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Autore: Adeia Di Elferas    26/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Alfonso Este indugiava a Forlì più del necessario, secondo gli uomini della sua scorta. Invece di ripartire alla volta di Ferrara non appena possibile, aveva preso quella parentesi come una vacanza improvvisa e tanto piacevole da distoglierlo dai suoi pressanti impegni in patria.

Una delle attività che pareva prediligere era il passeggiare per mezze giornate intere assieme alla Contessa Riario, che lo accompagnava in giro per la città e poi a visitare le varie rocche e rivellini.

Passavano la maggior parte del tempo a contemplare le armi da guerra e i pezzi di artiglieria difensiva e offensiva che la donna aveva accumulato nel corso degli anni da quando era la signora della città.

Le spie di Caterina le avevano assicurato che in città non erano sorti pettegolezzi su di lei e Alfonso e così, fintanto che i sospetti erano propri solo di Giacomo, evitò di rifiutare le proposte del ferrarese, che si dimostrava sinceramente interessato all'assetto militare di Forlì.

Per la Contessa era un piacere potersi vantare dei propri accorgimenti e dei propri acquisti bellici e così assecondava ogni richiesta dell'estense, ben lungi dal vederci qualche strano secondo fine che invece Giacomo scorgeva in ogni gesto e in ogni parole del sedicenne Alfonso.

“Queste colubrine...” stava dicendo l'Este, rimirando due pezzi che Caterina aveva comprato giusto qualche mese addietro, investendo prontamente parte delle ultime tasse versate dai nobili della città: “Ne riconosco la foggia. Foggia ferrarese. So di non sbagliare.” aggiunse, alzando gli occhi sulla donna e grattandosi la barbetta stentata con una certa sicurezza.

Caterina annuì compiaciuta nel riconoscere nel cognato una simile conoscenza delle armi moderne e confermò: “Le ho fatte arrivare proprio da Ferrara. Avete molto occhio.”

Il ragazzo si aprì in un sorriso allegro: “Ho passato più tempo tra i cannoni e le spade che non sui libri, con gran scorno di mio padre – strinse appena gli occhi e soggiunse, a voce più bassa – e di vostra sorella Anna Maria, che di certo avrebbe preferito un letterato a un soldato.”

Caterina mantenne un'espressione rilassata, anche se sentir nominare sua sorella le aveva fatto venire uno strano brivido. Non avevano praticamente ancora sfiorato l'argomento, ma la Contessa voleva in qualche modo sondare la questione per capire quanto ci fosse di vero in quello che le lettere arrivate da Milano le avevano appena accennato.

Aveva sentito dire che proprio Alfonso Este, lo stesso giovane che stava lì a discorrere con lei amabilmente, si era dimostrato con Anna Maria molto rigido su certi argomenti e abbastanza distaccato, affettivamente parlando. Per quanto i due sposi avessero sempre in pubblico un atteggiamento cordiale, si chiacchierava molto circa l'infedeltà di lui e l'insofferenza di lei.

“Spero che mia sorella si stia dimostrando all'altezza della corte di Ferrara.” buttò lì Caterina, indecisa su come affrontare al meglio la cosa.

Alfonso indugiò su di lei più del necessario, prima di rispondere, con uno strano sorriso: “Meglio di quello che ci si immaginava. O almeno così pensa mio padre.” si fece appena più vicino alla donna e la guardò in modo insinuante: “Di norma, io ho impegni più divertenti, che non badare a mia moglie...”

La Contessa si sentiva in difficoltà, soprattutto per via dello sguardo indagatore e quasi divertito di Alfonso, che non voleva staccarsi da lei, come se stesse cercando qualche motivazione profonda e misteriosa per quella semplice domanda e nel contempo stesse valutando la possibilità di avere qualche speranza con lei.

Se si fosse trattato di un altro ospite, meno importante e meno legato alla famiglia degli Sforza, forse Caterina si sarebbe lasciata sfuggire qualche frecciatina sulle presunte scappatelle di Alfonso, per capire quanto ci fosse di vero. L'insistenza con cui la guardava, però, bastava in quel frangente a toglierle qualche dubbio, tanto che per un momento fu certa che il ragazzo stesse per farle qualche proposta sconveniente.

Così, per interrompere sul nascere qualsiasi possibile incidente diplomatico, la Contessa fece un sorriso casuale e cambiò completamente discorso: “Se siete d'accordo, vi farei vedere volentieri anche il nuovo quartiere militare che ho fatto costruire negli ultimi mesi...”

Alfonso strinse i denti, silenziosamente grato alla meravigliosa donna che aveva dinnanzi per avergli evitato una figuraccia. Di solito puntava la sua attenzione a donne di paese o a servette ammiccanti, tranquillo che nessuna di loro avrebbe mai osato muovergli alcun tipo di accusa, dopo un incontro. Il modo in cui la cognata lo intrigava gli aveva per un attimo fatto scordare chi aveva davanti.

Così chinò il capo, e disse, servizievole: “Certo, vi seguo molto volentieri a vedere i quartieri militari.” e soggiunse, solo nella sua mente: 'Non potendo indulgere in passatempi migliori'.

 

“Quel maledetto Borja può essere furioso quanto vuole – stava dicendo Virginio Orsini, con una certa ostinazione – ormai le trattative sono concluse, i quarantamila ducati versati e Anguillara e Cerveteri sono mie.”

Bartolomea Orsini si tagliò un altro pezzo di carne con il pugnale e guardò il fratello con apparente noia: “Questo lo so bene anche io.” disse: “Tuttavia sei stato sventato a seguire il consiglio di Piero Medici. Soprattutto adesso che quella poco di buono di Giulia Farnese sta per sgravare il figlio del maledetto Borja, per dirlo con parole tue.”

Virginio allontanò da sé il piatto, con fare sdegnato: “Prima di tutto: non possiamo sapere se il figlio della Farnese è davvero del papa. Per quello che dice, è di suo marito Orsino.” rimarcò Virginio, a pallida difesa del loro parente.

Bertolomea sbuffò, scettica e divertita dal tono bellicoso usato dal fratello. Era vero che non c'era nulla di certo, in quel pettegolezzo, tuttavia quella sciagurata della Farnese aveva dato ben più di un motivo per dubitare della sua condotta, checché Orsino Orsini ne dicesse.

Virginio sorbì un sorso di vino speziato ed evitò di tirarla per il lungo con quella storia. Cominciava a ricordare perché non sopportava pranzare assieme a sua sorella maggiore. Sparava sentenze su tutti senza farsi problemi e sapeva dargli grandi consigli, ma solo quando ormai era troppo tardi.

“E comunque l'idea di prendere metà della somma in prestito da Napoli...” continuò Bartolomea, masticando con la bocca mezza aperta un boccone particolarmente al sangue: “Cristo santo, se ci fosse ancora nostro padre ti prenderebbe a schiaffi.”

“E se ci fosse ancora nostra sorella Clarice, ti farebbe esorcizzare!” sbottò Virginio, con una smorfia di disgusto per i modi rudi di Bartolomea.

Sua sorella, di qualche anno più vecchia di lui, era sempre stata poco attenta all'etichetta e dall'animo rude e inflessibile. Se Virginio aveva sempre apprezzato il suo spirito combattivo, non aveva mai digerito la sua schietta e irriducibile passione per la crudeltà e la violenza. In confronto, la loro defunta sorella Clarice, con le sue fisime religiose e la sua ossessione per le messe, era uno spasso.

“Non nominare nostra sorella.” lo redarguì Bartolomea, rivolgendo a lui la punta del pugnale, dopo aver deglutito quel che stava ruminando.

Per un istante rimasero in silenzio, il ricordo di Clarice che si levava tra di loro. Se Virginio aveva ceduto alle preghiere del fatuo, in settembre, accettando di comprare da Franceschetto Cybo le città che quel perdigiorno non riusciva più a gestire, era stato solo in rispetto alla memoria di Clarice, che di Piero era la madre.

Anche Bartolomea lo sapeva e, nel silenzio, ammise con se stessa che al posto del fratello avrebbe ceduto allo stesso modo, per quanto non sarebbe stata così cordiale con Giuliano Della Rovere, che aveva avuto l'ardire di presentarsi con le carte da firmare, facendo da intermediario solo per affrettare la trattativa e dar dispiacere al papa Borja.

“Quindi – riprese con ritrovata calma Virginio, riaccostandosi il piatto – se quel maledetto spagnolo ha qualcosa da ridire, mi spiace molto. Se davvero non voleva che gli Orsini avessero anche Anguillara e Cerveteri, doveva vietare a Napoli di prestarmi i soldi.”

Bartolomea staccò un altro pezzo di carne, si versò un po' di vino e poi infilò il pugnale nella fodera, concludendo: “Come dici tu, fratello. Speriamo di non avercene a pentire.”

Virginio assaggiò quello che aveva davanti, mentre la sorella svuotava il suo calice e liberava un po' d'aria spalancando la bocca con un suono orribile, degno del peggior ubriacone d'osteria.

“In ogni caso – fece la donna, picchiettandosi la pancia piena con aria soddisfatta, mentre i piccoli occhi scuri brillavano di una luce sinistra – se le cose andassero in guaio, potranno mettere a ferro e fuoco tutt'Italia, ma almeno il castello di Bracciano, finché ci sarò io, non cadrà. Ci penseremo io e mio marito a mettere in riga quei dannati papisti. ”

Virginio rivoltò gli occhi indietro, incapace di ricordare per l'ennesima volta alla sorella che più papisti degli Orsini non c'era nessuno, ma il commento, forse, sarebbe stato fuori luogo, dato che a quel papa Borja gli Orsini proprio non andavano giù. E la cosa era reciproca.

“A volte mi pare impossibile che tu abbia trovato un marito.” fece Virginio, alzandosi da tavola, troppo teso per continuare a mangiare: “Bartolomea e Bartolomeo. Sembrate usciti da una ballata da guitto.”

La donna gli dedicò un sorrisetto arrogante con le labbra carnose e scure e lo apostrofò: “Sei solo invidioso della nostra felicità.”

Virginio agitò una mano per farla tacere e raggiunse la porta della sala, congedandosi con uno stanco: “Ci vediamo dopo.”

Il castello di Bracciano aveva un che di inquietante, secondo Virginio. Per quanto non l'avrebbe voluto cedere a nessuno, identificandolo come il simbolo della fortuna della propria famiglia, a volte avvertiva quei muri di pietra attorno a sé come una costrizione. Era un uomo nato per stare sul campo di battaglia, all'aria aperta. Anche sua sorella condivideva la passione per la vita militare, ma a sua differenza non disdegnava nemmeno il chiudersi in una rocca e dar battaglia agli assediatori, facendosene beffa. Virginio, al contrario, preferiva di gran lunga essere tra gli assedianti.

Mentre attraversava il corridoio deserto e buio, malgrado l'ora, il pensiero gli corse al bruttissimo Bartolomeo Alviano, suo cognato, un belligerante mostriciattolo che però, in effetti, aveva il pregio non solo di capire e apprezzare, ma soprattutto di amare alla follia Bartolomea. Che cosa strana, l'amore.

 

“Mentre ero fuori con il nostro ospite – disse Caterina, entrando nello studiolo del castellano di Ravaldino – ho notato che vanno mandati dei muratori al quartiere militare. Una delle baracche ha una crepa che non mi piace. Il rivellino di San Pietro, poi, ha bisogno di una sistemata.”

Cesare Feo prese diligentemente nota e attese altre disposizioni, che però non arrivarono perché Caterina si era accorta in quel momento che nello studiolo c'era anche Giacomo.

Stava spaparanzato sul divanetto imbottito, le gambe larghe, una mano sul bracciolo e l'altra appoggiata sul labbro, con espressione assente. Pareva annoiato, come se non sapesse come passare la giornata. La Contessa fu per un momento scossa dal desiderio di scrollarlo dal suo torpore e tirarlo in piedi. Era ancora nervosa per lo strano scambio di battute fatte con Alfonso Este e trovarsi di fronte il marito, apatico e pigro, rintanato nelle stanze di suo zio per sottrarsi anche a quei pochi compiti che di norma svolgeva, di certo non migliorava la sua condizione.

“Mandate anche qualcuno a Porta Schiavonia: mi hanno detto che sono invasi dai topi in questi giorni e non riescono a tenere al sicuro le granaglie. Qualche gatto basterà...” terminò Caterina, recuperando la bussola a beneficio di Cesare Feo che, sempre molto attento a non far trasparire i suoi pensieri, sorrise e scrisse, per poi congedarsi di buonagrazia con la scusa di andare a eseguire gli ordini.

“Spetterebbe a me, occuparmi di queste cose. Controllare che tutto sia in ordine. Solo il Governatore Generale delle truppe e delle rocche.” ricordò Giacomo, sistemandosi un po' sul divanetto, facendo cigolare appena l'interno in legno.

Caterina guardò il marito, il cui fisico andava sempre più irrobustendosi, mostrando una disponibilità di muscoli che stava andando del tutto sprecata. Un corpo del genere, ragionò la Contessa, sarebbe tornato comodo a un uomo di fatica, non a uno che se ne stava tutto il giorno a cincischiare. Anche se Giacomo non si tirava indietro davanti al lavoro pesante, doveva sempre essere spronato a sporcarsi le mani, perché di sue iniziative non ne aveva praticamente mai.

La colpa, bisognava ammetterlo, era anche di Caterina, che lo invogliava a tralasciare i compiti che avrebbero potuto mettere in dubbio la sua autorità. Peccato che lui la stesse prendendo tanto alla lettera.

“Nessuno ti vieta di farlo.” notò la Contessa, appoggiandosi leggermente alla scrivania del castellano, senza guardare il marito.

“Davvero?” fece il giovane, con un velo di triste sarcasmo, del tutto involontario, ma tremendamente pesante per le orecchie della moglie.

“Non provarci, Giacomo.” disse subito Caterina: “Non provarci nemmeno.”

“A fare cosa?” chiese lui, accigliandosi e alzandosi, con un fruscio di velluto e seta.

“A far ricadere la colpa della tua incompetenza su di me. Sai benissimo che non sapresti nemmeno da che parte prendere, se dovessi valutare lo stato di un rivellino o di una rocca, dunque non provare a insinuare che non ti occupi dei tuoi doveri perché sono io a impedirtelo.” fu a risposta, controllata, ma tesa, di Caterina.

Giacomo si adombrò, ma si morse la lingua, prima di ribattere in modo spiacevole. Avrebbe voluto dirle che se preferiva uno come Alfonso Este, che sapeva tutto di colubrine, falconetti e tattiche militare, non doveva far altro che dirlo.

“Perdonami.” fece Caterina, sorprendo il marito.

Il suo tono era dimesso, diverso da quello che era solita usare. I suoi occhi verdi cercarono quelli più scuri del marito e quando li incrociarono si allontanarono subito. Si sentiva in colpa, non tanto per quello che aveva appena detto, quanto perché si era ritrovata a pensare che un uomo come Alfonso Este, per quanto dalla morale più discutibile, sarebbe stato per lei un marito più valido rispetto a Giacomo, soprattutto di quei tempi.

Tuttavia, malgrado le evidenti carenze, Caterina non avrebbe cambiato Giacomo con nessun altro uomo al mondo.

Non sapendo come reagire, il Governatore Generale evitò di aprir bocca, prima di rovinare di nuovo tutto. Allargò le braccia e strinse a sé sua moglie, cercando di convincersi che i momenti di contrasto fossero normali e che la colpa fosse di entrambi. Se da un lato lui non riusciva a tenere il passo con lei, dall'altro lei, forse in buonafede, stava pretendendo troppo.

 

Attorno ad Alessandro VI, ormai, tutto parlava di guerra. Lui, che da Cardinale altro non aveva fatto se non mitigare, mediare e contrattare, per far sì che la pace rimanesse salda e perpetua, al fine di poter continuare i suoi maneggi in santa pace, ora si vedeva spuntare disordini e insurrezioni da ogni lato.

L'ultima in ordine di tempo, ma non alla quale di certo sarebbero presto seguiti altri episodi, era stata l'insubordinata sceneggiata di Giuliano Della Rovere in concistoro. Oltre ad aver oltraggiato il papa con la sua boria e con la sua dissennata idea di far comprare Anguillara e Cerveteri a Virginio Orsini, si era anche permesso di gridare minacce nemmeno troppo velate ai Borja in generale.

Rodrigo passeggiava nervosamente per le stanze del suo immenso appartamento in Vaticano, scartando una dopo l'altra tutte le ipotesi che gli affioravano in mente.

Pareva proprio che gli Orsini, alla fine, si fossero schierati, e anche abbastanza apertamente, in favore di Napoli. Non a caso il figlio di Ferrante, il Duca di Calabria, si era fatto ospitare men che meno da Giuliano Della Rovere, dopo essere stato in Vaticano a baciare anello e piede di Rodrigo. E Giuliano Della Rovere era ormai il braccio di congiunzione tra i napoletani e gli Orsini, in aperta opposizione con il papato.

Alessandro VI si levò con rabbia il cappello papale e cominciò a passarselo tra le dita, rodendosi il fegato al pensiero di come perfino i Fregoso si fossero già messi dalla parte di re Ferrante. Il Cardinale e suo figlio sapevano avere un grande ascendente e avrebbero saputo muovere le truppe in modo eccellente, se solo il napoletano glielo avesse chiesto. Con loro e i fratelli Orsini, Napoli si stava preparando a dar guerra a Milano e magari perfino ai francesi, come sostenevano le spie.

Rodrigo sbuffò. Non avrebbe voluto arrivare a tanto, ma forse era giunto il momento di cercare un contatto chiaro con Ferrante, che aveva a cuore la pace anche più di lui e convincerlo a legare la famiglia dei Borja a quella degli Aragona, in modo tale che alla sua morte il figlio Alfonso sentisse di non poter alzare le lance contro Roma.

Il papa sospirò, cominciando a spulciare silenziosamente l'elenco dei figli e dei figliastri di Ferrante e parenti, cercando di capire quali proposte matrimoniali proporre.

Mentre metteva a frutto gli anni di accanito spettegolare con cui era venuto a conoscenza profonda degli alberi genealogici di mezza Italia, Rodrigo non riusciva a mettere a tacere la rabbia nei confronti degli Orsini. Con tutto il bene che aveva fatto a Orsini Orsini, accogliendo la moglie, bella Giulia, a corte come se fosse una figlia...

 
   
 
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