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Autore: Adeia Di Elferas    10/09/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Com'è quella frase che dici sempre?” chiese Francesco Gonzaga, mentre la sua barba folta solleticava il collo di sua moglie.

Isabella Este rise e cercò in modo blando di calmare l'ennesimo assalto del marito, senza alcun successo. Francesco era tornato da poco a Mantova e da quando aveva messo piede al palazzo, si era rintanato con lei nella loro camera matrimoniale e non aveva dato alla giovane ancora un attimo per tirare il fiato.

Le loro differenze, sempre più evidenti, non facevano che avvicinarli, rendendo ogni loro incontro dopo una separazione più o meno lunga, di un'intensità rara.

“Nec spe – sillabò Isabella, tra le risate, mentre il marito, di bassa statura e tendente alla pinguedine, malgrado il suo instancabile esercizio nelle battaglie tanto campali quanto amorose, la stringeva a sé con sempre maggior forza – nec metu.”

Francesco smise un istante di baciare la pelle liscia della giovane e la guardò con una scintilla ironica negli occhi: “Dovrei usarlo come grido di battaglia.” disse in uno svolazzare di lenzuola, mentre si avventava su di lei come se stesse cercando di impedirle la fuga.

“Mi hai tradito spesso, mentre eri via?” chiese Isabella, con la voce che le moriva nella gola, non riuscendo a trattenere quella insana curiosità che la prendeva ogni volta che suo marito tornava a casa.

Francesco fece un suono gutturale e per un istante rimase immobile, facendo temere alla moglie di essere sull'orlo di uno scatto di rabbia, mentre invece si lasciò andare a una risata per poi dire, con leggerezza: “Il minimo indispensabile per non sentirmi troppo solo.”

Per quanto fosse brutto, basso, ignorante e infedele, Isabella non poteva fare a meno di essere attratta da quell'uomo così sensuale e amante dei piaceri della vita. Non gli faceva una colpa per la sua intensità, né per la sua sconsideratezza. Era un uomo di valore, per il suo modo di vedere il mondo, e poteva perdonargli il suo poco amore per la lettura e l'arte e la sua liberalità nelle relazioni con donne di malaffare, se tra loro la fiducia e l'amore restavano sempre vivi.

Da quando l'aveva sposata, Francesco stravedeva per lei, pur non riuscendo a trattenersi, quando una tentazione lo provocava. Alla fine, quali che fossero le avventure vissute lontano da Mantova, il suo unico pensiero era tornare da lei.

Secondo lui Isabella era formidabile, intelligente e colta più di ogni altra donna che lui conoscesse.

Era aggraziata, raffinata e sapeva essere brillante come pochi. Con i suoi diciannove anni incarnava alla perfezione quel fervore per la bellezza e l'arte che stava imperversando nelle corti di tutta Italia.

Di lei si fidava ciecamente, tanto che le aveva dato ogni genere di autonomia e il governo del loro Stato era in mano a entrambi. La cieca fiducia, ecco cos'era ad accendere Francesco in quel modo così particolare e incredibile.

Peccato che la passione, per il momento, malgrado fossero sposati da tre anni, non avesse ancora dato loro un erede.

“Non temere, avremo presto dei figli – disse, come leggendogli nel pensiero, Isabella, la voce rotta, affondando una mano nella zazzera castana del marito – e faremo grande il Marchesato.”

Quando era ormai pomeriggio inoltrato, Francesco si mise a sedere sul letto, illuminato dalla luce pallida che filtrava dalla finestra. Fece un paio di profondi respiri, sgranchendosi i muscoli, e andò a scostare i vetri, in modo da fare entrare un po' d'aria fresca.

Annusò con piacere il profumo della stentata primavera che stava lottando con l'inverno e, rivolgendosi alla moglie, disse: “Vado nelle cucine a prendere qualcosa da mettere sotto i denti... Sto morendo di fame. Vuoi qualcosa?”

Isabella scosse la testa, tirandosi il lenzuolo sul petto, trovando l'aria un po' troppo pungente.

Francesco infilò la veste da camera e senza farsi troppi problemi circa la sua presentabilità, uscì dalla camera a passo di marcia.

Quando tornò, aveva tra le braccia abbastanza cibo e vino da sfamare un reggimento e aveva portato con sé anche pane e salame per la moglie, che accettò la gentilezza con gratitudine, dato che malgrado il suo iniziale rifiuto, un po' di fame era venuta anche a lei.

“Alla fine cosa credi che accadrà?” domandò a un certo punto Isabella, togliendosi le briciole dal mento, mentre il marito le versava da bere, riprendendo un discorso che avevano iniziato quando Francesco era appena rientrato a casa.

L'uomo si scansò i capelli dalla fronte bassa e con una smorfia rispose: “La lega dovrebbe comprendere Milano, Ferrata, Siena e molto probabilmente Venezia. E Roma, se il papa accetterà davvero.”

Isabella valutò rapidamente come quell'alleanza sembrasse davvero una potenza. Anche se Napoli aveva degli ottimi comandanti, la Lega avrebbe avuto dalla sua uomini come suo marito Francesco e i soldati milanesi e veneziani, che erano tra i migliori d'Italia. Se era vero che lei avrebbe preferito la totale neutralità di Mantova, capiva anche che in quel frangente si trovavano a essere una potenza troppo piccola, in mezzo a tutti quei giganti. Se non si fossero schierati, prima o poi sarebbero stati schiacciati.

Tuttavia l'espressione di Francesco tradiva la sua insoddisfazione per quella prospettiva, così Isabella indagò: “Cosa non ti convince?”

“I veneziani.” sbuffò l'uomo, sfregandosi le mani a conclusione del pasto frugale: “Di loro mi sarei proprio stufato, dopo la mia ultima condotta. Per darmi i soldi che mi spettavano mi hanno tirato per il naso per mesi e alla fine ho dovuto acconsentire a fare quella buffonata della giostra e del torneo pur di vedere il mio compenso.”

Isabella ricordava bene le recenti tribolazioni del marito, ma quello non era il momento di cedere alle perplessità legate all'aspetto economico. Se si stava preparando una guerra su così ampia scala, la cosa fondamentale era arrivare vivi alla fine. Poco importava se vi si arrivava ricchi, se si era morti.

Perciò prese con trasporto la mano di Francesco e gli ricordò: “Guardiamo alle cose importanti e accostiamoci a questi anni con l'animo giusto. Senza speranza e senza paura.”

“Nec spe, nec metu.” tradusse lui, con un sorrisetto che per un attimo rese, agli occhi di Isabella, la sua brutta faccia la più bella del mondo.

 

Il laboratorio di Caterina Sforza non aveva l'aspetto di una spelonca da strega, quel giorno.

La primavera era ancora timida e incerta, ma da un paio di giorni non pioveva più e l'aprile avrebbe presto reso meno rigide le sere e le notti anche a Forlì.

Il medico di corte teneva l'orecchio appoggiato alla schiena nuda della Contessa, che respirava a fondo, per permettergli di sentire tutto quello che c'era da sentire.

Con una scrollata di spalle abbastanza rilassata, l'uomo lasciò libera la donna di rivestirsi e, mettendosi volutamente a guardare gli alambicchi disposti sul tavolo da lavoro per lasciarle un po' di riservatezza mentre infilava la veste, disse: “Non mi pare di notare nulla di particolare. Direi che non avete avuto più alcun sintomo, quindi potrei ritenervi guarita del tutto, anche se preferirei tenervi sotto osservazione periodicamente.”

“Non ho nulla da obiettare.” convenne Caterina, stringendosi come meglio riusciva i laccetti delle maniche: “Però non ditelo a...”

Non concluse la frase, mordendosi le labbra. Non voleva che Giacomo sapesse che lei era ancora impensierita per l'accesso febbrile avuto mesi prima. Se avesse saputo che si faceva visitare regolarmente, avrebbe subito pensato che gli si stava nascondendo qualcosa di importante. In quel periodo non era proprio il caso di suscitare i suoi sospetti, quale che fosse l'oggetto della questione.

Se si trovava nel suo laboratorio, per quel controllo medico, era proprio per evitare che qualcuno lo venisse a sapere.

“Non dirò nulla a nessuno, mia signora.” assicurò il medico, tornando a guardarla: “Non spetta a me decidere chi deve essere messo a parte delle vostre condizioni di salute.”

Caterina lo ringraziò e stava per aggiungere qualcosa quando nel laboratorio entrò la sua cameriera personale, con le erbe che la Contessa le aveva chiesto di cogliere per lei nell'orto che circondava la rocca.

La moglie di Bernardino restò un po' sorpresa nel vedere lì il medico di corte, ma Caterina prese due piccioni con una fava e disse subito, guardando l'uomo: “Ecco, con queste erbe ho finalmente tutti gli ingredienti necessari per farvi vedere la pozione di cui vi parlavo.”

Anche la serva parve interessata all'argomento, così Caterina la pregò di restare, mentre spiegava, concentrata: “Con questo intruglio, ritengo che si possa addormentare un uomo tanto profondamente da poter agire sul suo corpo senza che se ne avveda, facilitandone anche la guarigione.”

“Sarebbe ideale per curare le ferite gravi dei soldati – convenne il medico – che spesso muoiono anche a causa del dolore...”

“E potrebbe anche lenire il male di chi sta morendo...” sussurrò la cameriera, osservando il liquido che la Contessa stava mescolando lentamente.

“Esattamente!” esclamò Caterina, felice di vedere come il suo piccolo pubblico avesse subito colto le potenzialità della sua nuova pozione.

“Dovremmo provarlo, alla prima occasione.” propose l'uomo, massaggiandosi il mento.

“Magari sui condannati...” bisbigliò la serva, sempre più rapita da quei discorsi.

Caterina aveva avuto la stessa idea, ma non l'aveva ancora espressa per paura di passare per insensibile e crudele. Fatta forte dalle parole della sua cameriera, però, si disse concorde.

Il medico guardò le due donne, trovandosi in linea con il loro pensiero, mosso dalla curiosità per quel ritrovato, e poi puntò gli occhi sulla pozione e cominciò a chiedersi quale fosse il prezzo del bene e quale quello del male.

 

“Ma sarà proprio vero che quel Colombo ha scoperto delle terre inesplorate?” chiese Rodrigo al Cardinale Sansoni Riario, che lo stava servilmente aiutando a sistemarsi la tonaca.

“A quanto dicono... Ha riattraccato qualche settimana fa e sostiene che ci sia una gran quantità di terra da...” Raffaele non trovava le parole giuste, perciò riprese quelle di Alessandro VI: “Esplorare.”

Rodrigo vedeva già davanti a sé una distesa di campi e boschi ricchi di ogni ben di Dio e si sentiva euforico, all'idea di quello che sarebbe potuto accadere negli anni a venire. Per un istante le piccole meschinità e scaramucce d'Italia gli parvero prive di significato, di fronte a quello che era stato descritto dagli ambasciatori pontifici spagnoli in merito a queste terre scoperte dal navigatore genovese.

“Che meraviglia...” sussurrò tra sé il papa.

Raffaele non riusciva a provare tutto quell'entusiasmo per una simile notizia, vedendo, anzi, in terre inesplorate solo una fonte di spesa e pericolo. Tuttavia il suo dovere era servire il pontefice, perciò annuì con forza e gli diede ragione.

Ascanio Sforza si fece annunciare e Rodrigo, sorpreso per l'orario insolito, pregò il Cardinale Sansoni Riario di ritirarsi. Anche se si stava tenendo buono quel fannullone per poter un giorno sfruttare la sua influenza sulla Contessa Riario, non voleva renderlo partecipe di tutti i suoi maneggi.

“Vice Cancelliere!” esclamò Alessandro VI, accogliendo lo Sforza con un largo sorriso, non appena Raffaele si fu allontanato lasciandoli soli: “Mi spiace che le nozze tra il vostro congiunto e mia figlia siano state rimandate. Dopodomani sarebbe stato un giorno perfetto, per un matrimonio...”

“Sono sicuro che la decisione di posticiparle a giugno sia stata una scelta giusta.” disse Ascanio, che un po' se l'era presa, tanto con le titubanze di Giovanni, quanto con quelle di Alessandro VI.

Con un sospiro pesante, il milanese disse al papa di essere lì per parlare ancora della lega che si stava creando: “Per proteggere Vostra Santità, ovviamente, da un'eventuale invasione da parte dei napoletani.”

Lo spagnolo si mise a sedere alla scrivania e si massaggiava il dito con l'anello piscatorio, guardando il Cardinale Sforza con attenzione.

“Siamo tutti a conoscenza del pericolo che Napoli è per la Santa Sede e per voi. Ora che i Colonna e gli Orsini si sono uniti a re Ferrante, non oso pensare cosa potrebbe accadere. Con la Lega a opporsi, ci penseranno tre volte, prima di attaccare.” spiegò Ascanio, già prendendo i documenti che aveva redatto di suo pugno: “Se firmerete questo atto, legittimerete la çega capitanata da Milano e sarete protetto, in caso di aggressione.”

Rodrigo ci aveva pensato parecchio, in quegli ultimi giorni, e quella solfa l'aveva già sentita altre volte. Aveva insistito affinché lo Sforza mettesse una clausola secondo cui la Lega non era autorizzata in alcun modo a cominciare una guerra, se non fosse stata prima apertamente attaccata dai napoletani.

Secondo lui, ciò bastava a rendere quell'accozzaglia di Stati più o meno grandi più tranquilla e innocua. Se poi Napoli avesse davvero messo in atto qualche strategia particolarmente offensiva nei suoi confronti, allora tanto valeva lasciare che Milano e i suoi alleati combattessero per Roma.

“Date qua.” concluse Rodrigo, sbrigativo, più per tappar la bocca al Cardinale che altro.

Afferrò le carte e appose la sua firma laddove necessaria, e poi, mentre stava per apporre la data, 21 aprile, chiese: “Che data metto? Quella di oggi?”

Ascanio, con il cuore che batteva con forza nel petto, per la soddisfazione di aver raggiunto quel traguardo, rispose con prontezza: “No. Si era pensato di rendere effettiva la nascita della lega dal 25 di questo mese.”

Rodrigo agitò la mano, come a dire che quelle piccolezze non lo sfioravano, e scrisse, con eleganza: 25 aprile 1493.

 

La pubblicazione della Lega portò con sé molte inquietudini a Napoli. Re Ferrante non credeva possibile che si fosse arrivati fino a quel punto.

Quando aveva mandato il secondogenito Federico alla corte di Alessandro VI per cominciare a intessere qualche trama che andasse a bilanciare le crescenti simpatie del papa nei confronti degli Sforza, aveva subito capito che il momento era il più sbagliato possibile.

Negli stessi giorni in cui suo figlio era dal pontefice, Giuliano Della Rovere, che era un loro grande protettore, aveva suscitato le ire dello spagnolo per la storia di Anguillara e Cerveteri e così Rodrigo Borja era stato sordo a qualunque proposta.

L'unica carta che restava al re di Napoli era quella di fare come sempre il doppio gioco. Doveva coprirsi le spalle e i piedi allo stesso tempo, anche se la coperta era molto corta.

Così aveva fatto partire dalla sua corte un'accorata lettera a suo cugino, il re di Spagna, in cui si lamentava senza riserve delle mancanze e delle lascivie del papa, sottolineando come un uomo della risma del Borja tutto fosse fuorché un 'buon pastore' per la Chiesa.

Subito dopo, comunque, aveva stilato proposte matrimoniali indirizzate ai figli del suddetto Rodrigo, nella speranza di poter legare a filo doppio la sua famiglia e quella del papa, evitando sul nascere i futuri scontri e mitigando le arie guerresche che agitavano la primavera italiana.

Se solo ci fosse stato ancora Lorenzo Medici, pensava Ferrante, sarebbe stato più facile mantenere la calma nelle corti della penisola.

Il Fatuo, invece, non faceva altro che soffiare sulle ceneri, istigando ora i Colonna, ora gli Orsini, impicciandosi degli affari altrui e sognando grandi conquiste, quando in patria gli stava per scoppiare una rivolta tra le mani.

 

Ascanio Sforza stava ascoltando con un'espressione neutra sul viso. Gli era permesso assistere al colloquio solo ed esclusivamente in merito alla sua carica di Vice Cancelliere, ma Rodrigo Borja gli aveva fatto intendere che non avrebbe dovuto dire la sua in alcun modo, pena l'allontanamento immediato.

“Per l'Arcivescovo Cesare – stava dicendo l'emissario napoletano – una principessa aragonese con il principato di Salerno in dote, mentre per messe Jofré un'altra principessa della casa d'Aragona, con una dote che non vi lascerà di certo indifferente.”

Rodrigo ascoltava con un forte interesse quelle parole. Si era aspettato una seconda carica da parte di Napoli, ma quella munificenza un po' lo sorprendeva.

Jofré avrebbe potuto benissimo sposare una principessa aragonese. Sarebbe stata, anzi, per lui una prospettiva migliore di quelle che il papa aveva fino a quel momento preso in considerazione, ma Cesare...

La sua condizione di Arcivescovo non era potenzialmente un problema. Quello scapestrato, pensava Rodrigo con una certa indignazione, non stava dimostrando la minima inclinazione per vita di Chiesa, benché potesse fare quello che voleva. Da quando indossava l'abito talare non lo si vedeva mai sorridere e il suo modo di fare era divenuto irritante e scontroso. Forse il matrimonio gli avrebbe fatto bene. Aveva ricevuto solo i primi ordini, non sarebbe stato un grande scandalo, se avesse smesso la carriera ecclesiastica in favore di una carriera più politica e militare.

Tuttavia legare anche lui agli Aragona sembrava un grosso azzardo, che avrebbe sbilanciato molto le alleanze intessute da Rodrigo.

Il papa ringraziò il napoletano e lo pregò di ritirarsi e ripresentarsi dopo qualche giorno, in modo da dargli il tempo di pensare.

Ascanio Sforza, che se n'era stato zitto tutto il tempo nel suo cantuccio, balzò in avanti non appena il partenopeo fu fuori dalla saletta e cominciò subito a elencare quelle che secondo lui erano le pecche di quella proposta. Pur non trovando molto da dire contro un eventuale matrimonio tra Jofré e un'Aragona, lo Sforza si scagliò con toni accesi contro l'unione di Cesare e una napoletana.

Rodrigo, che aveva già un'idea simile a quella del Cardinale, finse di dare gran peso alla sua opinione e lo lasciò parlare fino a che, stanco di sentirlo inveire contro Napoli, cambiò discorso chiedendo: “Avete più avuto notizie del vostro parente Giovanni? Mia figlia Lucrecia si sta facendo impaziente di diventare moglie...”

 
   
 
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