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Autore: Naco    29/04/2009    6 recensioni
Un incontro, assolutamente casuale. E la ruota del destino comincia inesorabilmente a girare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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- Questa storia fa parte della serie 'Mara e i suoi amici'
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XVI
Epilogo

 

"È meglio aver amato e perso che non aver amato mai."
(Men in Black)

 

In realtà sapevamo entrambi che tutto quello non sarebbe durato per sempre. Non ne avevamo mai discusso prima, e non ne parlammo neanche nei quattro giorni successivi. In cuor mio ero convinta che, facendolo, avremmo finito per concretizzare una situazione che volevamo vedere ancora lontana, infinita, distante.
Solo una volta mi era capitato di avvicinarmi troppo a quella realtà: dovevamo incontrare gli altri per andare tutti insieme al cinema – un film decente, stavolta, aveva assicurato Luca, e io del suo giudizio mi fidavo ciecamente – però noi ci eravamo visti prima, perché lui voleva sapere come si era svolto il mio incontro con l’editore.
Era stato in quel momento che il suo telefono aveva squillato. Quando il suo sguardo si era soffermato sul nome apparso sul display, uno strano guizzo aveva attraversato i suoi occhi verdi, ma era stato troppo veloce per riconoscervi alcunché. Mi ero allontanata un po’, per rispettare la sua privacy: non che se avessi ascoltato, ci avrei capito qualcosa, visto che parlavano troppo velocemente per le mie capacità linguistiche; però, ad un certo punto, forse perché spazientito, aveva alzato il timbro della voce e “Non ti preoccupare, tornerò presto!” mi era parso di sentire. Decisi che avevo capito male e, per questo, quando chiuse la chiamata non gli chiesi niente, né lui mi diede spiegazioni.
Quella sera facemmo l’amore in modo diverso; lo capii da come mi baciava e mi stringeva che qualcosa sarebbe successo di lì a poco: il suo era quasi un bisogno disperato, come se sapesse già che quella era l’ultima volta che potevamo stare insieme, e voleva viverla il più possibile.
“Dunque è arrivato il momento?” gli chiesi mentre eravamo ancora abbracciati, in silenzio; avevo intuito subito che c’era qualcosa che desiderava dirmi, anche se non riusciva a trovare il coraggio di farlo.
“L’avevi capito, vero?”
“Sì.”
Istintivamente, mi strinsi di più a lui: “Quando?”
“Domani. Ho tentato di rimandare la partenza più che ho potuto, ma hanno bisogno di me.”
“Lo so.”
Non dissi più niente: l’unica cosa che desideravo, allora, era restare accanto a lui il più possibile.
“Posso darti un passaggio fino all’aeroporto?” gli chiesi infine “Potrai avere il taxi gratis per un giorno: approfittane!”
Rise: “Ci speravo, ma non osavo chiedertelo.”
Non parlammo più. Non ero triste, almeno in quel momento: avrei avuto tutto il tempo per piangere e stare male, poi. Del resto, sapevamo troppo bene tutti e due, e lui più di me, che per noi non c’era futuro: lui aveva la sua vita, in Giappone, mentre io, in Italia, la mia. Tuttavia, il futuro, in quel momento, non mi faceva paura: nonostante sapessi che avrei sofferto tanto, avevo anche la salda consapevolezza che non avrei rimpianto tutto quello che era accaduto tra noi. Ero felice di averlo conosciuto, di averlo amato, di avergli donato il mio corpo e la mia anima e di aver condiviso con lui attimi importanti della mia vita, e neanche la schiacciante coscienza del domani senza di lui riusciva a farmi cambiare idea in proposito.
Il giorno successivo, passai a prenderlo per le tre, visto che era andato a salutare suo nonno e sua madre. A quanto pareva, i rapporti tra i due erano diventati molto più calorosi rispetto a quanto lui stesso avesse pensato inizialmente. Ne fui felice: un piccolo pezzetto di me sarebbe rimasto con lui anche in quel modo, e lui con me, per le stesse ragioni.
All’aeroporto erano tutti ad attenderci; me lo aspettavo, visto che ero stata proprio io a dare agli altri la notizia, quella mattina; Hiroshi, invece, ne fu sorpreso.
“Siete venuti a salutarmi?” chiese stupito
“In verità siamo qui solo perché l’altro giorno mi ero dimenticato di chiederti di portarci qualcosa di buono dal Giappone, la prossima volta che tornerai in Italia.” Scherzò Enrico.
“Lo farò, puoi contarci.”
Si strinsero la mano e scoppiarono a ridere, come due grandi amici.
“Sei il solito ingordo, Enrico. Grazie per averlo sopportato!”
“Figurati, Luca. Sono contento di avervi conosciuto, davvero. Mi sono divertito moltissimo con voi. Grazie… di tutto.” Lanciò un’occhiata nella mia direzione e capii subito a cosa si riferisse.
“Ma non farlo mai più, ok?” Ilaria gli diede un colpetto sulla spalla, a mo’ di scherzoso avvertimento.
Alzammo gli occhi sul tabellone e capimmo che il momento dell’addio si stava avvicinando. Hiroshi si voltò verso di me; cercai gli altri con lo sguardo, ma loro si erano già silenziosamente dileguati.
“Allora… io vado.”
Gli sorrisi: non volevo che mi vedesse triste. “Non è che adesso ti tuffi nel lavoro, come voi giapponesi siete soliti fare, e ti dimentichi di noi? Guarda che Enrico non ti perdonerà mai, se non gli porterai qualcosa la prossima volta!”
“Lo so. Ma secondo me avrà altro a cui pensare nel frattempo.” Sogghignò, facendomi l’occhiolino. Non capii, ma non me ne curai: avrei chiesto spiegazioni in un secondo momento.
“Seguirò le notizie sulla tua carriera, quindi non deludermi, ok?” la voce alla fine mi si ruppe, ma sperai che non se ne fosse accorto.
“Anche io voglio sapere del libro.”
“Te ne manderò una copia, quando uscirà.”
“E io convincerò mio padre a tradurlo in giapponese, così sarai conosciuta anche da noi e verrai a presentarlo a Tokyo.”
Risi, pensando a quanto fosse molto improbabile quella eventualità. “Perché no?”
“Ovviamente, ti ospiterò io.”
“Ovviamente.”
La voce registrata richiamò i passeggeri del volo per Roma Fiumicino. L’abbracciai un’ultima volta, un po’ più a lungo. La gente cominciava a muoversi verso il gate. Ci staccammo e lui raggiunse gli altri passeggeri. Rimasi lì, fino a che non lo vidi scomparire completamente, inghiottito dalla folla. Solo allora una mano si posò sulla mia spalla; di chiunque fosse, bastò quel contatto a far crollare l’ultimo residuo di autocontrollo che mi era rimasto.

*

Avevo la testa china sul libro che stavo leggendo, e per questo non lo notai subito; probabilmente non mi sarei neanche accorta della sua presenza, se, all’improvviso, la pagina non fosse stata coperta da un oggetto che me ne nascose le parole.
Per un attimo, rimasi interdetta a fissare quello strano tomo che era caduto tra le mie mani come dal cielo: inizialmente, non me ne resi conto perché non ero ancora così pratica con il giapponese da riconoscere gli ideogrammi al primo sguardo; quando poi la mia attenzione cadde sulle due parole scritte in katakana, nella parte superiore della copertina, gettai un urlo. Quello era il mio nome. E quello che avevo davanti era il mio libro. Quello che, quattro anni prima, una casa editrice non aveva voluto pubblicare e che invece, due anni dopo, la stessa aveva accettato dopo aver notato che il mio curriculum vantava, oltre a una laurea di secondo livello di editoria e giornalismo, anche la pubblicazioni di due raccolte di favole, ambedue presentate dal professor Andrea Berardi.
Ci volle solo un nanosecondo per capire chi fosse l’artefice di quell’inaspettato regalo. Non conoscevo poi tanti giapponesi, io, ed erano ancora meno quelli che erano disposti a prendere almeno due aerei e spendere quasi una giornata di volo per vedere la sottoscritta.
Balzai in piedi e lo abbracciai.
“Non mi avevi detto che saresti tornato così presto.” Dissi. L’ultima volta che ci eravamo visti, mi aveva spiegato che, purtroppo, non avrebbe avuto più un minuto libero per i successivi sei mesi e che, forse, solo per Natale sarebbe riuscito a raggiungermi.
“Ho voluto farti una sorpresa. Sei contenta?”
Dietro di noi qualcuno tossicchiò, ma lo ignorammo.
“Come sapevi che ero qui?” chiesi.
“Io so sempre dove sei.” Mi indicò il professor Berardi alle sue spalle.
Risi, capendo al volo: il professore non aveva soltanto curato le due presentazioni alle miei raccolte, ma, con il tempo, era nata anche una grande amicizia e una salda collaborazione; era appunto quello il motivo per cui mi trovavo fuori dal suo studio, quel giorno, in attesa che terminasse la lezione.
“E questo?” gli indicai la copia che avevo in mano.
“Ti piace? Ho chiesto a mio padre di tradurlo e l’ho fatto leggere a un suo amico editore. Gli è piaciuto molto e mi ha chiesto di portarti da lui, perché vuole conoscerti. Ho già chiesto anche al professore e lui ha detto che non ci sono problemi.”
Sgranai gli occhi, confusa: “Mi stai prendendo in giro?”
“Certo che no e questa è l’unica copia che esiste. Me l’ha fatto come favore personale.”
Lo fissai, ancora sconvolta. “Non ci posso credere.”
“Lo so. Quella volta, quattro anni fa, tu pensavi che stessi scherzando, quando ti promisi una cosa del genere. E, invece, come vedi, io parlavo sul serio.”
Rigirai il libro tra le mani. “E’ bello.” Commentai.
“Sono contento che ti piaccia. Aprilo, c’è qualcosa per te.”
Obbedii, curiosa. Mi bloccai: all’interno, c’era un biglietto di sola andata per Tokyo.
Lo guardai non sapendo bene come interpretare quel gesto. Si trattava solo dell’editore, o c’era qualcos’altro sotto? Lui mi sorrise radioso e allora capii che il significato era proprio quello che speravo, ma che al contempo temevo.
“Ne sei sicuro?” chiesi. Fino ad allora, avevamo continuato a sentirci spesso, tramite email, telefono e chattate agli orari più impensabili e a vederci ogni tanto, quando capitava che lui tornasse dai suoi parenti, una volta ogni sei mesi. In verità non avevamo mai parlato del futuro, ma prendevamo quegli incontri come un qualcosa che, finché c’era, durava, sicuri che la distanza era davvero troppa e che quel rapporto poteva seriamente finire da un momento all’altro.
Tuttavia, quel biglietto significava uno stravolgimento totale di quello strano equilibrio che c’era tra noi.
“Ne sei davvero sicuro? Non sarebbe meglio che tu trovassi una ragazza giapponese come te e che mi lasciassi perdere?”
Lui mi guardò dritto negli occhi. “Io non sono come gli altri giapponesi, e lo sai. Una ragazza giapponese non fa per me. Quella che io voglio accanto a me, sei tu e nessun altra. Possiamo provare, che ne dici?”
Guardai ancora il biglietto fra le pagine. Allora non sapevo se me ne sarei pentita, un giorno, o sarei stata felice di aver fatto quella scelta; sapevo soltanto che volevo provarci. E che, se non l’avessi fatto, l’avrei rimpianto per tutta la vita.
“Quando hai detto che vorrebbe vedermi, il tuo amico editore?”
“Il prima possibile.”
“E ovviamente mi ospiterai tu?”
“Ovviamente.”


FINE

Note dell’autrice
Come da sottotitolo, anche questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni.


Io ve lo giuro: non doveva finire così. Da quando ho iniziato la stesura di questa storia (e ancora lui doveva essere un attore e lei un’aspirante attrice di teatro, rifiutata ad un provino – lo so, faceva schifo l’idea), la mia unica certezza è sempre stata che doveva finire male. E, fino a due secondi prima di iniziare a scrivere la parte finale, ne ero stata convinta: avevo iniziato a immaginarmi lei sposata con figli che lo rincontrava dopo anni, oppure lui occupato e lei che presentava il proprio libro in Giappone… insomma, tutt’altro finale. Perché io, a un finale del genere, non credo.
Poi, però, ho capito che non era questo ciò che loro desideravano; così, come sempre, li ho lasciati fare. E sì, devo dire che come finale, mi piace. Del resto, è una storia inventata, quindi non ha senso farsi tanti scrupoli; mi piacerebbe del resto pensare che simili storie d’amore possano esistere. E sognare non costa nulla, no?
Quindi, spero che questo finale, che ve lo aspettaste o meno, vi sia piaciuto. Grazie a tutti coloro che hanno seguito le vicende dei protagonisti, a chi ha commentato, a chi ha solo letto, a chi è riuscito a beccare refusi che nessuno aveva notato e a chi mi ha dato dei consigli e soprattutto alle mie tre amate fangirl – Maja, Sol e Gra – perché senza il vostro supporto non sarebbe stata la stessa cosa. Sono affezionatissima a tutti i personaggi di questa storia e spero tanto che una parte di loro possa rimanere anche con voi.
Un grazie particolare, va a Tamaki Hiroshi, attore e cantante giapponese, (anche se probabilmente non lo saprà mai! XD) per avermi ispirato il personaggio di Hiroshi (oddio, forse non sarebbe così contento di sapere che gli ho creato un passato tanto tragico! XD) e per le sue canzoni, che mi hanno accompagnata durante la stesura di questa storia. Senza di lui, forse, questa storia non avrebbe mai visto la luce.
Arigatou minna-san!

 

Per tutte le fan di Luca e Enrico: non vi preoccupate, non mi sono dimenticata di loro! Andate qui, se non ci credete!
A presto!

   
 
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