Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    28/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Bianca Landriani stava passando con disinvoltura da una stanza all'altra, mentre la luce tranquilla che filtrava dalle finestre l'abbagliava man mano che attraversava gli ambienti.

Trovava quell'abitazione meravigliosa, per quanto non le piacesse la mancanza di riservatezza che davano i corridoi.

Adorava l'aria della costa, il sapore del mare che nelle giornate di vento le si posava sulle labbra, e stava apprezzando sempre di più la mitezza di quell'inizio inverno, così diverso da quelli che aveva vissuto a Milano prima e a Forlì poi.

Mentre pensava proprio a quella differenza, si trovò a passare per uno dei salotti in cui suo marito Tommaso era solito trascorrere i momenti di pausa. Non aspettandosi di trovarlo lì a quell'ora, Bianca trasalì scoprendolo in piedi vicino al camino spento, una lettera stropicciata tra le mani e lo sguardo corrucciato.

Bianca non ebbe bisogno di chiedergli che stesse leggendo, perché già conosceva la risposta. Da quando erano arrivate due lettere da Forlì – una di sua madre Lucrezia per lei e una di sua sorella Caterina per Tommaso – l'uomo non aveva fatto altro che rileggere ogni riga, indeciso sul da farsi, incapace di risolversi per un rifiuto o per il suo contrario.

Per quanto fosse penoso vederlo così, Bianca non era ancora riuscita a scuoterlo in un senso o nell'altro e non se la sentiva di influenzarlo troppo. Tuttavia, dalle occhiaie che cerchiavano gli occhi di Tommaso e dalla linea severa che non voleva più lasciare le sue labbra, la giovane capiva bene che non si poteva aspettare oltre. Più tempo avesse ancora passato a crogiolarsi nel dubbio, più la sua salute ne avrebbe risentito.

“Allora?” chiese Bianca, con un debole sorriso, avvicinandosi al marito, che aveva appena fatto un cenno, per mostrare di essersi accorto della sua presenza: “Torneremo a Forlì o...?”

Tommaso scosse il capo, ripiegando il foglio che aveva davanti e infilandoselo in una tasca interna del giubbotto di cuoio bollito: “Non lo so. Non so che fare.” guardò la moglie e chiese, veramente combattuto: “Che cosa devo fare?”

Bianca sospirò, chiudendosi per un attimo nel silenzio. Già un paio di volte gli aveva fatto notare che non era buona educazione, attendere tanto per dare una risposta. Era anche vero, però, che neppure lei aveva scritto a sua madre, nemmeno per dirle che non si erano ancora decisi.

Non poteva nascondere a se stessa di essere tremendamente indecisa. Da un lato sarebbe volata subito a Forlì – o Imola, ancora meglio – per rivedere la sua famiglia e ritrovare le piccole abitudini che si era ritagliata nel tempo trascorso nelle terre di sua sorella. Dall'altro, temeva in modo viscerale l'effetto che rivedere Caterina avrebbe avuto su Tommaso.

“Lei ha scritto a te, direttamente.” fece, dopo un po': “Significa che ha davvero bisogno di averti di nuovo al suo fianco. E poi – soggiunse, benché sapesse che quest'ultimo dettaglio sfiorava Tommaso solo lontanamente – essere Governatore di una città come Imola ti permetterebbe di guadagnare molto e avere una posizione importante.”

Anche solo pensare una cosa simile feriva Bianca, che ormai si era abituata ad avere Tommaso tutto per sé, impegnato per poche ore al giorno in mansioni di scarsa importanza, senza doverlo dividere con nessun'altra. Però si rendeva conto che Caterina non si sarebbe mai piegata a chiedere il suo ritorno, se non lo avesse ritenuto strettamente necessario per la sua sicurezza.

Vedere come il viso di Tommaso si stesse pian piano accendendo di speranza di fronte alla sua affermazione fu per Bianca una vera pugnalata tra le scapole.

Maledicendosi per la sua gelosia e la sua possessività, Bianca riuscì a trattenere solo per poco le lacrime, mentre, con la voce un po' soffocata diceva: “Accetta.”

Tommaso aprì la bocca, come per ribattere con un fermo 'no', ma Bianca, le guance che cominciavano a rigarsi, gli mise una mano sul braccio e rimarcò: “Accetta. Scrivile subito, prima di cambiare idea.”

L'uomo non riuscì a dissimulare il sollievo dovuto a quel permesso esplicito della moglie e tanto bastò a Bianca per non sopportare più la vista dei suoi occhi brillanti.

Mentre la sua giovane moglie riprendeva la sua peregrinazione per il palazzo, Tommaso sentiva il cuore battere all'impazzata e subito si buttò alla scrivania, per mettere nero su bianco il suo ennesimo giuramento di fedeltà nei confronti della sua signora, la Contessa Caterina Sforza.

 

Alfonso Este aveva deciso di porre fine al suo soggiorno forlivese e così aveva fatto preparare i suoi pochi bagagli e i cavalli per quella mattina. Voleva partire presto, per sfruttare il più possibile le ore di luce, dato che la sera scendeva sempre più in fretta man mano che ci si addentrava nell'inverno.

Stava attendendo la Contessa che aveva insistito per salutarlo appena prima della partenza, giusto, aveva detto, per scambiarsi le ultime parole in confidenza, lontano dalle cerimonie d'addio che si erano tenute in gran pompa la sera prima.

Alfonso la stava aspettando nel cortile d'addestramento ancora deserto. Era accanto al suo cavallo e gli dava di quando in quando qualche pacca sul collo, guardandosi attorno in cerca della signora di Forlì.

A quell'ora non c'era ancora in giro quasi nessuno, a parte qualche guardia e un paio di stallieri mezzi addormentati.

Il baio dell'Este allargò le froge e fece un breve nitrito, quando proprio dalle stalle uscì, con la corsa stentata dei suoi due anni scarsi, un bambino.

Sorpreso da quella visione, Alfonso andò incontro al piccolo, allungando istintivamente le mani quando lo vide in procinto di inciampare.

Lo prese tra le braccia e lo sollevò, in modo da poterlo guardare in volto e notò che stava piangendo, come se si fosse spaventato per qualcosa.

“Cosa ti ha fatto paura, eh, piccolino?” chiese, a voce bassa.

Non conosceva quel bambino. Era sicuro che non fosse uno dei figli della Contessa, tuttavia gli parve vestito troppo bene per essere il semplice figlio di un qualche abitante del castello.

Il piccolo si guardò alle spalle, come a muovere una silenziosa accusa, mentre il suo corpicino robusto veniva scosso da qualche tremito dovuto al pianto.

Alfonso seguì la direzione indicatagli e riuscì a scorgere per un secondo un profilo che ben conosceva, prima che questo si dileguasse nelle ombre della stalla. Quello che si era sottratto alla sua vista e quindi alla sua eventuale richiesta di spiegazioni era sì, invece, uno dei figli della Contessa: il più grande, Ottaviano, che di anni ormai ne aveva ben tredici.

L'Este rimise in terra il bambino e si chinò su di lui per chiedergli cosa fosse accaduto – seppur, si disse, un bambino di quell'età difficilmente avrebbe saputo spiegarsi adeguatamente – ma la voce gli morì in gola, mentre i suoi occhi si puntavano in quelli del piccolo.

“Bernardino!” esclamò Giacomo Feo, spuntando come una furia alle spalle di Alfonso: “Eccoti, finalmente! Ma dove ti eri cacciato?! La balia ti sta cercando da un'eternità!” e senza tante cerimonie acciuffò il bimbo e lo prese tra le braccia, sgridandolo una volta di più: “Lo sai che ci fai preoccupare, quando sparisci così!”

Gli occhioni verdi di Bernardino si riempirono ancora di lacrime, ma si trattava di un pianto silenzioso, quasi di paura, di fronte alla furia del Governatore Generale.

“Vostro figlio?” chiese Alfonso, trovandola come unica spiegazione plausibile per quel comportamento che, per quanto rabbioso, denunciava solo una forte preoccupazione.

Giacomo deglutì un paio di volte e poi guardò l'ospite indesiderato che finalmente se ne sarebbe tornato nella sua Ferrara e sporse in fuori il mento: “Esatto.”

L'Este riprese le redini del suo destriero, che se n'era stato tranquillo e immobile per tutto il tempo, e ripensò che in effetti aveva sentito dire che il Governatore aveva avuto un figlio da una popolana, morta di parto. Però, ora che vedeva suddetto figlio, non era del tutto sicuro delle chiacchiere che aveva sentito lungo il viaggio.

“Ha degli occhi meravigliosi.” insinuò, con un breve cenno del capo.

Giacomo, di riflesso, specchiò le sue iridi castane in quelle verdi ramate del figlio e poi tornò a guardare Alfonso, che concluse, sardonico: “Mi ricordano molto quelli di qualcuno di nostra conoscenza.”

Il Governatore Generale, stringendo impercettibilmente il braccio attorno a Bernardino, come se in qualche modo temesse di vederselo strappare di mano, studiò un momento Alfonso, chiedendosi fin dove volesse spingersi.

Il ferrarese comprese il significato di quello sguardo e si affrettò a scuotere il capo, con un sorrisetto, proprio mentre i passi della Contessa cominciavano a risuonare alle sue spalle.

“Non sono affari miei.” concluse l'Este, in un sussurro, strizzando l'occhio a Giacomo e volgendosi verso la signora della rocca.

Caterina guardò prima Alfonso e poi Giacomo e Bernardino, mentre lungo la schiena le scendeva qualche goccia di sudore freddo. Approfittando delle spalle dategli dall'Este, il Governatore fece appena segno di no col capo, come a dire che non era successo nulla di che, così la Contessa di rilassò un po' di più.

“Mia signora – salutò Alfonso – stavo giusto lodando il vostro Governatore Generale. È lodevole, da parte sua, occuparsi tutto da solo di un figlio, visto che la madre non può più farlo.”

Il naso dritto dell'Este vibrò un istante, divertito nel notare come l'espressione di Caterina apparisse più colpevole, che non imbarazzata, e decise di non calcare ulteriormente la mano. Dopo tutto, non poteva importargliene di meno, degli intrallazzi di sua cognata, almeno fintanto che non ledevano gli interessi di Ferrara.

“Soggiornare in questa rocca è stato un piacere.” concluse, facendo un inchino pomposo e un baciamano altrettanto pretenzioso e poi salì in sella, senza porre altro indugio.

Caterina si schiarì la voce e disse: “Avervi come ospite è stato un vero onore.”

Alfonso chinò il capo, con il suo solito sorriso stampato sulle labbra.

Si infilò il cappello che aveva legato alla sella e raddrizzò la piuma che lo adornava: “La prossima volta che sarò da queste parti non esiterò a farvi visita.”

La Contessa assicurò che l'ospitalità non gli sarebbe stata negata e, appena prima che il ragazzo spronasse il suo baio per andare a raggiungere il resto del corteo ferrarese – già fuori dalla rocca, in procinto di mettersi in viaggio – gli disse, con fermezza: “Vi raccomando mia sorella Anna Maria. Non fatela soffrire più.”

Giacomo fingeva di non ascoltare, ben sapendo che quelli erano discorsi privati in cui lui non c'entrava nulla, così si stava dedicando a Bernardino, asciugandogli il naso e le guance con la manica del giubbetto.

Tuttavia non gli sfuggì il momento di esitazione di Alfonso Este e poi la strana curva presa dal suo sorriso, ormai un ghigno al limite del beffardo, mentre rispondeva: “Come la vostra signora mi ordina.”

Dopo gli ultimi saluti di rito, Alfonso diede di tallone al cavallo che partì immediatamente, sollevando una piccola nuvoletta di polvere.

Caterina era ancora pensierosa, nemmeno lei convinta dal tono con cui il figlio di Ercole Este l'aveva rassicurata in merito ad Anna Maria.

“Avanti – bisbigliò Giacomo al piccolo Bernardino – vai da tua madre e abbracciala forte.” e lasciò giù il bambino, che con le sue gambotte ancora troppo corte per dargli un bel passo, andò fin da Caterina, aggrappandosi alle sue gonne.

La donna, con ancora la mente altrove, lo prese tra le braccia. Per quanto fosse in pena per la sorte di sua sorella, era anche scossa dalla tensione provata poco prima, quando aveva visto Giacomo con Bernardino a fronteggiare il loro ospite. Alfonso aveva capito o per lo meno aveva avuto un'intuizione corretta. A quel giovane la cosa non importava, era abbastanza palese, ma in futuro, se qualcun altro ospite avesse visto e fatto due più due...

Crescendo, Bernardino assomigliava a lei sempre di più. Non solo nel colore e nel taglio degli occhi, ma anche nella forma del viso e delle labbra. Prima o poi sarebbe stato quasi impossibile nascondere la verità, soprattutto in quel mondo pettegolo.

“Faremmo meglio a trovargli un posto sicuro fuori dalla rocca.” disse piano Caterina: “Una famiglia che se ne prenda cura, magari.”

Giacomo si irrigidì e allungò le mani, per farsi restituire il figlio: “Parli così perché ti sei agitata. È andato tutto bene, andrà sempre tutto bene.” ribatté il giovane, con ottuso ottimismo.

Caterina sospirò, ripassandogli Bernardino, ma ormai nella sua mente si era fatta strada quell'idea e non se ne sarebbe andata.

 

Ermes Sforza raggruppò i fogli che suo zio Ludovico gli aveva appena passato. I suoi occhi allungati indugiavano di quando in quando su una frase, ma decise che avrebbe avuto abbastanza tempo per leggere tutto con calma lungo il viaggio.

Il Moro aspettò con pazienza che il nipote sistemasse i documenti nella sua cartella e poi attirò la sua attenzione con un suono gutturale.

Ermes sollevò il viso, mettendo in mostra le labbra imbronciate e il naso importante, che ricordava in modo impressionante quello di suo zio, e si mise in ascolto.

Ludovico sospirò e disse, con cautela: “Credo non sia necessario ricordarvi che dinnanzi al papa dovrete parlare a nome di vostro fratello Gian Galeazzo e non mio.”

Ermes annuì lentamente. La carriera diplomatica aveva messo in luce la sua grande capacità di dissimulazione e di reticenza, facendolo in fretta diventare un uomo importantissimo per il governo difficile e contradditorio del Moro.

Benché Ermes avesse solo ventidue anni, sapeva tenere le redini di una trattativa molto meglio di uomini col doppio della sua età. A volte Ludovico lo invidiava per la sua freddezza e la sua abilità nel non mostrare mai quali fossero i suoi veri pensieri.

Anche in quel frangente, mentre gli ricordava di non sbandierare troppo il fatto che ormai il legittimo Duca fosse solo un fantoccio, non riusciva a comprendere quali fossero i veri pensieri del nipote.

Ermes assicurò con cura i laccetti della sua cartella e poi, con un lieve tremolio del doppio mento, concluse: “Se questo è tutto, mi preparerei per la partenza.”

Il Moro si alzò dalla scrivania e assicurò: “Vi farò trovare una scorta degna di questo nome.”

Il nipote ringraziò e uscì dalla saletta con la cartella di cuoio sotto al braccio. Per quanto non ne avesse fatto parola con suo zio, Ermes non era certo che Alessandro VI si sarebbe bevuto la storia che il Moro aveva confezionato con tanta cura.

Avevano atteso decisamente troppo per mandare una delegazione a Roma a giurare fedeltà al Santo Padre e la posizione scomoda di Ludovico rendeva quel temporeggiare ancora più sconsiderato.

Mettere avanti le mani, dicendo al papa che il ritardo era dovuto solo ed esclusivamente alla salute cagionevole del Duca Gian Galeazzo Sforza era un azzardo inaudito.

Senza contare che ormai in gran parte della penisola e non solo si sparlava della condotta ignobile tenuta da Ludovico nei confronti del figlio del legittimo Duca, tenuto quasi in ostaggio a Milano, mentre il padre si trovava a Pavia, in una sorta di volontaria reclusione.

Ermes andò nelle sue stanze, per preparare gli ultimi bagagli. Aveva deciso di portare con sé vestiti molto pesanti, temendo i rigori dell'inverno. Con un mezzo sorriso che gli incrinò il solito broncio, si ritrovò a ricordare quando, più o meno nello stesso periodo dell'anno, era dovuto andare a Napoli a rappresentare suo fratello durante le nozze per procura con Isabella d'Aragona.

Il sorriso si spense subito, rilasciando il posto alla sua classica smorfia a metà strada tra il triste e l'annoiato, nel pensare come sua cognata ora fosse già al settimo mese della sua seconda gravidanza, esattamente come la moglie del Moro lo era della prima. Per un diplomatico, già pratico delle dinamiche di corte come era lui, non era difficile capire quale dei due bambini avrebbe avuto la meglio.

Se poi il figlio del Moro fosse stato un maschio e quello dell'Aragona una femmina...

Ermes sospirò e gettò la cartella nel borsone che avrebbe legato alla sella. Una cosa per volta, pensò. Prima di tutto doveva cercare di appianare i dissidi con papa Borja e attirarsi le sue simpatie, dato che lo spagnolo non si era ancora schierato apertamente né per Napoli né per Milano.

Solo dopo, in un secondo momento, Ermes avrebbe deciso con chi schierarsi, nella guerra intestina del Ducato.

Prese la mappa dal tavolo e, prima di ripiegarla e metterla in borsa, ricontrollò un'ultima volta il suo itinerario. Due tragitti diversi all'andata e al ritorno, per ridurre i rischi. Soste brevi e ponderate lungo la strada, quasi sempre da parenti e famiglie amiche. E tra una cena e l'altra era necessario anche cercar di convincere più parenti e amici possibile a sposare la causa milanese a scapito di quella napoletana.

L'unico rammarico, per Ermes, era il non poter far tappa anche a Pesaro, decisamente troppo fuori dalla rotta. Avrebbe voluto poter parlare a quattr'occhi con Alessandro Sforza per capire quanto ci fosse di vero nella chiacchiere raccolte dalle spie milanesi circa una sua possibile promessa di matrimonio a Lucrecia, la figlia del papa.

Ermes prese il borsone e se lo caricò in spalla, diede un'ultima occhiata alla sua stanza per controllare che fosse tutto in ordine, e pensò che avrebbe chiesto notizie del presunto sposalizio imminente a suo zio, il Cardinale Ascanio, per quanto non si fidasse troppo dei porporati di Roma che, una volta indossato l'abito talare, avevano spesso difficoltà a ricordare a chi andava la loro fedeltà.

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas