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Autore: Adeia Di Elferas    23/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si scansò all'ultimo istante, giusto in tempo per evitare all'ombra imponente e feroce di centrarla in pieno. Lo spostamento d'aria causato dall'assalto, comunque, la fece vacillare e inciampare a terra.

Senza nemmeno provare a recuperare la lancia, rotolata a un metro buono dalla sua mano, la donna, il fiato corto e gli occhi sbarrati, cercò di capire cosa mai l'avesse attaccata.

La bestia, il cui respiro rabbioso sollevava nuvolette di vapore, stava ancora correndo, allontanandosi da lei solo per girarsi e riprendere la battaglia. Malgrado le dimensioni fuori dal comune, il pelo ispido d'un marrone tanto scuro da sembrare nero e i due piccoli occhi porcini fecero capire a Caterina, anche a distanza, che si trattava di un cinghiale.

Non riuscendo a muoversi per scappare né tanto meno per estrarre dalla fodera la spada corta che teneva al fianco, la Contessa rimase seduta sull'erba umida, in attesa del prossimo impatto che, ne era sicura, non avrebbe potuto evitare.

L'animale, cieco di furia, stava galoppando verso di lei, emettendo un suono strozzato a metà strada tra il grugnito e il grido. Con la sua rapidità fendeva la nebbia a grandi falcate, malgrado le zampette secche e le sue grandi zanne brillavano di luce propria anche con il poco sole nascente, nascosto dalla foschia.

Qualcosa scattò improvvisamente nella testa di Caterina. Era una scintilla diversa da quella che si accendeva in lei durante le normali battute di caccia, quando avvistava una preda sicura. Era la stessa improvvisa lucidità che si era impossessata di lei quando era stata in guerra la prima volta.

In un lampo, seppe cosa doveva fare. Rimase immobile fino a quando il cinghiale non le fu a meno di un metro di distanza. Quando ormai per la bestia sarebbe stato troppo vicino per riuscire a scartare di lato, Caterina estrasse con un unico fluido movimento la spada dalla fodera e, tenendo la corta elsa con entrambe le mani, puntò la lama verso l'alto.

Il colpo fu tremendo, fatale per l'animale, che con un grufolare assordante e disperato morì pressoché immediatamente, e spossante per la Contessa, che faticò a non perdere la presa sulla spada, mentre la sua punta trafiggeva la pelle spessa e coriacea del cinghiale.

Travolta dal peso notevole della bestia e sopraffatta dal suo odore ferino, Caterina ci mise qualche istante a rimettersi in piedi. Quando riuscì finalmente ad alzarsi, si trovò piena di sangue della sua vittima, dolorante per la violenza dell'impatto e un po' provata per l'inatteso scontro che l'aveva posta di fronte al pericolo di morte imminente.

Con un gesto quasi stizzoso, la donna riprese tra le mani l'elsa della spada e, tenendo ferma l'enorme carcassa con un piede, estrasse la lama dalle carni in cui si era conficcata. Lo stridore del metallo contro quella che doveva essere una costola, la fece rabbrividire per un battito di ciglia. Subito dopo, infatti, un nuovo fruscio tra le fronde circostanti la mise in allerta.

Tenendo la spada insanguinata alta, in posizione d'attesa, Caterina si guardò tutt'attorno, tutti i sensi risvegliati. L'odore ferroso del sangue, i polmoni in fiamme per il respiro grosso e il sentore della morte stavano risvegliando in lei qualcosa che credeva di aver dimenticato e, in tutta coscienza, non riusciva a decidere se quel groviglio di emozioni fosse positivo o meno.

Le ci volle qualche minuto, ma alla fine trovò la fonte del rumore che l'aveva allarmata. Altri due occhietti neri la scrutavano, appena nascosti da un cespuglio.

Un altro cinghiale, che però restava incredibilmente in attesa, come fosse indeciso se attaccare o meno.

Caterina mosse un paio di passi con circospezione, la spada sempre pronta, senza mai staccare lo sguardo da quello dell'animale.

Improvvisamente un paio di piccoli grugniti attirarono la sua attenzione a ciò che c'era vicino al cinghiale che la fissava. Tre cinghialini, piccoli, davvero molto piccoli...

Commettendo quello che normalmente sarebbe stato un errore fatale, Caterina guardò di sfuggita la bestia che aveva appena ucciso. Una femmina.

Dunque l'aveva attaccata per proteggere i suoi cuccioli, prima ancora di essere apertamente minacciata.

L'altra femmina continuava a guardare la Contessa, interrogativa. I cinghialini parevano in attesa di scoprire il loro destino e non si staccavano di un millimetro da quell'ultima adulta rimasta loro come difesa.

Per quanto le sembrasse assurdo, per Caterina fu come se quello scambio di sguardi con la femmina di cinghiale rimasta fosse un vero e proprio discorso. Fu come se si stessero capendo, come se entrambe sapessero cosa significava, essere sole in mezzo a un bosco pieno di pericoli, con dei cuccioli da tenere al sicuro.

In un modo che il suo defunto padre avrebbe definito folle, Caterina abbassò la spada, lentamente e chinò appena il capo, come a permettere alla bestia di scappare.

Questa, senza bisogno d'altro, grufolò e cominciò ad allontanarsi, seguita a ruota dai tre cinghialini.

Caterina era ancora scossa da quello che era appena accaduto, quando un rumore di zoccoli ruppe l'idillio.

“Siete ferita?” chiese Alfonso Este, scendendo da cavallo mentre questo ancora galoppava.

Caterina si affrettò a negare e controllò con uno sguardo se i quattro cinghiali fossero scappati davvero. Per fortuna sembravano essersi messi in salvo.

Alfonso guardò nella direzione in cui puntavano gli occhi della Contessa, ma, non vedendo nulla di particolare, tornò a concentrarsi sulla donna. Quando riconobbe le chiazze di sangue sui suoi vestiti, istintivamente la prese per le spalle, come a controllare meglio se fosse ferita.

“Vi dico che sto bene...” ribadì Caterina, un po' infastidita per tutta quell'apprensione.

Alfonso aprì la bocca per dire qualcosa, quando l'occhio gli cadde sulla carcasse che giaceva poco distante da loro. La sua espressione da preoccupata si fece subito allibita.

“L'avete ucciso voi...?” chiese, lasciando le spalle di Caterina e avvicinandosi al cinghiale morto.

“Vedete qualcun altro, forse?” ribatté la Contessa, vagamente offesa per il tono stupefatto.

“Non credevo che avremmo trovato cinghiali qui...” commentò piano l'Este, accucciandosi vicino alla bestia e valutandone le dimensioni: “Un unico colpo al torace. Come avete fatto?”

“Ho solo risposto a un attacco.” spiegò la Contessa: “Ma ora chiamiamo gli altri affinché preparino la carcassa per portarla alla rocca.”

Alfonso annuì subito e, rimettendosi in sella, allungò una mano verso Caterina, invitandola a montare con lui: “Venite: lasciamo il vostro cavallo legato per avere un punto di riferimento.”

La Contessa, un po' titubante, accettò la proposta e si issò sulla cavalcatura, stando tra Alfonso e il muso del cavallo.

“Siete un ottimo cacciatore, mia signora.” sogghignò l'Este, spronando il cavallo, felice di scoprire che le voci sul conto della Tigre erano, in fondo, completamente vere.

“Voi dovete ancora mostrarmi di cosa siete capace, piuttosto.” fece Caterina, apprezzando il complimento, mentre la nebbia fredda le inumidiva il viso e le entrava nei polmoni, facendole provare una profonda e insanabile nostalgia di casa.

 

Quella mattina il Vaticano era sonnolento e spento, fiaccato da un sole pallido e lontano.

Piero Medici era stato accolto da Alessandro VI con una certa freddezza e nemmeno gli uomini che lo accompagnavano aveva ricevuto saluti più calorosi.

Il papa aveva lasciato intendere di non avere molto tempo e di aver concesso quell'abboccamento per puro rispetto alla memoria di Lorenzo il Magnifico.

“Firenze è ancora in balia di quel Girolamo Savonarola, ho sentito dire.” fece Rodrigo, tenendo le mani allacciate in grembo, mentre i suoi occhi rapaci scrutavano il viso pallido del Fatuo, cercando di carpirne ogni incertezza: “Una grande disdetta, visto che quel predicatore sembra tanto nemico della vostra famiglia... E i vostri due cugini, che parteggiano per i vostri oppositori...!”

Piero si accomodò sulla sedia cremisi e si tormentò uno degli anelli che portava infilato sull'indice: “Ebbene, circa i miei cugini Lorenzo e Giovanni non mi voglio pronunciare, mentre sul Savonarola... Forse mio padre ha peccato di leggerezza, nel richiamarlo in Firenze.”

“Leggerezza, dite.” soppesò il Borja, con un sospiro volutamente pensieroso: “Io dico avventatezza.”

Piero strinse il morso, ancora troppo sensibile alle critiche, quanto alle lodi – entrambe lo irritavano in modo indicibile – rivolte al padre, e con nervosismo recuperò il faldone che aveva portato con sé da Firenze: “Sono qui per parlarvi di cose molto serie, Vostra Santità.”

Rodrigo sollevò l'angolo della bocca: “Non avevo dubbi.”

Il Fatuo si bloccò un momento, davanti a tanta sicurezza e ci volle un colpetto di tosse di Puccio Pucci per convincerlo a proseguire: “Ecco, ho qui la bozza per un contratto di matrimonio tra mio fratello Giuliano, Duca di Nemours e vostra figlia, madonna Lucrecia...”

Alessandro VI ebbe un leggero fremito. Si era aspettato qualcosa del genere, ma era più forte di lui. Ogni volta che qualcuno proponeva dei pretendenti per la piccola Lucrecia, il suo sangue cominciava a ribollire. Era gelosia quella che provava? O era solo paterna affezione? Ah, il suo animo sarebbe andato all'inferno per via diretta, se non fosse riuscito a controllarsi...

“Sentiamo cos'avete da proporre.” concesse il pontefice, con un benevolo gesto del braccio.

Piero Medici si schiarì la voce e, aprendo il plico, cominciò a leggere e riassumere tutto ciò che aveva redatto assieme ad alcuni suoi consiglieri.

Alessandro VI non ascoltava. Una parola entrava da un orecchio e dieci ne uscivano dall'altro. Quel fanfarone inanellato e impomatato poteva parlare di quel che voleva, tanto Rodrigo aveva già deciso che era lo Sforza, l'uomo adatto a Lucrecia. Un debole, che sua figlia avrebbe potuto rigirare come preferiva. Un cognome importante, una città rispettabile e una discreta ricchezza. Lucrecia avrebbe avuto con lui una vita forse un po' spenta, ma di certo tranquilla, lontana dallo schifo del mondo...

“Dunque, cosa ne pensate?” chiese il Fatuo, con un rossore profondo che gli saliva dal collo, mentre il sospetto di aver parlato a vuoto per oltre un'ora lo dilaniava.

Rodrigo fece un profondo respiro, riemergendo dai suoi pensieri sempre più bui e batté le mani l'una con l'altra, facendo sobbalzare i fiorentini, che non si aspettavano una simile reazione: “Bene, bene!” esclamò lo spagnolo, alzandosi: “Le vostre proposte sono davvero interessantissime. Posso tenere questi incartamenti?” domandò, indicando il faldone che il Fatuo teneva tra le braccia con una certa possessività.

Puccio Pucci si intromise, suggerendo: “Potreste visionarli di nuovo assieme a noi e poi...”

“Preferisco tenerli con me e consultarli con calma nei momenti liberi.” disse subito il papa, con imperiosità tale da indurre Piero Medici ad allungargli subito il pacco di fogli.

Alessandro VI invitò i fiorentini a ritirarsi, chiedendo con scarsa convinzione a tutti loro di restare ancora qualche giorno in Vaticano, come ospiti graditi.

Piero addusse varie scuse, tutte volte a chiudere al più presto la sua avventura romana, al che il papa lo assecondò subito esclamando: “Vi farò preparare i bagagli dai miei servi prima di sera, allora!”

Una volta liberatosi del Fatuo e dei suoi lecchini, Alessandro VI tornò al tavolo su cui giaceva il faldone con la proposta dettagliata del matrimonio tra Lucrecia e il Duca di Nemours.

Sfogliò le prime pagine, distratto, la mente altrove. Stanco e stufo di quella grafia pedante, Rodrigo prese con le sue forti braccia l'intero plico e con un guizzo dell'abito papale, gettò l'intero blocco nel camino.

“Se ci fosse stato ancora vostro padre...” scosse il capo, rivolgendosi in modo immaginario al Fatuo: “Si vergognerebbe di voi.”

 

Giacomo Feo stava aspettando con spasmodica ansia il ritorno della moglie dalla caccia. Era passato il mezzogiorno eppure non aveva ancora fatto ritorno.

Di solito, quando usciva per i boschi, tornava sempre in mattinata...

Nella mente di Giacomo continuavano a formarsi immagini e sospetti che voleva a tutti i costi scacciare. Non gli era piaciuto il modo complice in cui sua moglie e il ferrarese si erano parlati, il giorno prima e anche quella mattina. Sapeva quanto era facile staccarsi dai cacciatori e trovare un angolo tranquillo dove stare soli, mentre si era a caccia, soprattutto con quella nebbia. Anche lui, quando era stato con Caterina a Imola, aveva apprezzato le mattine in cui uscivano con la scusa della caccia per...

Non voleva nemmeno pensarci. Era tutto nella sua testa, ne era sicuro. Eppure, la gelosia lo stava corrodendo come un veleno, avviluppandogli il cuore e schiacciandolo senza pietà.

L'Este era poco più di un ragazzino, ma Giacomo doveva ammettere con una certa amarezza che sua moglie aveva già dimostrato di non dare troppo peso all'età.

“Governatore...” la voce di Oliva fece sussultare Giacomo, che fissava perso le fiamme nel camino.

“Che c'è?!” ringhiò il più giovane, guardando il consigliere, che si ritrasse istintivamente di fronte a tanta aggressività.

“Volevo solo avvisarvi, come mi avevate voi stesso chiesto di fare – sottolineò Oliva, come per rimproverarlo per la sua reazione scortese – che la Contessa è tornata dalla caccia.”

Giacomo non lo ringraziò, passandogli accanto con tanta veemenza da costringerlo a spostarsi per non essere travolto, e raggiunse il piano inferiore.

Caterina stava ridendo assieme al ferrarese, mentre i cacciatori al loro seguito indirizzavano le prede verso le cucine, spiegando ai servi cosa farne.

Giacomo notò solo di sfuggita l'enorme sagoma del cinghiale e le altre numerose carcasse di animali di varia dimensione e razza, troppo impegnato a osservare la moglie che continuava a chiacchierare con Alfonso Este.

“Siete stato formidabile. Prendere nell'occhio con la lancia un cervo di quell'età non è da tutti.” si stava complimentando Caterina, sorridendo.

Alfonso allargò le spalle, i capelli spettinati e il collo striato di sangue probabilmente schizzato da qualcuna delle sue prede migliori: “Confesso di avere una certa mira... E comunque, a essere sincero, non sono un gran cacciatore, paragonato a voi.”

Una volta vicino, Giacomo si accorse del colore scuro dell'abito della moglie. Sangue secco e rappreso in grumi, abbastanza copioso da fargli immaginare una qualche lotta disperata con una creatura gigantesca e pericolosissima. Di quello non si preoccupò, però. Sua moglie sapeva essere una belva molto più feroce di qualsiasi animale che viveva nei boschi.

“Avete fatto molto tardi. Vi aspettavamo per pranzo.” disse il Governatore, con tono quasi funereo, tenendo gli occhi puntati sul viso della moglie, acceso tanto dal fervore delle chiacchiere, quanto, almeno così parve a Giacomo, dal piacere nel sentirsi lodata dal ferrarese.

Caterina si accorse solo in quell'istante della presenza del marito e non appena ne vide il volto cupo e scontroso, il sorriso le si spense sulle labbra. L'ultima cosa che voleva era un incidente diplomatico senza fondamento.

“Scusatemi.” fece, rivolta ad Alfonso: “Vado a rassettarmi un attimo...” e così dicendo indirizzò uno sguardo significativo a Giacomo, inducendolo a seguirla.

Il Governatore dedicò un'ultima occhiata di brace al ferrarese, che accolse quella silenziosa sfida con un'alzata di sopracciglia, mentre già allungava le briglie del cavallo a uno dei servi, ordinando: “Dategli un bel po' da mangiare, se l'è meritato.”

Caterina avanzò senza fermarsi fino alla stanza del castellano, la più tranquilla e sicura in quel momento.

“Vi prego, lasciateci un attimo da soli.” disse la Contessa, nello stesso istante in cui apriva la porta.

Lo zio di Giacomo, che vi era rintanato per occuparsi delle solite scartoffie, si alzò subito dalla sedia, arraffò dalla scrivania qualche foglio e si congedò, lasciando alla Contessa e al nipote la riservatezza necessaria.

“Ti sembra il modo?” chiese Caterina, guardando Giacomo con severità: “Quello è il figlio di Ercole Este, è mio cognato e sarà il futuro signore di Ferrara. Vuoi inimicartelo fin da adesso? Con una guerra che potrebbe scoppiare da un momento all'altro? E per cosa, poi?”

L'altro non rispondeva. Non la guardava nemmeno. Adesso si vergognava di quello che aveva provato, tuttavia non riusciva proprio a cancellare quel senso di inadeguatezza che lo prendeva ogni volta che vedeva sua moglie accanto al 'futuro signore di Ferrara', come aveva ben ricordato Caterina.

“Sei geloso?” chiese alla fine Caterina, colta da quel dubbio improvviso.

Le sembrava assurdo. Avrebbe creduto più plausibile pensare che Giacomo potesse essere di quell'umore nero per la preoccupazione di averla vista tornare insanguinata dalla caccia.

“No.” rispose Giacomo, suonando poco convincente.

Caterina gli prese una manica del giubbotto di raso blu e lo costrinse a guardarla mentre gli diceva, con più rabbia che non ironia, contrariamente a come avrebbe voluto fare: “Ma Alfonso Este ha sedici anni!”

“E allora?” l'attaccò subito Giacomo, punto sul vivo: “Io ne avevo diciassette quando...” la voce gli morì in gola e solo dopo aver deglutito un paio di volte trovò il coraggio di concludere: “Eppure per te la mia età non è mai stata un problema, o sbaglio?”

Caterina gli lasciò di scatto la manica, smossa da quell'insinuazione così meschina, partita proprio dall'uomo che difendeva anche quando era indifendibile, e andando alla porta gli disse solo: “Lo è stata, invece.”

Giacomo restò solo e mortificato per come si era conclusa quella discussione. Aveva parlato in modo troppo avventato e senza riflettere.

Fece un paio di profondi respiri e si ripromise di essere più morbido con Caterina. Era stato uno stupido e basta.

Per il resto della giornata, Giacomo si tenne alla larga dalla moglie e dal loro ospite, sperando che non vederli parlare assieme lo aiutasse a sentire meno il morso della gelosia e che la sua assenza permettesse a Caterina di sbollire.

Quella sera, al Paradiso, fu la Contessa la prima a cedere, chiedendo, con parole sussurrate e lunghi baci, al marito di dimenticare lo screzio di quel giorno. Da abile cacciatrice quale era, Caterina fece sua la preda anche quella notte.

Come sempre, nel reciproco desiderarsi, Caterina e Giacomo riuscirono ancora una volta ad appianare le differenze e le tensioni anche se entrambi cominciarono a chiedersi per quanto tempo quella formula magica sarebbe ancora funzionata.

 
   
 
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