Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    30/08/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Il Cardinale Ascanio Sforza stava leggendo una missiva arrivata dai suoi contatti ferraresi, con cui veniva informato del fatto che a fine novembre Ercole Este aveva accolto nel suo piccolo Stato gran parte degli ebrei esuli dalla Spagna.

Con una piega severa che si formava a lato della bocca, il Cardinale non finì nemmeno la lettera, saltando a piè pari i convenevoli e chiedendosi come mai suo fratello Ludovico non avesse approfittato di quell'occasione prima che lo facesse il ferrarese. Milano avrebbe avuto un gran bisogno di fondi, se davvero si stava preparando a una guerra, e qualche ebreo errante era esattamente ciò di cui aveva bisogno.

La voce di uno dei suoi servi personali lo riscosse. Si voltò a guardare il giovane che stava sulla porta e che gli ricordava dell'ora tarda.

“Il messo del Duca di Milano è già nella sala delle udienze.” annunciò il ragazzo, tenendo lo sguardo basso.

Ascanio gettò la lettera sulla scrivania e si alzò con uno sbuffo. Era proprio curioso di vedere chi era stato scelto per quel compito delicato. Per qualche tempo aveva creduto di veder arrivare a Roma il nipote Gian Galeazzo, ma era certo che alla fine si sarebbe scelto un rappresentante. O meglio, che Ludovico gli avrebbe scelto un rappresentante.

“Arrivo subito.” fece Ascanio, guardandosi con una punta di vanità allo specchio a parete, congedando il servo con un cenno della mano su cui spiccava l'anello cardinalizio.

 

Caterina stava temporeggiando, cercando con discrezione una famiglia che potesse ospitare Bernardino in città. Non voleva allontanarlo del tutto, e si diceva che suo figlio avrebbe comunque seguito le lezioni dei precettori della rocca e avrebbe imparato a combattere e cavalcare sotto i suoi occhi, tuttavia voleva trovare un punto d'appoggio fuori da Ravaldino, che le permettesse di saperlo al sicuro da sguardi indiscreti e da pettegolezzi scomodi.

Il piccolo si stava rivelando sveglio e molto vivace, però i suoi occhi si velavano sempre quando intravedevano Ottaviano o Cesare e questo a Caterina non piaceva.

Non aveva ancora avuto il coraggio di parlarne apertamente né con Giacomo né tanto meno coi suoi figli. Col marito non vi aveva fatto cenno col timore che egli potesse appigliarsi a quell'ennesimo pretesto per scagliarsi contro Ottaviano, magari addirittura in pubblico, rendendo l'aria nella rocca ancora più tesa. Con i due bambini, invece, Caterina non aveva ancora parlato perché non sapeva come prendere l'argomento. Se li avesse accusati apertamente, di certo almeno Ottaviano se la sarebbe legata al dito e avrebbe fatto di tutto per vendicarsi in qualche modo.

Così, tra una passeggiata in città e l'altra, Caterina cercava di carpire notizie e conoscere meglio alcune famiglie, per sceglierne una adatta a custodire Bernardino, almeno per qualche tempo.

 

Dicembre stringeva Roma in suo pugno, facendo gelare le pozzanghere e trasformando spesso la pioggerella in nevischio.

Se il Tevere scorreva ancora rabbioso e gorgogliante senza accennare a ghiacciarsi, le ossa di Rodrigo Borja non erano altrettanto resistenti.

Per quanto ci fossero sempre i camini accesi, il papa stava soffrendo quel freddo come un affronto personale. Non gli piaceva essere scosso dai brividi davanti ai suoi sudditi e ospiti, benché anche questi mostrassero segni di insofferenza.

Ermes Sforza, invece, sembrava completamente a suo agio, in quell'algida sala, e se ne stava ben bello, con il suo faccione imbronciato, vestito in modo raffinato, ma decisamente leggere per l'inverno.

Aveva svolto la sottomissione al papa con una diligenza paurosa e si stava perdendo in frasi di rito che Rodrigo detestava, ma che era costretto a ricambiare con altrettanta cordialità.

Dalla porta entravano e uscivano di quando in quando dei porporati, tra cui Ascanio Sforza, che si andò subito a sistemare contro la parete, incuriosito dalla presenza del nipote.

“Vorrete esser tanto gentile da rimanere presso la nostra santissima corte per il Santo Natale.” disse Alessandro VI, senza ammettere repliche.

Ermes sbatté un attimo le palpebre pesanti, ma si aspettava un simile invito, dato che si era ormai vicini al venticinque dicembre, perciò accettò subito: “A nome del mio signore, il Duca di Milano, vi ringrazio infinitamente per la vostra ospitalità.”

Il papa gli sorrise e si disse soddisfatto per quel risvolto. Voleva sondare a fondo gli animi di Milano, capire quanto ci fosse di vero sulla malattia del giovane Duca e sui maneggi del Moro con i francesi.

Ermes si congedò in fretta, a quel punto, rincuorato a sua volta dalla prospettiva di restare a Roma ancora qualche tempo. Voleva scoprire quale fosse la posizione del papa e se fosse possibile tirarlo dalla parte di Milano, in caso di guerra.

Mentre si avvicinava alla porta, Ermes notò Ascanio. Non lo vedeva da molto tempo, ma lo avrebbe riconosciuto ovunque, con quel naso lungo e quegli occhi infossati.

Il Cardinale gli fece un breve gesto con la mano, per chiedergli di incontrarsi nei suoi alloggi. 'Questa sera' sillabò, senza emettere un suono.

Ermes mosse impercettibilmente il capo per accettare e uscì. Ecco un'altra occasione ghiotta che gli si presentava su un piatto d'argento: era il momento di scoprire quanto ci fosse di vero nel presunto compromesso di matrimonio tra Giovanni Sforza e Lucrecia Borja.

 

La lettera di Tommaso Feo arrivò alla rocca di Ravaldino che era ormai quasi sera.

Caterina non perse tempo in spiegazioni, quando Giacomo le chiese chi mai le avesse scritto e perché mai avesse tanta fretta di leggere il messaggio. Dicendogli semplicemente di aspettarla al Paradiso, la Contessa si andò a sistemare nello studiolo del castellano, in quel momento deserto e illuminato solo da un paio di candele di sego e dal camino che si stava spegnendo.

Si sedette alla scrivania e spiegò con lentezza la carta, chiedendosi se sua madre Lucrezia avesse a sua volta ricevuto una lettere simile, ma scritta dal pugno di Bianca.

Non sapeva che aspettarsi. L'attesa per quella missiva era stata lunga e spesso il passare dei giorni l'aveva quasi convinta che non ci sarebbe mai stata una risposta. Aveva anche pensato di scrivere di nuovo a Tommaso Feo, ma alla fine aveva desistito, dicendosi che se la lettera non fosse andata persa come temeva, avrebbe dato una pessima impressione, dimostrandosi solo impaziente e ansiosa.

Fece un respiro profondo e finalmente puntò gli occhi sul foglio ingiallito, illuminato dalla luce tremolante delle due fiammelle.

La grafia di Tommaso era come sempre chiara e precisa. Le ci volle un istante per leggere l'intero messaggio, che, dopo una brevissima intestazione formale, diceva semplicemente: 'accetto la vostra offerta e resto in attesa di sapere quando potrò tornare nel vostro Stato'.

Caterina sorrise, trionfante, malgrado tutto. Per quanto il biglietto apparisse distaccato e quasi freddo, vedere la firma di Tommaso, seguita dall'inciso 'vostro soldato fedele', riaprì il cuore della Contessa.

Quali che fossero le nubi che si stavano addensando sull'Italia, Caterina cominciava a credere che sarebbe riuscita ad affrontarle e a rivedere il sereno.

Richiuse la lettera con cura, prese il necessario per scrivere e buttò subito giù una risposta. Che Tommaso e Bianca arrivassero in gennaio, giusto il tempo di destituire con i dovuti onori il vecchio Governatore di Imola. E di avvisare Giacomo.

Caterina a quel punto firmò, con uno svolazzo del tutto inatteso, chiuse con ceralacca e andò in cerca di un servo, affinché provvedesse a far partire il prima possibile la loro staffetta più rapida.

 

Ermes si lisciò l'abito sulla pancia un po' tesa per il gran mangiare e lodò la cucina per le prelibatezze che erano state messe in tavola.

“Sì, devo ammettere di essere stato molto fortunato con il vitto e l'alloggio.” ridacchiò Ascanio, finendo il suo vino con un unico sorso.

I servi si affrettarono a togliere i piatti vuoti da sotto al naso dei due uomini e subito dopo una nuova portata, questa volta di dolci, fece capolino per chiudere al meglio la cena.

“Decisamente una mensa molto ricca.” notò Ermes, il cui naso appena arricciato sottintendeva una vaga contrarietà, dato che da un religioso si sarebbe aspettato un po' più di sobrietà, tuttavia appena assaggiò la spongata tutta la sua severità svanì: “Che dolce celestiale!” esclamò, dimenticandosi per un attimo di non masticare a bocca spalancata.

Ascanio sorrise molto compiaciuto: “Vi piace, caro nipote? È esattamente come quella che mio padre Francesco Sforza, vostro nonno – precisò, come se ce ne fosse bisogno – prediligeva sopra ogni altro dolce. Sfoglia ricoperta da marmellata di pere e mele, mandorle, frutta candita e ovviamente pinoli con sopra un altro strato ancora di sfoglia.” elencò il Cardinale, indicando la pietanza mentre Ermes la ingurgitava, ben felice di potersi trovare d'accordo col suo defunto nonno sulla bontà di quel dolce.

Deglutendo a fatica l'ultimo boccone, Ermes recuperò un po' di dignità e fece notare: “Dovete aver faticato parecchio per spiegare ai cuochi che volevate... Non è un dolce di queste parti.”

“Infatti.” annuì Ascanio, prendendo per sé appena un pezzettino di spongata: “Ma un Vice Cancelliere può chiedere quel vuole in questa corte.”

Quell'affermazione apparentemente casuale fece riprendere a Ermes coscienza di quello che stava facendo. Era lì in veste ufficiale e non doveva in alcun modo lasciarsi fuorviare da cose come i dolci, per quanto deliziosi.

“Giusto, da quando Rodrigo Borja è diventato papa, avete fatto molta carriera. Molto in fretta.” disse il giovane, allontanando da sé il piatto, come a precludersi ogni altra tentazione di distrazione.

Ascanio, un po' indispettito da quel gesto, capendo che il nipote aveva ripreso le vesti dell'ambasciatore, si limitò a inclinare il capo: “Sono un uomo influente da anni, qui in Vaticano.”

Ermes si passò un secondo la lingua sulle labbra, riassaporando la dolcezza della marmellata e concluse: “Tanto da poter portare il papa verso la causa milanese?”

 

“Non avevo dubbi.” disse a voce bassa Giacomo, mettendosi a guardare ostinatamente fuori dalla finestra.

Caterina aveva aspettato qualche giorno per riferire a suo marito quello che Tommaso le aveva scritto, e si era aspettata una reazione simile. Anzi, se l'era aspettata peggiore.

“Se tu lo chiami, è ovvio che lui corre.” rimarcò il Governatore Generale, senza intonazione.

“Non ha affatto corso – precisò la Contessa, afferrando uno dei libri contabili, tanto per non starsene con le mani in mano – ci ha messo settimane a decidersi e credo che alla fine sia stata mia sorella a decidere al posto suo.”

Giacomo strinse i denti e quando si voltò per guardare la moglie, la trovò immersa nel controllo dei conti della città. Capì che era solo una recita per evitare discussioni, ma finse di credervi.

Sistemandosi il giubbetto imbottito tirandolo verso il basso con entrambe le mani, disse: “Dato che hai da fare...” e si affrettò a raggiungere la porta.

Senza una meta, il Governatore Generale delle truppe e delle rocche si bloccò appena fu in corridoio. Avrebbe potuto andarsene al Paradiso e dormire fino a sera. Oppure farsi un giro per Forlì. Non che ne avesse voglia.

Si mise allora a vagare per i corridoi freddi di Ravaldino, le mani allacciate dietro la schiena e gli occhi persi nei suoi pensieri. Di quando in quando incontrava qualcuno che lo salutava con un breve inchino o anche con una mezza riverenza, in rispetto al suo ruolo, ma Giacomo non si prese il disturbo di rispondere ad alcuno.

Il potere che la sua carica gli conferiva non era immenso, ma era comunque notevole ed egli ne stava approfittando sempre di più e spesso senza avvedersene. Gli dava uno strano piacere il poter non rispondere ai saluti o pretendere che questo o quel servo gli facessero questo o quel piacere.

Aveva più soldi di quanti non ne avesse mai avuti in vita sua e il suo guardaroba stava diventando degno di quello di un nobile.

Aveva una donna che amava alla follia, della quale non si sarebbe mai stancato e, anche se spesso doveva dividerla con lo Stato, la sentiva profondamente e solo sua. Anche quando sentiva la sua posizione messa in pericolo, come quando Alfonso Este era stato ospite alla rocca, alla fine Giacomo aveva riconferma dei sentimenti della moglie non appena potevano restare soli nel loro Paradiso e tanto gli bastava per scacciare i fantasmi.

Eppure il suo animo era inquieto.

Voltando un angolo con particolare veemenza, Giacomo quasi andò a sbattere contro l'ambasciatore milanese Sfrondati, che stava parlottando animatamente con il Conte Ottaviano.

Il ragazzino occhieggiò verso il Governatore Generale. La sua somiglianza con il suo defunto padre era sempre più palese. Anche se Giacomo aveva sempre visto Girolamo Riario da lontano o di sfuggita e ne servava un ricordo molto fumoso, vedere Ottaviano gli riportava alla mente ogni dettaglio del viso del defunto Conte.

I suoi tredici anni avevano reso il suo viso più allungato, le labbra piene e con la stessa inclinazione sfuggente di quelle di Girolamo. I suoi occhi, poi, per quanto tendenti al verde con quella luce, brillavano della stessa dispotica furia che aveva animato quelli del defunto padre.

Giacomo restò immobile, in attesa che uno dei due – almeno il milanese, che diamine – lo salutasse rivolgendosi a lui come si doveva. Invece entrambi si limitarono a fissarlo fino a che il Governatore, intimidito da quel sodalizio silenzioso, riprese a camminare veloce per sottrarsi al loro sguardo.

 

La mezza ammissione ottenuta da Ascanio Sforza dopo la loro prima cena privata aveva dato a Ermes molto su cui riflettere.

Un matrimonio che avesse unito i Borja agli Sforza era da prendere con le pinze, a maggior ragione se lo sposo prescelto era Giovanni, signore di Pesaro. Un uomo a suo modo fedele a Milano, ma talmente pavido e attaccato al suo particolare da poter diventare un insospettabile pericolo nel momento sbagliato.

Alessandro VI si era dimostrato molto affabile con Ermes, permettendogli in più di un'occasione di intrattenersi con lui durante il pomeriggio e la sera. Per Natale, poi, aveva insistito affinché il milanese partecipasse 'come uno di famiglia' al banchetto che aveva seguito la messa solenne.

Tuttavia, per quanto Ermes avesse tentato con tutto se stesso di lanciare ami e suscitare la vanità del papa, questi non si era lasciato scappare nemmeno mezza parola circa le sue intenzioni sul futuro.

Rodrigo Borja era stato tanto abbottonato nel suo discorrere che Ermes aveva quasi avuto il dubbio che l'uomo ancora non avesse deciso da che parte schierarsi.

Se da un lato Alessandro VI biasimava gli Orsini per il loro essersi schierati apertamente con Napoli, dall'altro se la prendeva anche con Savonarola per aver magnificato in più di un'omelia Carlo VIII, re di Francia, additandolo come re giusto e cristianissimo, riformatore della Chiesa.

Al contempo il papa sembrava simpatizzare tanto per Ferrante quanto per il Moro, confondendo le acque, mescolando le carte e lasciando ogni interlocutore – Ermes compreso – con il dubbio di essere stato preso per il naso per tutto il tempo.

“Avete progetti particolari, lungo la strada del ritorno?” domandò Rodrigo, ancora rosso per una risata sguaiata in risposta a una battutaccia di uno dei dignitari romani ospite in quella cena natalizia.

Ermes, che al volgare lazzo aveva concesso appena un sorrisetto tirato, annuì, parlando a voce abbastanza alta da coprire il chiacchiericcio della sala: “Prima di tutto mi fermerò a Forlì, poi risalirò verso nord.”

In realtà aveva un serratissimo programma di soste presso varie corti, per poter sensibilizzare più famiglie possibile alla causa del Moro, tuttavia pensò che al papa sarebbe bastato sentir nominare quella città sopra le altre.

Infatti Rodrigo si fece subito più serio e, corrugando la fronte, disse: “Allora sarete tanto gentile da salutare vostra sorella da parte mia.”

“Sorellastra. Siamo fratelli solo da parte di padre.” prese le distanze Ermes, rigido.

Il papa trovò quell'affermazione la cosa più interessante uscita dalle labbra di quel pingue emissario milanese.

In tutti quei giorni, infatti, Rodrigo aveva cercato di scucire notizie su Milano e sui piani del Moro o almeno sulla salute del legittimo Duca, ma quell'Ermes Sforza era riuscito a sviare ogni domanda più o meno diretta con frasi di circostanza, formule trite e ritrite e insulsaggini simili. Mentre ora, che non avrebbe avuto motivo, offriva al papa un così succulento dettaglio su cui speculare.

“Credevo che i figli di Galeazzo Maria Sforza, pace all'anima sua, fossero uniti come pochi, benché di madri diverse...” buttò lì lo spagnolo, giungendo le mani sotto al mento, d'improvviso disinteressato tanto al cibo quanto alle battutacce degli altri ospiti.

Ermes, che aveva parlato a quel modo di proposito per evitare domande su argomenti decisamente più sensibili per il bene dello Stato, colse volentieri la palla al balzo e ribatté: “Siamo uomini e donne, Vostra Santità, anche noi soggetti alle gelosie e alle invidie. Una volta per esempio...” e l'ambasciatore si gettò in un racconto in parte frutto di ricordi e in parte di fantasia in cui analizzava uno screzio tra lui e suo fratello Alessandro, nato per un giocattolo conteso.

Alessandro VI, per nulla interessato ai litigi di due bambini, lo lasciò comunque parlare, sperando che il discorso li portasse laddove voleva lui.

E invece Ermes fu abbastanza abile da non nominare più Caterina Sforza e Rodrigo se ne andò a dormire pieno come un uovo, con la testa che rimbombava di memorie di un bambino nato e cresciuto in un palazzo ducale le cui stanze più nobili confinavano con un pollaio.

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas