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Autore: Adeia Di Elferas    12/09/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Isabella d'Aragona si alzò in silenzio. Vestendo lentamente la vestaglia ricamata con colletto di pizzo, si sistemò all'inginocchiatoio e giunse le mani.

L'aria della camera era satura dell'odore del vino e del camino che si era spento ormai da qualche ora e a Isabella quell'insieme di effluvi dava una leggera nausea. Gian Galeazzo dormiva a bocca spalancata in mezzo al loro letto, mezzo coperto dalla trapunta, il viso segnato dalle ubriacature sempre più frequenti e dalla prostrazione data dalla sua malattia.

Isabella chiese perdono per i suoi peccati, pregò Dio affinché donasse al marito qualche momento di completo benessere e poi si fece il segno della croce e si rimise in piedi.

Raggiunse la scrivania e prese il necessario per scrivere, poi si diresse all'alcova della finestra e vi si sistemò, per far sì che la luce del mattino le permettesse di scrivere.

Ci aveva pensato a lungo, forse anche troppo, ma ormai era giunta alla conclusione che non si poteva più rimandare. Una simile lettera avrebbe avuto un grande impatto sul suo futuro e su quello di Milano e Napoli, ma era suo preciso compito fare qualcosa per smorzare le manie di grandezza e l'egocentrismo di Ludovico Sforza.

Se poteva sopportare i pettegolezzi nati sui vasti appetiti e l'assuefazione al vino di suo marito, Isabella non poteva più transigere sulla reclusione di suo figlio Francesco a Milano, né tanto meno sulla riduzione all'osso della corte pavese che contava ormai un solo membro effettivo, che per di più era dichiaratamente una spia del Moro.

Pensare di trovare un degno alleato in suo marito Gian Galeazzo era ormai una pia illusione e anzi, la giovane oramai doveva guardarsi anche da lui, che, ottenebrato dai suoi vizi e dalla rabbia che covava nel suo animo, aveva iniziato a essere anche con lei, a tratti, violento e scostante.

Anche quella notte, per quanto fosse stata Isabella a cercarlo, lui non era stato affatto amabile e gentile come un tempo. Si massaggiò assorta il polso, su cui cominciava ad allargarsi una macchia scura, segno della stretta perentoria a cui Gian Galeazzo l'aveva sottoposto la sera prima.

Asciugandosi con circospezione una furtiva lacrima, Isabella intinse la penna e iniziò la sua lettera esattamente come avrebbe iniziato una dichiarazione di guerra. Aveva scelto il latino, la lingua dei documenti ufficiali. Voleva a tutti i costi che quella denuncia fatta a suo padre e a tutta la corte di Napoli contro Ludovico Sforza venisse interpretata in modo inconfutabile come un'accusa pubblica e irrevocabile.

Sapeva che il Moro aveva spie e delatori ovunque e che spesso non si limitava a intercettare la posta, ma che addirittura faceva uccidere i messaggeri in modo tale che non testimoniassero mai contro di lui.

Ebbene, per quella missiva in particolare Isabella aveva già un canale sicuro e l'avrebbe usato anche a costo della propria incolumità.

L'ultimo affronto, in ordine temporale, fattole dal Moro era stato impedirle di andare alla corte di Milano per rendere omaggio al piccolo Massimiliano. Tutti erano stati accolti nella stanza della puerpera Beatrice, ma Isabella no. Perfino Cecilia Gallerani era stata ammessa alla presenza della Duchessa di Bari, che ormai, madre di un valido erede per Ludovico, non temeva più la vecchia amante del marito.

Il Moro aveva scusato la sua decisione sostenendo che l'astrologo di corte aveva detto che non conveniva a sua moglie trovarsi in quel periodo astrale sotto lo stesso tetto della cugina e Isabella aveva dovuto ubbidire e tacere.

Gian Galeazzo fece un suono strozzato nel sonno, si rigirò e per poco non cadde dal letto. Sembrava ancora completamente ebbro del vino che suo zio mandava con tanta prodigalità a Pavia e infatti non si svegliò, malgrado tutto. Ricominciò a russare, spandendo ancora di più il tanfo del suo alito da avvinazzato e Isabella ne prese lo spunto per ulteriori frasi d'accusa verso il sedicente reggente del Duca di Milano.

Tutti dovevano venire a conoscenza dei soprusi di cui era vittima, tutti dovevano indignarsene e Napoli doveva sollevarsi al suo fianco e aiutarla a rovesciare quel dannato despota che aveva così deliberatamente rubato il Ducato a Gian Galeazzo. E a lei.

Indirizzò la lettera a suo padre Alfonso, certa che lui si sarebbe infiammato molto prima e molto più facilmente di suo nonno, il re Ferrante. Se voleva che Napoli imbracciasse le armi, doveva far leva sul suscettibile e irrequieto Duca di Calabria. Lui era come un mucchio di foglie secche e gli sarebbe stata sufficiente una scintilla per ardere e bruciare ogni cosa sul suo cammino.

Tirandosi un po' indietro per non macchiare con le lacrime, ormai copiose e irrefrenabili, il foglio, Isabella firmò e ripiegò il messaggio, pregando che Dio, almeno quella volta, stesse dalla sua parte e non da quella di sua cugina Beatrice.

 

Piero Medici aveva appena ricevuto ben due lettere scritte da Puccio Pucci, che si trovava in quei giorni nei pressi di Forlì. Pur essendo state redatte a poche ore di distanza l'una dall'altra, il suo uomo di fiducia le aveva spedite separatamente, come se la seconda fosse stata dettata solo da uno scrupolo improvviso.

Nella prima, Pucci confermava che nelle terre dello Stato Pontificio erano entrati, alla spicciolata, alcuni soldati che si diceva venire da Milano. Probabilmente, pensava Piero, un'avanguardia, scesa al sud per rendersi conto della situazione.

Pucci, poi, informava il Fatuo del fatto che la Contessa Riario aveva da qualche giorno ordinato alle guardie della città di non lasciare entrare nessuno dalle Porte, a meno che non fosse accertatamente un forlivese. Se qualche straniero fosse riuscito a entrare comunque, allora chiunque l'avesse ospitato – o meglio, nascosto – sarebbe stato immediatamente incarcerato.

Inoltre sottolineava come la Contessa avesse fatto, in quei mesi, incetta di legname, frumento e vino.

Piero storse la bocca nel leggere le parole del suo emissario che decretava, con ostentata sicurezza, che malgrado tutti questi sforzi, la Contessa non sarebbe mai riuscita a tenere il suo Stato, in caso di attacco, giacché la popolazione la stava prendendo in odio e non sarebbe bastata una rocca, per quanto apparentemente inespugnabile, a salvarla.

E il calo si popolarità della Sforza, sempre al dire di Pucci, risiedeva nell'astio covato dalla popolazione nei confronti del Governatore Generale delle truppe e delle rocche, il cavalier Giacomo Feo.

Nella seconda missiva, Pucci scriveva in fretta come fossero stati avvistati altri soldati, circa duecento, e come questi si fossero fermati una notte intera nella piazza centrale di Imola, con un atteggiamento molto strano, come se stessero facendo la guardia, piuttosto che come assalitori.

I milanesi non si fermavano mai a Faenza, ma sostavano o a Imola o a Forlì e poi riprendevano la loro strada. Malgrado questi soldati avessero il comportamento degno 'di frati francescani', la Contessa Riario sembrava non fidarsi nemmeno di loro e non accordava né eccessiva ospitalità, né particolari privilegi.

Il Fatuo non sapeva cosa pensare di quegli strani fatti riportati dal suo inviato, se non che, se la Contessa Riario stava trattando con tanto distacco i soldati di suo zio Ludovico, forse ci sarebbe stato modo di farla propendere per Napoli.

Con uno sbuffo, il giovane signore di Firenze buttò di lato le due lettere e si passò una mano inanellata sulla faccia. Si chiedeva se e quando la situazione si sarebbe sbloccata. Non ne poteva più di riunioni e sotterfugi, lettere e mezza minacce...

Quel pomeriggio doveva anche incontrare Paolo Orsini, di certo arrivato a Firenze solo per chiedergli più aiuti per la causa del cugino Virginio, contro Roma.

 

Caterina, strizzando gli occhi contro il sole nascente di quell'alba di maggio, guardava con apprensione l'ennesimo drappello di pochi soldati che aggiravano le mura e passavano oltre la città. Dall'alto delle merlature della rocca, erano solo dei puntini scuri all'orizzonte, ma la Contessa sapeva che erano solo l'inizio. Aveva cercato di chiedere a qualcuno di loro quale fosse la loro missione in quelle terre, ma quei pochi che avevano risposto avevano alzato le spalle dicendo che il Ducato li voleva lì a valutare la situazione e basta.

Se aveva sperato – seppur in modo poco realistico – che una guerra si potesse ancora evitare, quei movimento l'avevano smentita una volta per tutte. A breve non solo i milanesi, ma anche i napoletani, i francesi e chissà chi altri sarebbero passati da lì.

Rodrigo Borja aveva da poco emesso una bolla inter caetera con cui spartiva il cosiddetto Nuovo Mondo tra Spagna e Portogallo e questo aveva sollevato subito una risposta di indignazione da parte tanto della Francia quanto dell'Impero, che si sentivano esclusi da quella grande opportunità.

A Caterina sembrava poco pragmatico pensare alla conquista di nuove terre, in quei mesi agitati, ma era abbastanza umile da capire che i grandi Stati che si stavano ringhiando contro per spartirsi quell'unico osso avevano una realtà molto diversa dal suo piccolo appezzamento di terra.

La rocca dormiva ancora, ma la Contessa era troppo in ansia per tornare al Paradiso. Si era alzata prima che nascesse il sole e non si era data pena di svegliare anche Giacomo. Avrebbe potuto, dato che in quei giorni c'era da fare per tutti, ma temeva che riportarlo alla realtà, strappandolo al sonno, avrebbe provocato in lui un nuovo accesso di malumore, già esacerbato il giorno prima dalla notizia data con una certa soddisfazione da Sfrondati.

“Vostro zio ha deciso di non accordarvi altri prestiti – aveva detto con un sorrisetto serafico – e anzi vi invita a restituire al più presto il denaro che vi ha concesso nei mesi scorsi.”

Giacomo aveva preso male quella novità per il semplice fatto che lui sarebbe stato tra le vittime maggiori dei nuovi tagli.

Caterina, anche potendo contare sui prestiti dello zio, aveva ridotto all'osso le spese pubbliche.

Ormai i soldi delle tasse – molto ridotte rispetto agli anni di sconsiderato dominio di Girolamo Riario, in cui gli sprechi e le spese insensate regnavano sovrane – andavano tutti o nelle spese belliche o nei vestiti nuovi di Giacomo Feo. Infatti, se la Contessa perseverava con il suo abbigliamento elegante, ma spartano, sfruttando molte volte gli stessi abiti e non cedendo alle mode più esose, Giacomo si lasciava ricoprire di sete, velluti, fili d'oro e stoffe pregiate, molte di origine fiorentina, lasciando intendere che quello fosse per lui il solo modo per sentirsi davvero alla pari delle persone che, per via del suo ruolo, ora si trovava a frequentare.

Lodava questo o quel tessuto, dando mostra di apprezzare sinceramente tutti quei materiali costosi e Caterina cedeva immancabilmente a ogni sua tacita richiesta, anzi, a volte lo anticipava anche, tanto era il suo desiderio di farlo sentire a suo agio nel mondo in cui si era trovato a vivere.

Come se qualche abito fosse un buon indennizzo per i rischi e la paura che Giacomo si trovava a fronteggiare sempre più spesso.

La fine dei prestiti, quindi, avrebbe portato a una maggior oculatezza di Caterina, che forse, così temeva il Governatore Generale, avrebbe cominciato a risparmiare anche sugli abiti nuovi che lui apprezzava così tanto.

Quando Caterina rientrò nella rocca, lasciando i soldati milanesi al loro destino, un servo la intercettò subito per consegnarle una lettera.

La donna ringraziò e non si prese il disturbo di andare fino allo studiolo del castellano per aprirla. A parte i servi e qualche soldato di ronda, non c'era ancora nessuno in giro e dunque non rischiava domande scomode.

Lesse in fretta e man mano che i suoi occhi seguivano le parole scritte minuziosamente da uno dei suoi informatori, la rabbia le annebbiava la vista.

Il delatore diceva che Ludovico Sforza, come capo della Lega appena nata, aveva indetto una riunione a Ferrara a cui tutti i signori della Romagna erano stati invitati per discutere il da farsi.

L'ordine del giorno, a quanto pareva, era isolare Napoli e indurre i partenopei ad abbandonare in partenza l'idea di muovere guerra a Milano – e alla Lega in generale – rendendoli inoffensivi.

Tutti i signori della Romagna, tutti quanti erano stati chiamati, perfino, per quanto assurdo, un rappresentante di Astorre Manfredi. Tutti, insomma, tranne Caterina.

Stringendo in pugno la lettera, la Contessa richiamò l'attenzione di uno dei soldati di guardia e gli ordinò di andare a prendere Sfrondati, anche a costo di usare la forza, e portarglielo immediatamente alla rocca.

“Come sarebbe a dire che è partito?!” sbottò Caterina, quando la guardia, costernata, le riferì che l'alloggio dell'ambasciatore milanese era deserto.

“I suoi servitori mi hanno detto che è partito ieri sera, quasi a notte fatta, chiamato d'urgenza a Ferrara dal Duca di Milano.” fece il soldato, a occhi bassi, la reticenza ben udibile nelle sue parole.

Caterina non sottilizzò sul fatto che Ludovico non fosse il Duca di Milano, e invece si concentrò su cose più sostanziose: “Che altro c'è? Parlate, per Dio!”

“Ecco, mi hanno detto che avevano un messaggio per voi.” concluse il soldato, allungando un biglietto chiuso da ceralacca rossa che portava il sigillo dell'anello che Ottaviano aveva ereditato da suo padre Girolamo.

La Contessa spezzò subito il sigillo e lesse in fretta il laconico messaggio di Ottaviano, che la informava candidamente di aver seguito Battista Sfrondati, su consiglio dello stesso ambasciatore, a Ferrara, per 'salutare il Duca, vostro zio, che accetterà la mia presenza in veste non ufficiale, grazie all'intercessione dell'ambasciator Sfrondati'.

Quella rivelazione fece sbollire all'istante tutta la rabbia di Caterina, che si trovava ora talmente attonita dinnanzi a quell'affronto subito tanto dall'ambasciatore – partito senza avvisare la cancelleria – quanto e soprattutto da suo figlio, che non aveva nemmeno avuto il coraggio di confrontarsi con lei faccia a faccia. E lei non si era nemmeno accorta che suo figlio era uscito di notte dalla rocca per scappare come un ladro a Ferrara e incontrare suo zio...

Non aveva bisogno di correre alla stanza dei figli, per sapere che Ottaviano era davvero partito per Ferrara. I danni che avrebbe potuto fare con la sua lingua lunga o con il suo atteggiamento insicuro e puerile, guidato da quella serpe di Sfrondati erano molteplici e imponderabili.

“Vi ringrazio...” sussurrò Caterina alla guardia, che per tutto il tempo era rimasta sull'attenti davanti a lei: “Ora devo...” e senza finire la frase, cominciò a camminare, con l'andatura un po' incerta di chi ha la testa immersa in pensieri tanto angoscianti da non riuscire a concentrarsi sulla strada da seguire.

 

'Ebbene, insistite – scrisse Piero il Fatuo a Puccio Pucci – e vedrete che alla fine dovrà permettervi una visita. Siete inviato di Firenze e nella sua posizione la Contessa Riario non può sperare di non aver bisogno di qualcuno che le dia il suo appoggio. Da quello che sta accadendo a Ferrara, dubito che sarà Milano a guardarle le spalle. È il momento, Pucci, è il momento.'

Con soddisfazione inaudita, il Medici firmò in calce e chiamò qualcuno che portasse il messaggio a una delle staffette più veloci di Firenze.

Era il momento tanto atteso, quello di tirare Caterina Sforza dalla parte di Napoli. Imola e Forlì erano due nodi cruciali e se Ludovico il Moro non l'aveva capito, allora era solo uno stupido. E se l'aveva capito e si era giocato l'appoggio della nipote solo per motivi personali, allora era uno stupido e un sentimentale, due difetti inconciliabili col buon governo.

Alfonsina si affacciò sulla porta. Il suo vestito a lutto era tremendamente piatto, senza il minimo addobbo né con qualche stralcio di pizzo o merletto. Piero guardò la moglie con una sorta di repulsione, chiedendosi perché mai dovesse convivere con una donna che apprezzava tanto poco i bei vestiti e i bei monili. Con una moglie del genere, a volte si sentiva in imbarazzo a sfoggiare le sue ricche vesti in pubblico.

“Ci stanno aspettando...” sussurrò Alfonsina, guardando altrove, come se avesse colto tutto il disprezzo del marito.

Piero espirò a lungo e poi la raggiunse, bofonchiando qualcosa in merito alla scelta inopportuna di sua zia Nannina di morire proprio in quei giorni. Un funerale era l'ultima cosa a cui desiderava assistere, date tutte le preoccupazioni che già aveva per conto suo.

 

“Io lo so – disse Giacomo, camminando nervosamente, le mani strette l'una nell'altra e i capelli che svolazzavano spettinati a ogni passo – è andato da tuo zio solo per convincerlo a fare qualcosa contro di me!”

Caterina aveva temuto una simile reazione da parte di Giacomo, ma trovava il suo modo di ragionare decisamente ossessivo. Per lui Ottaviano non aveva in mente altro se non fare qualcosa contro di lui.

“Per favore...” sbuffò la Contessa, restando immobile mentre il marito continuava ad andare avanti e indietro, facendole quasi girare la testa: “Cerca di essere obiettivo. Probabilmente è andato a Ferrara con Sfrondati solo per disobbedire a me, per fare un torto a me.”

In realtà anche Caterina in parte condivideva le inquietudini di Giacomo, ma in lei era più forte la sensazione che suo figlio, con quella partenza improvvisa, volesse solo farla soffrire e farle capire che non lo aveva in pugno.

“Sia come sia – disse Giacomo, stringendo i denti e fermandosi di colpo – mi sembra chiaro che tuo zio e il suo ambasciatore vogliano metterlo contro di noi, quindi se dovremo schierarci, dovremo farlo contro di loro!”

Caterina stava scuotendo il capo: “Non ci schiereremo contro nessuno, invece. La nostra neutralità sarà la chiave della nostra sopravvivenza.”

“E invece dovremo schierarci, prima o poi, e allora io dico di schierarci per Napoli!” sbottò Giacomo, picchiando con forza un pugno contro il muro.

Quel gesto improvviso fece sussultare la Contessa, che non era avvezza a vedere il marito avere quel genere di scatti. Aveva conosciuto anche troppo a fondo la rabbia violenta di un uomo, il suo primo marito Girolamo, per non farsi guardinga nei confronti di quelle avvisaglie da parte di Giacomo.

Cercando di apparire del tutto calma e tranquilla, Caterina prese appunto mentale di ricominciare a nascondere sempre e in qualunque occasione – non più solo, dunque, in quelle a rischio attentato – il suo fedele pugnale sotto le gonne.

“Va bene – concluse, con un sorriso teso che non avrebbe convinto Giacomo, se solo il giovane non fosse stato distratto dal male alla mano – ci penseremo.”

 
   
 
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