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Autore: Adeia Di Elferas    05/09/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ermes aveva già ripreparato i suoi bagagli e si stava godendo l'ultima colazione a Forlì, presso la corte di sua sorella. Sarebbe partito nel primissimo pomeriggio, appena dopo il pranzo.

Avrebbe voluto potersi fermare di più, affascinato dall'accortezza con cui Caterina aveva saputo risollevare uno Stato sull'orlo del lastrico, ma la sua agenda era fittissima e suo zio lo attendeva al varco al palazzo di Porta Giovia, pretendendo da lui ottimi risultati.

La tavola era imbandita quasi come per un pranzo ed Ermes apprezzò moltissimo il vino fruttato e i deliziosi dolci che gli erano stati presentati dai servi sorridenti.

Era stato molto mattiniero e non si aspettava compagnia, perciò quando vide entrare nella sala il Governatore Generale Feo dovette mascherare al meglio la sua sorpresa.

Il nuovo arrivato, che per Ermes doveva avere a occhio e croce più o meno la sua stessa età, aveva gli occhi assonnati e i capelli castani un po' spettinati, e continuava a sbadigliare, mentre raggiungeva il suo posto a tavola.

“Buongiorno.” salutò Ermes, sollevando allegro il suo calice.

Giacomo ricambiò il saluto con meno entusiasmo e prese subito uno dei tortini, nella speranza che il cibo lo aiutasse a riprendersi dalla notte quasi del tutto insonne.

La sera prima, infatti, lui e Caterina avevano avuto un'accesa discussione sulle sorti di Bernardino.

Non erano mai trascesi, cercando di moderare termini e toni, tuttavia entrambi avevano avvertito la tensione che aleggiava tra loro e nessuno dei due aveva digerito l'opposizione dell'altro.

La questione si era aperta con Caterina che diceva lapidaria: “Ho deciso che Bernardino stia presso una famiglia di Forlì, almeno per il momento, e verrà alla rocca solo per seguire le lezioni di spada e dei precettori, quando sarà il momento.”

Giacomo aveva subito perso le staffe, ma era riuscito a tenere a freno la rabbia, nel commentare: “Certo, tu decidi sempre tutto da sola.”

Il silenzio che ne era seguito era stato assordante, ma molto breve, perché subito entrambi erano passati a elencare i motivi per cui il loro bambino sarebbe stato meglio e più al sicuro dentro o fuori dalla rocca.

Quando nessuno dei due aveva più trovato parole per confutare le opinioni dell'altro, si erano trovati accaldati e vicini e tanto era bastato per cercare di stemperare l'alterco con la passione.

Il risultato era stato che nessuno dei due aveva potuto chiudere occhio fino all'alba. Giacomo si era svegliato dopo poco e aveva lasciato il Paradiso in silezio, sgusciando via dalle braccia di sua moglie, ben deciso a scaricare tutto ciò che di negativo provava con il lavoro pesante.

Così si era vestito in fretta, con abiti andanti e aveva raggiunto la tavola della colazione, prima di unirsi agli artiglieri che avevano in programma per quel giorno una revisione dell'arsenale.

Anche se appena dopo pranzo avrebbe dovuto presenziare alla partenza del Marchese di Tortona – tale era il titolo, più nominativo che fattivo, sosteneva Caterina, del diplomatico Ermes Maria Sforza – aveva davanti a sé almeno qualche ora di fatica e sperava che darsi da fare gli avrebbe rischiarato la testa quel tanto che serviva.

Ermes mangiava in silenzio, capendo che il Governatore Generale non aveva gran voglia di parlare e si mise a osservarlo di soppiatto.

Il milanese non poteva dirsi sensibile al fascino maschile, ma doveva ammettere che l'uomo che gli stava davanti aveva ben più di un pregio e di certo le donne se ne accorgevano non appena sollevavano lo sguardo su di lui. Malgrado il giovane Governatore quella mattina apparisse particolarmente provato e stanco, il suo aspetto era ugualmente notevole. Il profilo era deciso e le labbra morbide, gli occhi dal taglio aggraziato e la fronte spaziosa, il fisico asciutto, ma prestante e aveva un che di particolare nel modo in cui si muoveva che di certo attirava ancor più che non tutto il resto.

Ermes inghiottì l'ultimo boccone, svuotò il calice e si scrollò le briciole dal vestito, mentre valutava tra sé che forse tutti quei pettegolezzi che aveva sentito sul Governatore Generale avevano un fondo di verità. 'Il mantenuto della Sforza', lo chiamavano, e per quel che Ermes aveva capito di sua sorella, poteva anche essere vero.

 

Caterina lasciava andar via suo fratello di malavoglia. Sapeva bene di non poterlo trattenere oltre, ma avrebbe voluto poter tenere alla sua corte quel pezzo della sua famiglia, per quanto non fosse la persona di cui sentiva maggiormente la mancanza.

Avrebbe voluto poter intrattenersi ancora con lui, in quelle suggestive e placide serate invernali per parlare di Milano, di Pavia e di tutte le loro conoscenze comuni. Anche se a Imola c'era sua madre, a Forlimpopoli il suo fratellastro Piero e a breve sarebbe tornata anche Bianca, Caterina avvertiva quel distacco come un'ingiustizia.

“Passerò di certo da Lucrezia e suo marito Gian Piero, lungo la strada.” assicurò Ermes, mentre prendeva le redini dalle mani di uno degli stallieri.

“Quando sarai a casa – lo pregò Caterina, con un piccolo groppo alla gola – salutami nostra madre Bona e dille che le penso spesso, anche se non le scrivo per non crearle problemi.”

“Lo farò.” disse Ermes, poi si morse un attimo il labbro e aggiunse, a voce sensibilmente più bassa: “State attenta, sorella mia. A tutto quanto e a tutti. Non fidatevi di nessuno, nemmeno di chi condivide il vostro giaciglio.”

Caterina restò molto colpita da quell'affermazione, ancor più quando notò che lo sguardo di suo fratello era corso a Giacomo, che stava nelle retrovie, assieme ad altri notabili della città, accorsi su ordine della Contessa per augurare un buon viaggio alla delegazione milanese.

“Non parlo per invidia o per acrimonia – specificò Ermes, interpretando bene l'espressione della sorella – ma perché ormai capisco le persone e so che un uomo, o una donna nel vostro caso, di potere ha un'unica grande compagna: la solitudine.”

La Contessa non aveva parole per controbattere, soprattutto per la grande serietà con cui Ermes le stava parlando, così si limitò ad annuire, chiedendosi quanto suo fratello avesse davvero capito di Giacomo.

“Badate ai vostri figli – fu l'ultimo sussurro di Ermes, proprio nell'orecchio di Caterina, mentre l'abbracciava per accomiatarsi – a tutti e sette.” soggiunse, lasciando di marmo la donna.

Era palese che nel suo breve soggiorno Ermes avesse visto, sentito e capito tutto quello che si poteva e a Caterina non restò che sperare che suo fratello non usasse le sue informazioni per arrecarle un danno.

“Non so se e quando ci rivedremo.” disse il giovane, montando in sella, lo sguardo imbronciato rivolto all'orizzonte: “Ma sono felice di avervi potuta incontrare in questi giorni, da amico.”

Caterina ricambiò e lo salutò con la mano, contravvenendo al cerimoniale, mentre si allontanava dalla rocca, in direzione di Faenza.

Il drappello di rappresentanza che si era radunato a beneficio dei milanesi si disperse abbastanza rapidamente. Solo Giacomo restò indietro e affiancò la moglie, nel rientrare alla rocca.

Mentre misuravano a passi lenti e ampi il ponte levatoio, il Governatore chiese, con tono casuale: “Che ti ha detto tuo fratello, quando vi siete avvicinati?”

Caterina risentì gli avvertimenti di Ermes e per un istante le parve di notare una nota stonata nella voce del marito, come se dietro quella domanda ci fosse qualcosa di più. Scosse piano il capo, cercando di togliersi quel sospetto, forzando la propria coscienza a pensare che Ermes le aveva detto quelle cose solo per metterla in difficoltà. In fondo, per quanto fosse sangue del suo sangue almeno per metà, era pur sempre un uomo del Moro.

“Nulla... Mi raccomandava nostra madre Lucrezia e mi faceva ancora i complimenti per i miei figli.” 'Tutti e sette', aggiunse, solo nella sua mente.

Giacomo alzò appena una spalla e sospirò: “Gentile, non trovi?”

“Molto.” convenne Caterina, colta di nuovo da un attacco di malinconia di casa, e subito dopo, pensando a un modo per distrarsi da quel penoso stato d'animo, chiese: “Che ne diresti di ritirarci per un po'?”

Giacomo annuì, senza aggiungere altro, mentre passavano dalla porta principale della rocca e si dirigevano con passo sicuro verso la scorciatoia che li avrebbe portati al Paradiso.

 

Alla corte milanese l'aria era satura dagli odori pregnanti delle candele accese, dei camini, dei calici di vino e dei cortigiani, accorsi come mosche attirate dal miele.

Ludovico si intratteneva a parlare con questo o quel notabile, rosso in viso, gli occhi accesi da una strana follia, diviso tra la preoccupazione e l'esaltazione.

Beatrice era entrata in travaglio da ore, eppure all'alba delle dieci di sera ancora non aveva dato alla luce il tanto sospirato figlio.

“Se sarà maschio – stava dicendo il Moro, una mano al calice di vino, l'altra attorno alla spalla di Bartolomeo Calco – lo chiamerò Massimiliano, come il nostro imperatore. Mentre se sarà femmina, la chiamerò Bianca, come mia madre.”

Il cancelliere ascoltava fingendosi molto interessato, anche se ormai da ore sentiva quella manfrina e cominciava a esserne stufo.

“Ci saranno feste senza paragoni! Il domine magister Leonardo se ne occuperà in prima persona! E poi si terranno banchetti e balli e...” continuava il Moro, facendosi versare dell'altro vino, malgrado apparisse già sufficientemente brillo.

Passò un'altra ora e solo intorno alle undici di sera, finalmente, dalla stanza nella Rocchetta dove era stata sistemata Beatrice, una delle levatrici uscì trionfante per annunciare che la Duchessa di Bari aveva finalmente partorito: “Un maschio e in salute.”

Ludovico si divincolò subito dalla stretta dei presenti che volevano congratularsi con lui, e si tuffò come un fulmine verso le scale, per salire alla stanza della moglie e vedere con i suoi occhi il tanto sospirato erede.

Già dalla mattina del seguente 24 gennaio, la stanza del Tesoro della torre della Rocchetta, attiguo alla camera di Beatrice, si riempì di doni preziosissimi e unici, che giungevano da ogni parte d'Italia. Alcuni, addirittura, erano stati fatti partire con giorni e giorni d'anticipo, rischiando anche di arrivare troppo presto o, nel caso più infausto, di arrivare in una dimora colpita dal lutto.

Per fortuna, tanto Beatrice quanto il piccolo, chiamato dopo una breve discussione tra il Moro e la moglie Ercole Massimiliano, stavano benissimo.

 

Isabella d'Aragona aveva la fronte imperlata di sudore e i suoi capelli apparivano di un rosso ancora più scuro, mentre il travaglio le scuoteva le membra e le faceva spalancare a più riprese gli occhi.

La corte pavese era sempre meno numerosa, soprattutto da quanto Ludovico il Moro aveva invogliato tutti i nobili della zona a muovere verso Milano, concedendo in cambio favori ed elargizioni.

Quelli rimasti al castello di Pavia erano pochi, in genere anziani, e quasi tutti spie più o meno segrete di Ludovico. Per questo motivo Isabella aveva categoricamente vietato ai cortigiani di essere presenti al parto.

Gian Galeazzo era uscito a caccia, a suo dire troppo teso per sopportare l'aria claustrofobica che si respirava tra quelle stanze. Se l'alternativa era la neve, l'accettava molto volentieri. Così aveva preparato una muta di cani e una squadra di cacciatori ed era uscito di gran lena, sordo perfino alle preghiere di sua madre Bona, che era uscita dalle sue stanze per gentile concessione delle guardie, in modo che aiutasse la nuora durante il travaglio.

Se la Duchessa di Bari aveva avuto al suo servizio appena due giorni prima le migliori levatrici del Ducato, la Duchessa di Milano poteva avvalersi solo di un'anziana balia e della suocera.

Quando finalmente il travaglio giunse alla sua conclusione, Isabella accolse quasi con sollievo la voce di Bona di Savoia che, strozzata dall'emozione, annunciava: “Una femmina...!”

Anche se per la sua lotta politica sarebbe stato meglio un altro maschio, l'Aragona ringraziava Dio di averle dato una femmina. Almeno, forse, questa volta il Moro non gliel'avrebbe strappata di mano per paura di avere in lei un futuro rivale.

 

Teodora Angelini, una damigella ferrarese che viveva alla corte di Milano da quando vi si era trasferita Beatrice, scrisse a Isabella Este, che non aveva potuto in quei giorni lasciare Mantova per accorrere al fianco della sorella partoriente, una lettera piena zeppa di descrizioni dei regali e degli invitati.

Non le nascose la sorpresa della corte nel sapere che il Moro, pazzo di gioia, aveva subito dichiarato un'amnistia e cancellato i debiti dei privati cittadini nei confronti del Ducato. 'Come s'egli fosse il Duca', aveva precisato la donna.

Beatrice, invece, aveva personalmente indetto una battuta di caccia al daino, convincendo tutte le sue dame di compagnia a prendervi parte in sua vece, dato che lei era ancora costretta a letto, provata dal parto che si era rivelato tutt'altro che facile.

Isabella Este aveva letto e riletto come dal 4 di febbraio era stato per tutti possibili far visita alla puerpera e al bambino, che erano stati sistemati in stanze ricchissime, piene di arazzi, con i doni di tutt'Italia in bella mostra.

Nell'immaginare tutto quello sfarzo, Isabella non poteva che essere felice per sua sorella, anche se la sua coscienza la metteva di fronte a un dilemma notevole. Beatrice era sua sorella, ma la legittima Duchessa era Isabella d'Aragona che, per quel che si sapeva, aveva partorito una bellissima bambina che era stata chiamata Ippolita, ma nessuno era accorso a festeggiarla.

Se quella era una delle battaglie che Beatrice Este e Isabella d'Aragona stavano combattendo su fronti contrapposti, era palese che la ferrarese la stesse avendo vinta.

 

Dopo la partenza di Ermes, a Caterina non era rimasto altro che aspettare il ritorno di Tommaso Feo e Bianca Landriani.

La neve continuava a cadere e le campagna parevano addormentate nelle brevi e buie giornate di quell'inverno. Non avendo in vista altri particolari ospiti, la Contessa aveva preso un po' di tempo, per la questione di Bernardino, benché fosse cosciente del fatto che il piano andava messo in atto il prima possibile.

Aveva già escogitato un modo per dimettere il vecchio castellano di Imola senza grandi incidenti. Aveva avuto con lui un colloquio privato in cui lo aveva messo di fronte alle evidenti difficoltà che ormai aveva. Faticava a leggere e scrivere per i problemi agli occhi, non riusciva più a cavalcare come un tempo per via del mal di schiena e ormai le lunghe riunioni lo sfinivano tanto da costringerlo poi giacere per ore nel letto nel tentativo di riprendersi.

Guglielmo Altodesco, uomo tutt'altro che stupido, aveva condiviso tutto quello che la Contessa aveva detto e aveva infine accolto la proposta di dimissioni di buon grado, con l0unico cruccio di non essere riuscito a servire la sua signora fino alla morte.

Dunque si erano messi d'accordo e avevano deciso che l'uomo di sarebbe ritirato a vita privata non appena il nuovo Governatore avesse fatto ritorno da Savona.

La notizia della nascita di Ercole Massimiliano – o Massimiliano e basta, come scriveva il Moro nelle sue lettere – era arrivata anche a Forlì e Caterina non aveva potuto far altro che dare il via a una serie di festeggiamenti e cerimonie atti a dimostrare una volta di più a suo zio tutto il suo riconoscimento per quello che era accaduto durante la congiura degli Orsi.

Non potendo sdebitarsi con il danaro, quello era il minimo che la Contessa potesse fare.

Aveva anche ricevuto una lettera di suo fratello Gian Galeazzo, che la metteva a parte della nascita della piccola Ippolita.

A quello smacco andava a sommarsi lo scandalo che era trapelato solo in quegli ultimi tempi, il cui fondamento era dubbio, ma poco importava: quando una voce comincia a circolare, è difficile metterla a tacere, per quanto possa sembrare assurda.

Lo stesso Ludovico, infatti, aveva fatto sapere di aver sventato un attentato alla vita di Galeazzo Sanseverino e di un certo Rozone, il cui mandante sarebbe stato niente meno che Isabella d'Aragona. Ella, a sentire il Moro, voleva morti entrambi in quanto il primo portava il Duca a indulgere sempre di più nei suoi vizi, istigandolo anche a trattare male lei e tutti gli altri abitanti del castello, mentre il secondo, Rozone, era stato tacciato di essere l'amante di Gian Galeazzo.

Isabella si era subito difesa, facendo sì che anche gli ambasciatori napoletani la proteggessero e forse la questione si sarebbe sgonfiata subito, almeno dal punto di vista legale, benché Caterina fosse certa che suo zio non avrebbe abbandonato presto quella succulenta diceria. Se c'era un arma vincente, in quella guerra a suon di screditi e colpi bassi, era un pettegolezzo come quello.

Caterina poteva solo immaginare la tensione che doveva essersi creata nel Ducato in quei giorni e fu grata al cielo di non essere coinvolta in prima persona.

Stava camminando distrattamente sotto il porticato, sfuggendo all'ennesimo banchetto che era stato imbandito per festeggiare l'erede di Ludovico – come se fosse il vero erede al titolo – quando intravide una scenetta che attirò la sua attenzione.

Suo figlio Bernardino stava giocherellando con una delle balie vicino al pollaio, rincorrendo una gallina che era scappata, o che la domestica aveva volutamente fatto uscire dalla gabbia.

Caterina lo guardò, mentre muoveva passi incerti nella neve, le guance arrossate dal freddo e gli occhi verdi concentrati e assorti nello sforzo di portare a termine la sua difficile missione: ricatturare la gallina fuggitiva.

Mentre lo osservava tendere le piccole braccia e rialzarsi ogni volta che cadeva dopo uno slancio andato a vuoto, Caterina si rivide in lui più di quanto avrebbe voluto. Esattamente com'era accaduto a lei da bambina, lui poteva godere di una libertà maggiore dei suoi fratelli: giocava coi soldati, vagava per le stalle, correva dietro ai polli... Pur avendo bei vestiti e potendo accedere a un'istruzione superiore alla media, conduceva la stessa vita che aveva condotto Caterina alla sua età.

Malgrado lei e Giacomo fossero sposati, il loro piccolo non aveva una vita dissimile da quella che avrebbe avuto un qualunque figlio illegittimo di un nobile qualunque.

Con un sapore amaro che le rendeva difficile perfino deglutire, Caterina voltò le spalle a Bernardino, che ancora cercava di recuperare la gallina, e ritornò dentro alla rocca.

 
   
 
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