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Autore: Elphie94    10/09/2016    5 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un piccola nota: questo capitolo è… doloroso. E violento. Non credo che il rating superi l'arancione, ma se non è così ditemelo. E anche se devo inserire qualche particolare avvertimento tipo “Tematiche delicate”, ecc. Non sono esperta di EFP, quindi non saprei che fare. Buona lettura.
 

xxvii.

la bestia nel cuore

 

 

 

Il giorno dopo eravamo già di nuovo in marcia. La terra umida sembrava imperlata di chicchi di diamante, tanto la rugiada brillava al sole di inizio Maggio. Attraverso un fitto bosco di querce e sempreverdi, il cui sentiero appariva conosciuto solo agli occhi di falco di Erik, superammo il guado di un piccolo torrente, dove lasciammo abbeverare i cavalli. Mi osservai nel riflesso dell'acqua: ero irriconoscibile. I capelli arruffati sotto il berretto spuntavano in tutte le direzioni, e la leggera peluria scura sul labbro superiore che non avevo potuto eliminare in quei giorni – non avevamo certo tempo per cose del genere – mi faceva apparire ancora più maschiaccio di quanto già non fossi. Il che era un bene, suppongo. L'ultima cosa che volevamo era che, in caso venissimo catturati, i nostri inseguitori riconoscessero in me le fattezze di una donna.

«Altri pochi giorni, al massimo una settimana, e arriveremo a Calais. Non preoccupatevi, Meg» mi diceva il Persiano in tono rassicurante, stringendomi un braccio. Io annuivo, insensibile. Non mi importava quale fosse la nostra meta: una parte di me voleva fuggire per non ricordare, un'altra non avrebbe mai voluto – né potuto – dimenticare.

Erik era muto. Avvertivo in lui una strana tensione, che si esprimeva all'esterno solo con manovre di prevenzione che dovevano apparire assai strane ad un occhio inesperto. Tornammo indietro più volte sui nostri passi per disperdere le nostre tracce ed evitare di essere seguiti. Chiunque ci stava alle costole doveva essere un vero segugio, perché Erik era un mago nel far sparire ogni traccia di sé e di noi che lo seguivamo.

«Sei preoccupato» gli dissi una volta. Ero seduta dietro di lui, con la testa poggiata alla sua schiena per riposare. A lui non sembrava dar fastidio, quindi mi permise di abbracciarlo in quel modo di buon grado. Forse anche lui aveva bisogno di calore umano. Il didietro mi era ormai diventato insensibile tanto mi doleva per il troppo tempo trascorso in sella, ma non emettevo un solo lamento. Il nostro viaggio era già difficile senza che ci fossi io ad intorbidire il morale della squadra.

«Sono sempre preoccupato» mi rispose Erik in tono enigmatico, e lo immaginavo accigliarsi e corrugare la fronte, anche se non potevo vedere il suo volto. Avevo appreso come distinguere i suoi stati d'animo dalla minima cadenza nella sua voce.

«Sei sicuro che ci stiano ancora alle calcagna, vero?»

«Certo che sì. Non sono mai stato più sicuro di qualcosa in vita mia.»

Deglutii. Ormai eravamo vicini alla meta, come diceva Nadir: dovevamo solo tenere duro. Eppure era arduo: anche i nostri cavalli erano allo stremo, tanto che avevo udito Erik e il Persiano discutere se non fosse meglio cambiare cavalcatura. Dicendo questo, l'uomo mascherato accarezzava con la delicatezza delle sue lunghe dita bianche la criniera scomposta e corvina di Notte, che accettava biada e mele solo da lui. Sapevo che, in caso avessero deciso davvero di acquistare nuovi cavalli, avrei dovuto trattare io l'affare. Per previdenza, loro non potevano avvicinarsi a nessun villaggio. In fondo, la mia mascherata aveva un duplice fine.

Prima di appisolarmi, che fosse sulla sella o sul duro terreno, nella mia mente rivangavo due nomi odiosi: Khanum e Shah, per ricordarmi di chi aveva dato l'ordine di uccidere mia madre. La mano che aveva eseguito l'assassinio era stato solo questo, un mezzo, e ormai era morto anche lui, grazie ad Erik, che – di nuovo – mi aveva salvato la vita. Gli incubi che mi perseguitavano avevano il profumo della vendetta, ora, che mi ribolliva nelle vene come fiele. Di notte sognavo di stringere tra le dita il cuore ancora palpitante della regina di Persia. Un sogno impossibile – come avrei potuto ucciderla se eravamo diretti dall'altra parte del mondo? – eppure l'unico che mi faceva rimanere ancora in vita.

Purtroppo mi restava ancora poco tempo per sognare.

 

 

Fu al calar del sole che ci raggiunsero. Il cielo era tinto di sangue, sfondo perfetto del dramma che ne seguì. Udimmo gli zoccoli dei cavalli e un rumore bizzarro, come di qualcosa di pesante che si trascinava sul terreno diseguale, e una risata macabra che ci zampillò nelle orecchie. Rabbrividimmo e ci guardammo alle spalle.

«Ci sono dietro!» esclamò il Persiano in tono strozzato.

Lanciai un'occhiata nella direzione che indicava Nadir. Neanch'io potei trattenere un brivido e un'imprecazione.

«Stringiti forte» mi disse Erik, al che per una volta non feci obiezioni. Silente, affondai il viso tra le sue scapole. «Dobbiamo aumentare di velocità.»

Diede di speroni e Notte si trasformò in un fulmine, ricoperto di schiuma bianca per lo sforzo. Avanti, bello, pensai, disperata, stretta ad Erik. Forse possiamo ancora seminarli.

Ma anche i loro cavalli erano veloci, più veloci dei nostri, che erano stanchi. Ci circondarono nel mezzo di una radura spoglia, con ai lati salici che svettavano come blocchi di granito in una fortezza, perché in egual maniera non potevamo superarli. Vidi il Persiano alzare le mani, sconfitto, col fiatone in gola, come la sua puledra d'argento. Erik emise un sibilo ed estrasse dal mantello il laccio del Punjab, pronto a combattere. Io mormorai un'altra imprecazione: li avevo contati, ed erano in troppi. Nove contro tre: non avevamo possibilità, e questo lo sapeva anche Erik.

Vidi anche che cosa aveva causato quello strano rumore che aveva destato in primo luogo la mia attenzione: era un carretto bestiame, che ora ci aveva raggiunto ed era trascinato da un'altra coppia di equini, guidati dall'ennesimo nemico. Ora eravamo in dieci contro tre: le probabilità a nostro favore erano minime. Erik era un guerriero incredibile, ma non era più giovane come una volta, e quella marcia forzata aveva debilitato anche lui.

«Azrael» disse uno di loro, con un sogghigno storto sul viso, in sella a un destriero fulvo. Aveva un volto caprino, e il suo pizzetto non contribuiva a dargli fattezze più umane. Disse qualcosa in una lingua che non compresi.

Erik s'irrigidì al mio fianco e rispose nella stessa lingua sconosciuta. Doveva essere persiano.

«Arrendetevi e scendete da quei cavalli. Non vi verrà fatto alcun male» ripeté il Caprone, questa volta in un francese stentato, di modo che anch'io potessi capire. Aggrottai la fronte, le viscere serrate dalla paura. Non è vero, pensai disperatamente. Estorceranno con la forza tutti i segreti di cui necessitano ad Erik, e uccideranno noi altri. E alla fine anche lui.

Gli altri sulle loro selle risero, avanzando con le spade sguainate. All'odore del metallo, Notte e la puledra d'argento diedero in un nitrito di terrore.

«Se non scendete da soli, vi costringeremo. Troveremo un modo» riprese il Caprone, che doveva essere il capo, dacché parlava sempre lui.

Fu a quel punto che uno dei sicari – un uomo dalla lercia barba nera e gli abiti macchiati di quel che sembrava vino – scese dalla propria cavalcatura con un'andatura ondeggiante e, prima che ce ne rendessimo conto, trafisse la gola della puledra d'argento con la sua spada lunga, ancora più rossa alla luce del sole al tramonto. Emettei un singulto, vedendo il cavallo cedere e accasciarsi a terra in un nitrito disperato, e Nadir cadere di sella tra le risate sguaiate del nemico.

Erik sibilò qualcosa in una parlata a me ignota, la lingua stretta tra i denti, e saltò giù di sella con una mossa aggraziata, facendo schioccare il laccio del Punjab. Mentre un altro degli uomini mi afferrava la gamba e mi faceva rotolare a terra, disarcionata a forza da Notte, anche quest'ultimo fu infilzato come un maiale arrosto e reso immobile dalla gelida Morte che ci circondava e con cui tutti rischiavamo di danzare, ora. Io scalciai a più non posso, rendendo difficile al mio rapitore il compito di tenermi ferma. Solo quando mi puntò una daga alla gola, mi decisi a non muovermi. Osservai il resto del campo di battaglia: era disseminato di cadaveri – ci erano voluti almeno quattro uomini per catturare Erik, che intanto aveva fatto strage. Ora erano in sei contro tre – anzi, due, visto che io ero in trappola e disarmata, praticamente inutile. Il pensiero mi diede le vertigini, tanto era cocente la rabbia dentro di me. Solo dopo che i quattro uomini furono a terra – chi ferito mortalmente da un proiettile di Nadir, chi strangolato a morte dal laccio del Punjab di Erik – il Caprone scese dal suo destriero fulvo e fece un cenno all'ultimo uomo rimasto in piedi di avanzare verso l'uomo mascherato. Quest'ultimo sicario, che era rimasto perlopiù nell'ombra fino a quel momento, entrò in campo come l'ultimo asso nella manica del nemico. Non avevo mai visto uno stallone più grande: ebbene, l'uomo che lo cavalcava era ancora più gigantesco. Con un solo pugno sulla mandibola, mandò Nadir al tappeto, confiscandogli la pistola e anche la spada che portava al fianco prima che riuscisse ad estrarla. Poi si occupò di Erik, i cui occhi brillavano rossi al lucore del sole al tramonto: era come osservare una battaglia tra demoni. La Montagna era più forte, così mastodontico, ma Erik era più veloce. Fu necessario che il capo, il Caprone, si scomodasse e lo trafiggesse con la sua spada, lasciandogli un sorriso sanguinante sul volto e strappandogli di dosso la maschera, perché Erik fosse costretto al suolo, sconfitto. Anche a lui confiscarono il laccio del Punjab.

«Codardo, l'hai attaccato alle spalle!» urlai, inghiottendo un gemito. L'orrido volto di Erik sembrava vomitare sangue: sperai che il Caprone non lo avesse ferito a morte.

«Meg…» disse il Persiano, facendomi segno di tacere per non aggravare la situazione. Ma io non mi sarei fatta zittire da nessuno.

«Pezzo di merda!» Esplosi in una sequela di imprecazioni in francese, che eppure il Caprone sembrò comprendere abbastanza da fare un cenno alla Montagna. L'uomo che mi aveva catturato mi teneva ancora ferma – a fatica – grazie alla daga che mi puntava alla gola, ma fu il pugno della Montagna a stendermi definitivamente. Percepii in bocca il sapore del sangue, e sputai un dente insieme a una boccata di saliva rossa. Per poco non mi ero morsa la lingua per la forza del pugno, e non riuscivo più a parlare.

«Finalmente la cornacchia si è zittita» disse il Caprone in francese, poi di nuovo in una strana lingua – persiano? – al che tutti risero: la Montagna, l'uomo che mi aveva catturato e che mi teneva puntata ancora la daga alla gola, il Caprone stesso e quello con la barbaccia nera che teneva fermo Nadir con delle corde spesse e una pistola alla tempia. Da dieci che erano, si erano ridotti in quattro, e questo solo per opera di due uomini. Compresi perché in Persia Erik era conosciuto come l'Angelo della Morte. Eppure nemmeno questa nomea era bastata a salvarci.

 

 

Fummo scaraventati, opportunamente legati, nel carro bestiame, che emanava un lezzo insopportabile di piscio e paglia secca. I quattro sicari si davano il cambio alla guida del carro, e per tenerci sotto controllo. Malgrado sanguinasse da un'oscena ferita al viso che rendeva le sue fattezze ancora più mostruose, c'era voluta tutta la forza della Montagna per acquietare Erik nel suo carro. Alla fine, a furia di pugni, calci e bestemmie, riuscirono a domarlo, minacciando di tagliare la testa ai suoi compagni se non fosse rimasto al suo posto.

«La Khanum ti vuole vivo, almeno per ora, Azrael. Ma non dimenticarti che lo stesso non vale per il vecchio daroga e la baldracca.» Tutti e tre rizzammo il capo allo stesso tempo, allarmati. Negli occhi di Erik vidi l'orrore puro.

«Pensavate di fregarci con la storia del travestimento?» disse Barba Nera, quello che aveva catturato Nadir.

«Quando l'ho afferrata, le ho sentite, le tette sotto la camicia. Poca carne, ma ce n'era comunque» disse l'uomo che mi aveva disarcionato da Notte e al quale non avevo ancora dato un nomignolo. Senza Nome, lo definii tra me e me.

«Vi sbagliate» disse Nadir in un flebile tentativo di mantenere ancora la mascherata.

«Davvero? E allora mostraci l'uccello, dolcezza. No? Bene. Sono sicuro che ci divertiremo moltissimo durante questo viaggio.»

I quattro risero sguaiatamente, mentre io diventavo livida. Quindi la mia farsa non era servita a nulla. Tutte le precauzioni prese… inutili. Cosa mi avrebbero fatto, ora? Quale destino mi attendeva? Uno persino peggiore della morte? Vidi Nadir scuotere il capo con orrore ed Erik stringere i denti. Il suo viso era messo a nudo, adesso, e come sempre quando era senza maschera, non sapeva nascondere le sue emozioni. Era furioso, e con il sangue che gli gocciolava dalla ferita che gli attraversava la fronte, il naso inesistente e la guancia destra, ancora più terrificante.

«Provate a sfiorarla anche solo con un dito, e io mi mordo la lingua e me la ingoio» sibilò con asprezza, e quegli altri cessarono all'istante di ridere.

«Sapete che ho il fegato di farlo, e né la Khanum né lo Shah ne sarebbero felici» aggiunse Erik con un sogghigno orribile, poiché sapeva di aver vinto.

Il Caprone si guardò attorno, poi annuì con una smorfia: «Se è tanto importante, tieniti la tua puttanella per te, Azrael. Era comunque troppo racchia per interessarci davvero.» Gli altri risero, anche se più nervosamente. Senza Nome mi lanciava occhiatacce lampeggianti di rancore, Barba Nera rideva come un ubriaco perenne e la Montagna sghignazzava più forte di tutti quanti. E io avrei voluto ucciderli uno per uno.

«In marcia. Abbiamo una nave da prendere» ordinò il Caprone, e la carovana si mosse.

Rivolsi ad Erik un'occhiata di sottecchi. «Grazie» sillabai. Non ebbe bisogno di rispondermi.

 

 

I giorni che seguirono furono un inferno misto a un incubo paralizzante. Quando il sole era ancora alto in cielo, restavamo legati nel carretto, sulla paglia lorda dei nostri umori – non ci permettevano di uscire e di provvedere ai nostri bisogni più primitivi – l'uno vicino all'altro per trarre calore dai nostri corpi. Eravamo coperti di lividi e tagli, ma era Erik quello messo peggio, poiché era quello che aveva lottato con maggiore abilità e più duramente. Il suo volto nudo era un'orrida maschera sanguinante: il taglio che gli attraversava il viso aveva bisogno di cure che i nostri aguzzini non avevano alcun desiderio di prestargli. Quando cercai di puntualizzarlo, ricevetti come risposta un pugno nello stomaco dalla Montagna in persona, che non sembrava pensare con la sua testa – obbediva solamente ai silenti cenni del Caprone.

Di notte giungeva la parte peggiore. Quando calava il sole, ci portavano fuori in qualche radura deserta, sempre legati come animali, per poi riempirci di calci e pugni finché non sputavamo sangue. Avevo le membra doloranti, come se fossi caduta da una grande altezza. Ogni articolazione mi doleva, e se avessi visto il mio corpo nudo allo specchio mi sarei spaventata tanto doveva sembrare smagrito e disseminato di lividi profondi. Era Senza Nome a porci le domande: il suo volto era talmente anonimo che lo avrei dimenticato con facilità se non fosse stato lui ad interrogarci. Qual è la mappa del palazzo del re di Afghanistan? E quello di Ezzat, la sorella della Khanum? Erik in persona aveva ideato e organizzato la costruzione di quegli edifici.

«Ne risponderò solo allo Shah, e a nessun altro» mormorava lui tra i pugni che gli cascavano addosso. In realtà riusciva a parlare a stento, per via del sangue che gli gocciolava in bocca – la sua specie di bocca – ogni volta che tentava di aprirla… La sua bella voce era strozzata, soffocata dal sangue. L'intero nostro mondo si era tinto di questo: percosse e sangue.

Dal momento che Erik non avrebbe aperto bocca con loro, i nostri ospiti non potevano ancora ucciderlo, e quindi si sollazzavano nel farci cascare addosso una cateratta di colpi – pugni e calci e unghiate che ci divoravano il corpo e la mente. Ci gettavano pane raffermo sul pavimento lercio del carro, bevevano acqua dinanzi a noi che, assetati, restavamo a guardare con occhi avidi, ridotti ormai a bestioline in gabbia. Quando Barba Nera porse a Nadir un fiasco di quel che doveva essere acqua, il Persiano ne bevve a grandi sorsate, per poi rigettare tutto a terra fin quasi a soffocarsi. Era piscio di cavallo quello che gli avevano offerto, e a questo ci saremo dovuti abituare.

E il mio odio cresceva. Maceravo rabbia e furore, che palpitavano in me con la stessa vita del mio cuore straziato. Solo il pensiero che un giorno li avrei uccisi tutti mi faceva restare in vita. E forse non ero l'unica: nella penombra del carretto, legati come animali, vedevo il mio stesso furore negli occhi di Erik. E in quelli di Nadir, stranamente, vedevo determinazione: non si era ancora arreso, e nemmeno io intendevo farlo. Ero ricoperta di lividi, la saliva rossa di sangue, mi erano caduti due molari per colpa di certi pugni della Montagna inferti alla mia mascella fragile, ma ero ancora viva. E pertanto, aspettavo. Anche in Erik era viva la stessa risoluzione: non lo diceva apertamente, ma qualcosa – l'embrione di un piano, un'idea – gli ribolliva nella mente. Non ne rigurgitava il minimo sussurro, per timore che i nostri aguzzini potessero cogliere questa scintilla di speranza in lui, ma c'era. Lo vedevo sul suo viso morto, sporco di sangue coagulato.

Un giorno – non sapevo quanto a lungo fossimo rimasti lì, il tempo non contava quanto il dolore – vidi Erik muoversi leggermente: le corde che gli trattenevano i polsi in una morsa d'acciaio tremavano. Mi accigliai: stava lavorando a qualcosa per liberarsi, lo sapevo, ma cosa? E poi, non poteva combattere da solo, in quello stato miserabile, contro quattro uomini, tra cui uno come la Montagna.

«Erik, cos'hai in mente?» disse il Persiano in un soffio, che fu come un brivido di sole nella notte sempiterna della nostra prigione. Erik continuava a muoversi in modo strano, e si udiva il rumore di qualcosa che grattava… lento, ma inesorabile, le corde con le quali era così strettamente legato.

«Tu fammi fare, daroga. Solo un altro po' di tempo. Me ne basta solo un altro po'…» disse a fatica Erik. Strascicava le parole: la ferita sul volto doveva bruciare come un inferno di dolore. Se non si fossero sbrigati a curarla, si sarebbe infettata e allora sarebbe stato troppo tardi. Ma questo ai nostri torturatori non interessava. Bastava che Erik rimanesse in vita – non importava in quale stato fosse – quel tanto da arrivare in Persia. E una volta giunti lì, ci avrebbero uccisi definitivamente.

Avevo cercato di ribellarmi, invano. La Montagna mi aveva spinto la faccia contro la dura terra di un boschetto di aceri, l'humus caldo e umido che mi finiva in bocca e che io sputacchiavo insieme a radici e vermi. I lividi sul viso pulsavano ancora, dopo quella volta. Mi avevano minacciato di usare la mia bocca per ben altri scopi se non fossi rimasta zitta e muta. A nulla erano serviti i mugugni feroci di Erik, ancora legato come un animale in gabbia. Di nuovo, pensai. Lui già una volta aveva conosciuto quella sensazione – quella bizzarra, ferina, di non essere più umani. Ci stavano togliendo la nostra umanità, o almeno ci stavano provando. Ma noi non cedevamo, più duri delle rocce sotto il fiume che ci accingevamo a guadare tramite un largo ponte. Lo capii perché udii lo scrosciare dell'acqua, e diedi un'occhiata sbieca all'esterno attraverso certe sottili feritoie nel legno marcio del carretto che ci faceva da gabbia. Il fiume scorreva nei pressi di Calais: eravamo quindi quasi arrivati a destinazione. Non sapevo se tremare o meno alla notizia.

Erik continuava il suo misterioso lavoro di buona lena, malgrado si sforzasse ogni volta di non svenire per il dolore alla ferita che esibiva come l'ennesima mostruosità sul suo volto già di per sé tanto tormentato. Presto sarebbe stato libero, poi avrebbe potuto occuparsi di noi, giacché lui da solo, ridotto in quello stato, non avrebbe potuto affrontare quattro uomini. Beh, anche col nostro aiuto le probabilità di riuscita del suo piano erano scarse.

Nascondeva una lamina, sottile come vetro, nel risvolto di una manica: quell'ingegnoso nascondiglio fu la nostra salvezza. Dovette lavorare a lungo e con tenore, ché le corde che lo legavano erano stretti nodi contorti, ma alla fine riuscì a liberarsi le mani come tanto aveva sperato. Era un trucco che conosceva da tempo: gli aveva salvato la vita in un'altra occasione, ci sussurrò un dì di nuvole torbide, e io già sapevo a cosa si riferisse. Con Günther, il suo aguzzino nell'infanzia, che lo aveva messo in gabbia e denominato la Morte Vivente. Il primo uomo che avesse mai ucciso, anche se solo per legittima difesa. Aveva appreso questo trucco da un ex galeotto, mi disse in seguito. Il difficile stava nel rendersi indifferente dinanzi agli uomini che ci avevano catturato. La notte in cui si liberò, Erik strinse un nodo più lieve attorno ai suoi stessi polsi per mascherare il fatto che in realtà si era liberato dalle catene che lo legavano. Fu una notte particolarmente difficile: a nessuno furono risparmiati i colpi della Montagna, e le domande insistenti di Senza Nome mi ronzavano nelle orecchie fino a farmi pulsare i timpani. Qual è la mappa di questo palazzo? Quali sono le botole nascoste? E tutto il resto.

Erik preferiva sputare sangue piuttosto che rispondere.

«Quando ti ritroverai davanti allo Shah, non resterai muto. Sei fortunato, mostro: è perché ti vogliamo vivo che non uccidiamo te e il tuo amico e la tua puttanella.» Non prima di essersi trastullati con la sottoscritta, era il non detto orribile che rimaneva sospeso nell'aria come pulviscolo di un sole velenoso. Non mi uccideranno senza prima avermi violato nel corpo come nell'anima.

Una nube di orrore passò su di me quando mi chiesi se avessero fatto lo stesso con mia madre. Pregai che la sua morte fosse stata il più rapida e indolore possibile. Ma chi preghi?, mi chiesi, senza trovare risposta alcuna. Non c'è altro dio qui che la Morte. E quali preghiere le si possono rivolgere?

Non ancora. Non ancora.

 

 

Il giorno seguente, Erik si adoperava per aiutare Nadir a sciogliere le sue, di catene. «Non preoccupatevi, Meg» mi disse quest'ultimo, dato che il primo riusciva a parlare a stento. «Presto libereremo anche voi.»

Un'altra notte, pensai mentre sopportavo un'altra cascati di calci e pugni e schiaffi. La mia faccia doveva essere talmente gonfia e livida da risultare irriconoscibile, ma non avevo certo avuto l'occasione di specchiarmi, in quei giorni. Un'altra notte e poi li ucciderò tutti nel sonno. Ad ognuno di loro taglierò la gola e ne riderò, bagnandomi nel loro sangue. Questo pensiero mi faceva sopportare i colpi, le bastonate, i lividi. Ormai non mi reggevo più in piedi, tanto le viscere mi si erano contratte nello stomaco che aveva subito tanti danni. Non sanguinavo solo fuori, ma anche dentro, dove non si vede. Era il dolore massimo, quello che non riuscivo a spiegare.

Non dormivo da giorni. I miei capelli erano incrostati di sangue, paglia e piscio. Emanavo un lezzo di escrementi che avrebbe fatto inorridire la vecchia me, ma ora non ero più la “piccola Meg”. Ero un topo, e da tale mi comportavo nella gigantesca baraonda che mi assediava. Volevo ritornare ad essere una fiera: questo dissi ad Erik il giorno in cui si accingeva, attento a non attirare l'attenzione dei nostri cani guardiani, a spezzare le mie, di catene, con la sua lamina sottile, quasi magica – un oggetto così piccolo era la chiave della nostra liberazione.

«Dimmi che un giorno lo avrò» gli dissi in un sussurro stentato. I denti stridevano nella bocca piena di saliva rossastra. Lui mi lanciò un'occhiata che decifrai come interrogativa. Mi ero abituata al suo viso smascherato, un'orrida pozza di sangue al posto del naso e della guancia destra, già di per sé incavata come quella di un teschio.

«Il cuore della Khanum. Della piccola sultana. Prometti che mi aiuterai ad averlo. Promettilo.»

Lui esitò. Non è una strada che ti piacerebbe intraprendere, mi aveva detto un giorno, ma a me non importava. Era la strada che avevo scelto, e tanto bastava. Nessuno poteva decidere il mio fato, eccetto me. E anelavo a ritornare una leonessa e a lasciarmi indietro i giorni da topolino spaventato.

«Promettilo, Erik.»

Dopo tutto il male che ci avevano fatto…

Lui annuì, stringendomi le dita tra le sue, fredde e macchiate di sangue. Avevamo stretto un patto, allora. Mi avrebbe aiutata nella mia vendetta, in un modo o nell'altro.

Si accinse poi a strofinare la lamina contro la corda ben legata attorno ai miei polsi. Quella notte avrebbe avuto inizio la nostra liberazione. Erik, Nadir ed io ci stringemmo l'uno all'altro, all'apparenza per cercare calore, ma in realtà alla disperata ricerca di rassicurazione: non eravamo soli, neanche nel mondo ovattato e doloroso nel quale eravamo cascati.

 

 

Ci fecero scendere dal carro un'ultima volta, per porci le medesime domande a cui non avremmo risposto – lo sapevano – per picchiarci senza che noi potessimo difenderci. Ma questa volta era diverso. Loro avevano in mente qualcosa di diverso.

«Vediamo se questo ti farà parlare, Azrael» disse il Caprone con un sogghigno disumano. Ma chi è tutta questa gente?, pensai, inorridita. Mercenari della peggior sorta, senza dubbio, provenienti da ogni parte del mondo. E pensare che un tempo Erik era stato il migliore – il più raffinato, il più letale – di tutti loro.

«Noi ci sollazziamo con la tua sgualdrina fin quando tu non dici quelle quattro paroline che tanto cerchiamo di toglierti di bocca, Azrael.»

Lui si aprì in un sogghigno rossastro. «Erik. Il mio nome è Erik.»

Il Caprone sbuffò. «Sì, come vuoi. Tienila ferma» diresse un cenno a Senza Nome, che mi strattonò e mi gettò a terra in un viluppo di vesti sudice, urla (le mie) e risa (le sue). Come fosse un lazzo divertente.

Nadir si scosse brutalmente dalla morsa di Barba Nera, mentre Erik veniva tenuto fermo dall'incrollabile Montagna.

«Lasciatela stare…» Erik mugugnò, sputacchiando un po' di sangue. Il suo viso era una maschera dell'orrore. Pareva davvero la Morte Rossa, sanguinante e furiosa. I nostri aguzzini non lo ascoltarono. Senza Nome fece per strapparmi di dosso i pantaloni lerci, al che urlai e mi dibattei, rifilandogli un calcio nell'addome che lo fece gemere e arretrare.

Era il segnale che potevamo agire.

«Lasciatela stare

Erik si alzò in piedi, malgrado i colpi ricevuti, il taglio grondante sangue sulla faccia e la Montagna che lo teneva fermo. Con un salto felino, liberandosi delle corde ormai inutili, si aggrappò a quest'ultimo e lo azzannò alla gola come un leone fa con una gazzella. La Montagna urlò mentre Erik gli squarciava la gola usando solo i denti, e cercò di toglierselo di dosso, invano. Il gigantesco uomo finì a terra, dissanguato, sotto lo sguardo colmo d'orrore di tutti gli altri.

Anche noi non avevamo perso tempo. Li attaccammo di sorpresa, proprio com'era nei nostri piani. Monsieur Nadir ruppe cartilagine e ossa con una gomitata sul naso di Barba Nera, poi gli sfilò la pistola dalla cintura e gli sparò alla fronte in un gesto rapido che quasi poteva eguagliare la velocità di Erik.

Il Caprone era troppo sorpreso per reagire – stava accadendo tutto così in fretta. Tirò fuori la pistola, ma l'Angelo della Morte – e della Musica – gli fu addosso in meno di un secondo. Con un ringhio disumano, gli ruppe prima il braccio, poi il collo in un'unica manovra mortale.

Io scalciai tra le braccia di Senza Nome, che ancora mi teneva a terra, ma non avevo nessuna voglia di farmi aiutare da un uomo. Non ero più un topo: mi slegai anch'io dalle corde e lo colpii all'addome con un calcio poderoso – avevo usato la stessa forza che avrei messo in una delle mie pirouette, e non era da sottovalutare. Senza Nome finì a terra. Afferrai quindi un sasso dalla massa notevole con l'intenzione di saltargli addosso e di colpirlo al cranio. E così feci: dopo una lotta furibonda in cui egli cercò di bloccarmi le mani omicide, la mia furia ebbe la meglio. Lo colpii una volta su quella testa tanto odiata, poi una seconda, e una terza. Ancora, ancora, ancora, fino a ridurlo a un grumo sanguinante sotto di me.

«Muori!» sibilai con le mani lorde di sangue e materiale organico. «Muori muori muori muori muori!» E continuavo con quella litania, all'infinito, e non udivo altro se non quella. Non mi accorsi che i rumori della battaglia alle mie spalle si erano placati.

«Meg.»

«Muori!» urlai per quella che mi parve la ventesima volta, continuando a colpire la testa – se ormai si poteva definire tale – di Senza Nome, ridotta a un irriconoscibile miscuglio di sangue e carne e ossa e cervella.

«Meg!»

Una mano fredda mi fermò il polso. Continuai a divincolarmi per un po', ma il mio nome pronunciato da quella voce di seta infine mi acquietò. Lasciai cadere la pietra sul corpo senza vita del mio antico torturatore e rimasi stretta nella presa di Erik, che mi abbracciava da dietro in modo da tranquillizzarmi e allo stesso tempo tenermi ferma.

«Basta, Meg. È morto, ormai. Non possiamo fare altro che andarcene.»

Io annuii, ancora in trance. Mi voltai, sudicia di sangue e altre cose a cui preferivo non pensare, ed egli mi strinse al suo petto in un gesto di inaspettata tenerezza nel mezzo della Morte.

«Mi dispiace, Meg» mi disse, accarezzandomi i capelli con una dolcezza tale da sciogliermi. «Non sai quanto.»

«Siamo sudici» dissi con voce ferma, scostandomi da lui. Non sapevo perché adesso mi pareva così importante.

Monsieur Nadir ci accompagnò al torrente poco lontano, in cui potemmo lavarci il viso e le mani. Erik, chissà come, aveva recuperato la sua vecchia maschera dal cadavere del Caprone. SI lavò per bene la ferita al viso, fasciandola con un lembo del mantello, dopodiché tornò ad indossare la maschera. Subito assunse una posa differente: le sue spalle erano più diritte, il suo corpo meno curvo. Era più uomo che animale in gabbia, ora – perché di certo la furia che avevamo dimostrato poco prima non era stata umana. Ma mi avevano minacciato, e questo per qualche motivo lo aveva reso furioso.

Perché gli importa, ricordai, mentre le nocche delle mani mi bruciavano. Avrei voluto sprofondare nell'acqua per sentirmi di nuovo pulita, ma non avevamo vestiti di ricambio. Avremmo dovuto accontentarci.

«Aspetta» mi disse in un sussurro. Le sue mani sfiorarono le mie con una delicatezza che da lui non mi aspettavo. Strappò un lembo del suo mantello, lo bagnò nell'acqua del ruscello e mi fasciò le dita insanguinate. Solo in quel momento mi accorsi che avevo i palmi scorticati dalla pietra scabra con cui avevo ucciso un uomo per la prima volta. Bruciava, ma dalle labbra non mi uscì fuori neanche un sibilo di dolore. La vista e l'odore del sangue non producevano più alcun effetto su di me. Tutt'altro, mi calmavano. Il sangue mi calma, pensai, in preda a un gelido torpore dal quale non riuscivo a destarmi. Il mondo intorno a me era nebbia fredda. Esistevamo solo io, Erik e le sue dita livide sulle mie. Doveva esserci qualcosa di profondamente sbagliato in me, fin dall'inizio.

Guardai le mie mani, poi quelle di Erik. Mai mi erano apparse più simili. La perdita dell'innocenza… Fissai dritto negli occhi il mio sinistro compagno di viaggio. Ho già detto quanto le sue iridi oro pallido fossero strane, quasi feline. Vi celava dentro un che di animalesco. Non erano propriamente belle, non più del resto del suo corpo devastato. Eppure non riuscivo a guardare nient'altro. Ipnotizzavano quasi quanto la sua voce. Se in fondo alla sua gola dorata nascondeva un'impronta angelica, nei suoi occhi vi era ancora qualcosa di innegabilmente umano – nell'espressione, nel riflesso della luce o della notte che vi si specchiavano. Lo stigma della sua umanità è il riflesso nei suoi occhi. E adesso mi guardavano con quella che mi parve pietà, qualcosa che sul suo viso mascherato avevo veduto ben di rado. Questo fece sentire me meno umana che mai.

«Abbiamo ancora un pezzo di strada da fare, e col favore della notte saremo avvantaggiati. Non dovremo attirare troppa attenzione» disse Erik a Nadir, che annuì.

«Qui abbiamo finito» disse quest'ultimo, in tono mesto.

«Sì» concordò Erik, guardandomi, «abbiamo finito.»



Note dell'autrice: * Il titolo è tratto dall'omonimo romanzo di Cristina Comencini, che io – di nuovo – non ho letto. Ma mi pareva appropriato.

* Ringrazio George R.R. Martin e le sue Cronache del ghiaccio e del fuoco, da cui è stato tratto il telefilm Game of Thrones, qui in Italia conosciuto come Il trono di spade. Chi conosce la saga vedrà delle similitudini tra Meg e il personaggio di Arya Stark, di cui sono debitrice a Martin. Grazie, George.

* In realtà, tutta l'idea di questo secondo atto mi è venuta mentre leggevo Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Certamente capirete le connessioni. A qualcuno viene fatto un grosso torto che gli cambia del tutto la vita → quel qualcuno vuole vendicarsi. Moltissimo.

Che cosa avevo detto nel primissimo capitolo? Questa non è una storia per i deboli di cuore. Ho forse esagerato un po', questa volta? Ehm… ditemelo che volete farmi del male. Ho fatto soffrire troppo i nostri beniamini, ne sono consapevole, ma… questo punto – davvero – è troppo importante per la psicologia di Meg. Avrà una forte ripercussione sulle sue decisioni future e quel che accadrà nei prossimi capitoli, che spero sia abbastanza ricco di colpi di scena da farvi sudare freddo (muhahaha). Volevo anche sottolineare una cosa: avrete notato come in questo capitolo Meg viene definita “racchia”. Non è la prima volta che le succede. Prima di tutto, vista la forte pressione che la società detiene sul mondo femminile riguardo il nostro aspetto fisico, quante volte vi siete sentite (parlo alle ragazze) insicure al riguardo? Io ho subito anche atti di bullismo al riguardo, quando ero ragazzina. Per questo, ancora oggi che ho ventidue anni, mi è difficile sentirmi a mio agio nel mio corpo. Visto che non è qualcosa che viene denunciato spesso (o so lo è, viene fatto male, del tipo: “Mostrare fiducia in se stessi è sexy! *occhiolino*” detto da una supermodella o attrice di Hollywood, il che non ha senso) volevo farlo tramite un personaggio di una storia destinata a un pubblico che sia anche giovane e composto da donne, proprio perché tutte coloro che si sono sentite dire che sono brutte almeno una volta nella vita si riconoscano nel personaggio di Meg e capiscano che, davvero, è il mondo quello sbagliato, non loro. In fondo, la storia di Erik è un messaggio su quanto sia importante ciò che uno ha dentro di sé, non fuori. Non sto dicendo che l'aspetto fisico non sia importante, ma che il volersi bene e accettarsi lo è molto di più. Questo in primis. In secondo luogo, Meg può essere brutta per alcuni, graziosa per altri, anonima per altri ancora. È un tipo, insomma. Una ragazza normale in questo senso. Qui non è truccata, non si lava da una settimana, ecc. ecc. Lei stessa si fa leggermente schifo. XD Ma la cosa importante è che né Erik (sarebbe ipocrita da parte sua) né il Persiano la trattano diversamente solo perché adesso ha un aspetto disastroso. È importante rispettare una donna (beh, anche un uomo, naturalmente) malgrado il suo aspetto fisico. È fondamentale. Un'altra cosa, poi giuro che la finisco con questa filippica: Meg ha origini africane, e si vede. Ha lineamenti tipicamente non caucasici, e questo in una società razzista come quella del XIX° secolo dove il modello di bellezza è la pelle bianca può farla apparire “brutta”, “selvaggia”, al più “esotica”. Secondo voi perché proprio il soprannome “Faccia di Scimmia”? Ma non preoccupatevi, Meg sarà apprezzata, in futuro. E non solo per il suo aspetto fisico, come dicevo prima. C'è tanto di più in lei.
Okay, basta con questo rant. XD Spero di non avervi annoiato.
E ora le recensioni.



ondallagra: Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo! Spero che questo ti abbia soddisfatto – ehm… anche se è molto violento e drammatico. Ehm. Perdonami. XD Verrà un giorno in cui Erik e Meg saranno felici, finalmente, lo prometto. :) Un bacio!

Malinconica: La mia fedele lettrice! :* Come hai notato, sì, da qui diciamo che più che la storia in sé, inizia una sua parte totalmente diversa. Se prima la fic si limitava ad essere un riadattamento del libro e il suo “scheletro” era quello che della storia di Leroux, questo è il sequel, e tutto di mia invenzione. Per questo sono anche un po' agitata nel postare i capitoli, proprio perché è tutta farina del mio sacco e ho timore di deludervi. Era facile fin quando mi potevo basare su ciò che ha scritto Leroux, ma ora… Spero che questo capitolo non ti sconvolga troppo. Prometto che nel prossimo, per farmi perdonare, ci sarà una scena molto tenera tra Erik e Meg, ma non dico altro. :) Un bacione, alla prossima!

debbythebest: Sono contenta che la storia ti piaccia e che ti sembri originale! Prima il villain era Erik stesso (una specie molto contorta di villain, diciamocelo, vista la crescente attrazione della protagonista nei suoi confronti) e adesso sì, è la piccola sultana. Non preoccuparti per la brevità della tua recensione, mi fa piacere che tu me ne abbia lasciato una. Mi fanno sempre felici, le recensioni. :) Un abbraccio. **

Naturalmente ringrazio tutti coloro che hanno messo questa storia tra i preferiti/seguiti/ricordate/ecc. e mi raccomando, recensite! Voglio sentire i vostri pareri. Anche solo se volete mandarmi a quel paese. XD
   
 
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