta ancor prima di quanto lo
si possa immaginare.
‘’Cosa vuoi?’’, gli chiesi, scocciato. Ero indeciso se aprire
la porta e fare una scenata pazzesca, visto che in giro per casa dovevano
esserci anche i suoi, oppure starmene buono.
‘’Non provare neppure a pensare di chiedere aiuto, perché se
lo fai, ti balzo addosso alle spalle ancor prima che tu possa aprire la bocca e
ti schiaccio come una mosca’’.
‘’Tranquillo’’, lo rassicurai, con un pizzico di cupa ironia,
che stonava in quella situazione. In quel momento avevo già compiuto la mia
scelta, ed era molto meglio per me starmene zitto ed ascoltare le sue sozze
richieste.
‘’Senti, domani abbiamo la verifica di matematica. Dato che,
come ben saprai, io non ho mai aperto libro e quaderno, e non ho la più pallida
idea neppure dell’argomento che stiamo affrontando, vorrei farti una richiesta
gentile; in poche parole, tu domattina in classe dovrai lasciarmi copiare. Nel
modo che preferisci, ma devi lasciarmi copiare’’, mi disse, tutto d’un fiato.
Annuii, come un automa.
‘’Io un’idea ce l’ho; quando ci faranno spostare in banchi,
tu sistemerai il tuo proprio davanti al mio. Dato che siamo in fondo all’aula,
praticamente, il professore difficilmente si accorgerà quando io sfiorerò con
un piede la tua sedia, e allora sentendo il contatto della mia scarpa alzerai
leggermente il tuo foglio dal banco, in modo che io da dietro possa leggere e
copiare ciò che tu hai scritto. Perché so che scriverai qualcosa nella
verifica, dato che sai svolgere bene tutti i compiti a casa e ti impegni,
fottuto secchione.
‘’E non ti azzardare a non fare ciò che ti ho detto, perché
ne va della tua incolumità; se mi tiri un brutto scherzetto, sappi che prima
meno te, poi spacco il tuo pianoforte, che ora è in mano di tuo padre e in
balìa mia, se lo volessi, dato che lui si fida di me e mi lascia entrare nella
saletta, e poi faccio uno scherzetto spiacevole anche a tua madre, spiacevole
almeno come quello che tu hai tirato a me. Questa è una promessa’’, sibilò il
mio nemico, alzandosi poi in piedi ed abbandonando furtivamente la mia stanza,
passandomi a fianco dopo avermi donato un’occhiata colma di disprezzo.
Di nuovo solo, mi adagiai sul mio letto ed affondai il mio
viso in uno dei miei cuscini, lasciandomi andare alla disperazione. Il destino
pareva essersi accanito su di me e su ogni aspetto della mia vita, tutto d’un
colpo, e stavo davvero vivendo un periodo che, sul momento, fui certo che prima
o poi mi avrebbe mandato fuori di testa.
Tuttavia, mentre me ne stavo immerso nella mia disperazione,
la mia mente continuò a cercare una via d’uscita, che lì per lì non riuscì a
trovare.
Ancora non immaginavo quanto mi sarei cacciato nei guai a
causa delle mie sconsiderate scelte, nei giorni successivi.
NOTA DELL’AUTORE
Buongiorno, carissimi lettori e carissime lettrici!
Grazie per aver letto anche questo capitolo, e per continuare
a seguire il racconto.
Continuo a sperare che la vicenda continui ad attirare il
vostro interesse e ad offrire una gradevole e curiosa lettura.
Grazie infinite a tutti i favolosi, gentilissimi e
cordialissimi recensori, che mi sostengono sempre con un’infinità di pazienza e
di bontà!
Grazie di cuore per tutto e a tutti, e buon inizio di
settimana. A lunedì prossimo!