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Autore: Madame_Bovary    12/09/2016    10 recensioni
|Storia interattiva| |Iscrizioni chiuse|
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Dal prologo
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"Buongiorno e benvenuti al primo test di idoneità per semidei. Siete stati selezionati tra i tutti i vostri fratelli e sorelle e scelti come i migliori rappresentanti della progenie divina. Sarete sottoposti ad una serie di prove per valutare le vostre capacità, il vostro spirito di sopravvivenza, la vostra adattabilità. Ad ogni prova qualcuno sopravviverà, qualcun altro perirà, fino a quando non ne resterà solo uno, il campione indiscusso."
***
Un'interattiva in cui voi sarete responsabili della sopravvivenza del vostro personaggio, in cui dovrete scegliere cosa è giusto fare, quali decisioni prendere. Voi siete gli artefici del loro destino. O forse no.
***
Che i giochi abbiano inizio!
Genere: Angst, Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Semidei Fanfiction Interattive
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Per favore, leggete l'angolo autrice! Grazie e buona lettura❤ #aridaje

Capitolo 3

 

I’ve got that summertime, summertime sadness
S-s-summertime, summertime sadness
Got that summertime, summertime sadness
oh, oh, oh, oh, oh
La voce del figlio di Ade rimbombava all’interno della struttura, avvolgendolo con le sue note basse e gutturali. Si muoveva per inerzia in quel dedalo senza fine, schiacciato dal peso opprimente dei pensieri negativi, che avevano ormai dimora fissa nella sua mente. Capì piuttosto in fretta che c’era qualcosa che non andava con i suoi ricordi: erano rimaste solo le voci. Presenze accennate, volti sfocati, scene confuse; ma chiare, nitide e prorompenti, si stagliavano voci dal sapore familiare, ma al contempo sconosciute.
Inutile! Senza carattere! Arrendevole! Sottomesso!
I suoni rimbalzavano nella sua scatola cranica, producendo un eco assordante. Ogni parola, una stilettata all’anima, alla quale si aggiungevano nuove e sanguinanti ferite, senza alcuna speranza di guarigione. Ben presto, cominciò a sentire sempre più caldo. Fiamma alte e vermiglie lambivano il suo fisico magro, ricoprendolo di gravi ustioni. Si gettò immediatamente a terra, urlante, in preda alle convulsioni. Con gli occhi scuri, quasi dello stesso colore del fumo che si insidiava prepotente nei suoi polmoni, vide con terrore la sua fine: solo, in un luogo sconosciuto, succube di un gioco crudele, in attesa di essere bruciato vivo.
Chiuse gli occhi, lacrimanti a causa della fuliggine, arrendendosi all’inevitabile. Velocemente come era apparso, il fuoco scomparve. Timothy si rialzò circospetto, lo sguardo che saettava da tutte le parti. Sul suo corpo non c’era alcuna traccia dell’avvenimento di poco prima, nessuna ferita o bruciatura. Niente che potesse testimoniare l’accaduto. Si passò una mano tra i capelli scuri, disorientato e confuso. Possibile che fosse solo un’allucinazione?
Riprese a canticchiare sottovoce, nel vano tentativo di distrarsi. Era tutto inutile, non riusciva a far altro che tornare, con la mente, a quello che era successo. Gli era parso così reale: le fiamme, il calore, il fumo, la paura, il dolore. Soprattutto il dolore. Ogni singola cellula che ribolliva, si agitava. L’impulso irrefrenabile, quasi animalesco, di strapparsi la cute, pur di far cessare la sofferenza. Le sue urla assordanti che gli facevano ardere la gola, portando allo stremo le corde vocali e costringendolo ad inalare vagonate di fumo nero e denso, che a sua volta scendeva dritto nei polmoni, in un circolo vizioso soffocante e deleterio. 
«Non muoverti» ordinò perentorio un ragazzo, senza alcuna particolare inflessione nella voce.
Timothy si arrestò immediatamente. La situazione che gli si parava davanti era piuttosto stramba: un ragazzo, del quale poteva distinguere solo la schiena magra ma muscolosa e il voluminoso ciuffo color carota, in una posizione gobba, accucciato con la gambe piegate, era addossato alla parete sinistra del corridoio, intento ad osservarne la pavimentazione.
«Smettila con quella lagna, sto cercando di pensare» soffiò con una leggera punta di fastidio nella voce.
Il figlio di Ade non si era nemmeno reso conto del fatto che stesse ancora canticchiando, ma assecondò la sua richiesta. 
In effetti, il pavimento presentava delle caratteristiche… curiose: era costituito da grandi mattonelle quadrate color ocra, alcune visibilmente più scure di altre. Sopra qualcuna di quelle più chiare, erano tracciati dei numeri un po’ sbiaditi, dai colori smorti, ma con un certo rigore, quasi costituissero una sorta di schema: il numero uno, in presenza massiccia rispetto agli altri, in blu; il due, anch’esso abbastanza ricorrente, in verde; il tre, assai meno comune in rosso; infine, un unico, solitario quattro, in viola. Ciò nonostante, Timothy non riusciva proprio a spiegarsi l’interesse dell’altro.
Ci mancava solo questa…, pensò seccato il figlio di Atena. Oltre a non morire, doveva anche preoccuparsi che quel tipo rimanesse al suo posto. Non riusciva a capacitarsi di quanto la gente potesse essere lenta di comprendonio. Insomma, era talmente palese! Fin dal primo momento in cui aveva calpestato una mattonella di quel passaggio, aveva intuito che ci fosse qualcosa di diverso. Ricordava perfettamente la sensazione degli ingranaggi che si muovevano sotto di lui, il cigolio di macchinari che riprendono la loro funzione, i rumori di assestamento. Poi, quando si rivelarono i numeri, riconobbe subito quel pattern inconfondibile: prato fiorito, il gioco per pc tanto famoso, che quasi tutti giocano impropriamente. Al contempo, arrivò anche la consapevolezza di quanto fosse in pericolo, considerato che in origine il nome era “campo minato”. Quando mise l’altro piede avanti, sentì distintamente una voce, poco più di un sussurro.
Suggerimento: attento a dove metti i piedi!
Svanì con una risatina e capì che sarebbe bastato un solo passo falso e… BOOM! Non aveva nessuna voglia di scoprire cosa succederebbe se dovesse sbagliare.
Winter sforzò gli occhi color ghiaccio e, mantenendo i piedi nella “casella”, cercò di sporsi per vedere il numero dell’altra parte del corridoio. Nel farlo, perse l’equilibrio e riuscì a non cadere per un soffio. Si concesse un breve sospiro di sollievo, prima di ricominciare a pensare a come uscire da quella situazione. Non poteva andare avanti, poiché non c’erano abbastanza numeri per stabilire quale mattonella fosse sicura.
Guardò di sottecchi il ragazzo dietro di lui. Avrebbe potuto usarlo come cavia, ma non conosceva la potenza della detonazione, sempre che non ci siano altri tipi di trappole, e avrebbe rischiato di rimanerci secco anche lui.
Pensieroso, prese a mordersi le nocche come suo solito. 
La struttura tremò leggermente e il panico lo assalì, ma cercò di rimanere calmo e tranquillo, specialmente con quello lì che lo osservava. Spostò lentamente lo sguardo verso l’alto, come se il minimo spostamento d’aria potesse essere fatale. Calcinacci vennero giù dal soffitto e a Winter sembrò che il tempo rallentasse durante la loro caduta, dilatando all’infinito quei brevi istanti. Il tonfo delle macerie scandiva i suoi ultimi momenti, ne era certo. Eppure, non successe nulla. Rilassò i muscoli, dalla mascella squadrata fino alla punta dei piedi, sollevato per lo scampato pericolo.
Illuso
Sopraggiunse improvvisa una scossa molto più violenta della precedente, che fece inciampare entrambi i semidei in fallo. Per qualche secondo non accadde nulla, un attesa snervante per Winter, mentre Timothy era sempre più confuso dalla condotta di quest’ultimo. Prima che potessero rendersene conto, del materiale filamentoso fuoriuscì dal pavimento e li avvolse in una sorta di bozzolo bianchiccio, per loro sfortuna, molto resistente. Da lì dentro, l’esterno appariva come un confuso ammasso di ombre. Qualcosa cominciò a trascinarli, incurante dei lividi e dei graffi che gli stava procurando. Proseguì per un bel po’, fino a quando non li gettò rudemente in un angolo. Sentirono distintamente dei passi che si allontanavano. 
Li abbandonò lì, mentre nell’aria risuonavano le note di “Black Sabbath”.


«Penso che dovremmo andare a destra!» propose Zoey
«Bene» Alex fece una breve pausa ad effetto, per poi incamminarsi nella direzione opposta.
La giovane figlia di Poseidone alzò al cielo gli occhi ambrati, sbuffando infastidita. Dietro di lei, Rosie rideva divertita
«Dai Alex, torna indietro!» lo richiamò allegramente la figlia di Demetra. Passarono alcuni secondi, ma del figlio del dio del mare nessuna traccia. 
«Alex, smettila, non è divertente! Vieni subito!» urlò Zoey visibilmente preoccupata, il corpo magro e formoso proteso verso il vicolo da cui era sparito il semidio. Nel frattempo, Rosie scrutava il passaggio davanti a sé con i suoi brillanti occhi verdi, nella speranza di vederlo comparire. Gettò un’occhiata all’altra ragazza, che le sembrava davvero molto scossa. Le si avvicinò e le posò la mano sulla spalla, cercando di trasmetterle la sua vicinanza. Zoey ricambiò con un sorriso accennato e, dopo aver preso un respiro profondo, disse semplicemente
«Andiamo»


Si appostò all’angolo di svolta, in attesa del momento propizio. Chiuse gli occhi verde acqua, per focalizzare meglio la sua attenzione sul rumore dei passi in avvicinamento. Si mosse repentinamente e, con uno scatto felino, inchiodò il suo obiettivo al muro. La sua espressione, da feroce e soddisfatta del suo operato, divenne irritata in un batter d’occhio, appena si rese conto di chi si trovava di fronte.
«Gattina!» esclamò contento il ragazzo, per poi cambiare tono subito dopo e alzare le mani in segno di resa in risposta allo sguardo tagliente della figlia di Ares
«Harsha, Harsha!… Va bene, scusa!»
Quest’ultima sospirò pesantemente e si allontanò a grandi falcate.
«Ehi, aspetta! Non puoi sbattermi contro il muro in quel modo violento ed incredibilmente eccitante e andartene come se niente fosse!» la richiamò Parker scherzoso, ma con un pizzico di malizia.
Harsha, dandogli le spalle, strinse i pugni. Si voltò lentamente verso di lui, dando occasione alla sua rabbia di montare.
«Fammi capire, piccolo stronzo, per te sarei solo un oggetto sessuale?» disse a denti stretti, avvicinandosi sempre di più ad ogni parola che pronunciava.
«Certo che no!» rispose piccato, lo sguardo indignato come a voler dire: come puoi pensare questo di me? 
Si voltò offeso, poi tornò sui suoi passi e si rivolse di nuovo a lei
«Sono certo che saresti anche un’ottima casalinga!» aggiunse beffardo, con un sorriso da piantagrane stampato sulla faccia.
Harsha, che nel frattempo non aveva abboccato alla sua sceneggiata da orgoglio ferito, aveva continuato ad accorciare la distanza che li separava, fino a ritrovarsi molto vicina, troppo vicina, pericolosamente vicina. Infatti, gli sferrò una potente ginocchiata… proprio lì.
Il figlio di Dioniso si piegò in due dal dolore e, istintivamente, mise le mani a protezione dei gioielli di famiglia. Nonostante ciò, riuscì a mormorare, con voce stridula e leggermente infantile
«Dai, stavo solo scherzando, prometto che non lo faccio più!»
Lei si accostò al suo orecchio e con le sue labbra carnose sussurrò
«Vaffanculo»
Parker la osservò andare via, fiera ed indomabile. Per quanto fosse conscio di mettere a rischio i propri attributi, far incazzare quella ragazza lo divertiva tantissimo, specialmente quando allargava le narici infuriata. A quel pensiero, scosse la testa e rise leggermente, riprendendo a camminare, sperando che non ci fossero danni irreparabili lì in basso. 


Far marcire quello strano bosco costò molta fatica ad Emil. Spese quasi tutte le sue energie per riuscirci, poiché inconsciamente sentiva che andava fatto. Osservò intorno a sé le piante che si scurivano, si contorcevano, si avvizzivano. I rami pensili che si afflosciavano, come marionette a cui hanno tagliato i fili. Le foglie che cadevano, ondeggiando lievi nell’aria, per poi decomporsi al suolo. Gli era sempre parso crudele il destino delle foglie in autunno: costrette a cambiare colore, rinsecchirsi e farsi calpestare, solo per la sopravvivenza dell’albero, che le sostituirà in primavera e le abbandonerà nuovamente all’arrivo del freddo. 
Che alberi spietati ed egoisti!
Per non parlare delle foglie, che imperterrite, nonostante siano a conoscenza del destino a cui vanno incontro, ricrescono sempre. 
Estremi dedizione e spirito di sacrificio o semplice masochismo?
Che foglie sciocche! 
Il paesaggio deteriorato intorno a sé, lo fece sentire per un attimo… potente. La devastazione di cui era il solo testimone era opera sua, lui ne era l’artefice. Per quanto fosse stanco, per quanto non sentisse più in suoi muscoli, per quanto non riuscisse neanche a reggersi in piedi, l’euforia nei suoi occhi eclissava tutto il resto. 
Con violenza inaudita, venne sbalzato via e tornò nel suo corpo, che stava affogando. Aprì gli occhi di scatto, facendo arretrare Mariska e Wiktor dallo spavento. Si guardarono per un attimo, quando le pareti che li circondavano iniziarono a cedere. Emil lottò contro le sue palpebre che minacciavano di chiudersi, mentre enormi frammenti di roccia fendevano l’acqua. Le forze lo avevano abbandonato e gli mancava il respiro, ma lui si aggrappò strenuamente all’ultimo residuo di vita che aveva. Vide un grosso cumulo di macerie piombare su di lui, annaspò nel tentativo di spostarsi, ma era troppo provato dall’esperienza nel bosco. 
Chiuse gli occhi, esausto.


«Ti prego, smettila di parlare così tanto!» disse la figlia di Efesto, palesemente ironica dato il mutismo in cui si era chiuso il semidio, con un sorrisetto scaltro sulle labbra piene e rosee. Il figlio di Ecate rise, abituato all’umorismo della ragazza.
«Stavo solo pensando che è davvero strano che ancora non sia successo niente…» mormorò puntando i grandi occhi azzurri davanti a sé, come se si aspettasse un attacco da un momento all’altro.
Jessica abbassò il capo e aggrottò le sopracciglia spesse e scure, lasciando scivolare i lunghi capelli biondi, riflettendo sulle parole di Yuki. Effettivamente aveva ragione, vagavano tranquilli da ore e questo non faceva che aumentare l’inquietudine della ragazza. Fortunatamente, dopo essere riuscita ad andare oltre l’apparenza fredda e taciturna di Yuki, aveva trovato in lui un buon compagno. Non sapeva ancora se potesse fidarsi, ma finora le aveva fatto una buona impressione. Sentirono dei rumori alle loro spalle ed entrambi si voltarono, le orecchie tese a captare ogni minimo suono, i muscoli in tensione, gli occhi verdissimi di lei che cercavano di scrutare l’ambiente scarsamente illuminato. Scorsero una figura muoversi a fatica. Lui le si parò istintivamente davanti e si avvicinarono con cautela. Quando furono abbastanza vicini, poterono distinguere il suo aspetto sotto la luce delle fiaccole. Ci misero qualche secondo a riconoscere in quella ragazza bassa, magrolina, con la pelle spaventosamente pallida, la carismatica figlia di Ade che li aveva guidati e rassicurati all’inizio. Si poggiava alla parete, le gambe malferme incapaci di reggerla. Avanzava molto lentamente, con andatura claudicante. Era evidente il suo sforzo nel muoversi, per cui Yuki colmò lo spazio che li separava a grandi falcate. 
Un nome balenò nella mente di Jessica: Ciel. Ricordò di aver  pensato che fosse un nome strano per una figlia di Ade e probabilmente era per questo motivo che le era rimasto impresso.
Yuki notò subito che qualcosa non andava: l’odore metallico del sangue giunse pungente alle sue narici dal tessuto che ricopriva la gamba destra, divenuto color cremisi. Fece sedere a terra la ragazza e il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore, ma non un gemito, né un lamento uscirono dalle sue labbra vermiglie.
«Io…» provò ad articolare con voce flebile, appena udibile
«Fà silenzio, non ti sforzare» la interruppe perentorio Yuki.
In condizioni normali, Ciel avrebbe ribattuto poiché non le piace che le dicano cosa deve fare, ma in quel momento la sofferenza prese il sopravvento. Il figlio di Ecate si abbassò per controllare la ferita, ma i suoi capelli biondi, lunghi e sbarazzini, gli erano d’intralcio, così li legò velocemente in una coda alta, con un laccetto di cuoio sul polso. Era un gesto talmente familiare ed inconscio, che non fece nemmeno caso al fatto che avesse un laccetto a portata di mano, inspiegabilmente. Sollevò il tessuto il più delicatamente possibile. Per quanto non avesse conoscenze mediche approfondite, riconobbe all’istante che quella ferita era infetta: il taglio non sembrava molto profondo, ma i bordi erano irregolari; la pelle, gonfia e arrossata, era incandescente e secerneva un liquido molto denso, di colore verde-giallastro.
«Non sono un medico, ma so che bisogna pulire la ferita e poi coprirla con un cerotto, ma non abbiamo niente di tutto questo!» disse Jessica, che si era apposta dietro di lui, lasciando trasparire la sua ansia dal tono di voce.
Yuki fece leva sul suo autocontrollo e prese le redini della situazione.
«Dobbiamo uscire da qui. Jessica, tu va' avanti, io aiuto Ciel a camminare»
Il suo tono era così sicuro, che la figlia di Efesto fece come le era stato detto, non prima di accertarsi che loro le venissero dietro.
Yuki aiutò la semidea ad alzarsi, le fece posare la mano sulla sua spalla, mentre con l’altro braccio la sorreggeva.
In quel momento, Jessica si rese conto di quanto fosse gravoso il suo compito: come avrebbe fatto a condurli fuori di lì?


Più tempo aveva a che fare con quella figlia di Afrodite, più la voglia di prenderla a pugni cresceva. Pensava davvero di aver già vinto solo  perché aveva “ammaliato” un figlio di Zeus? Purtroppo, per quanto la ritenesse insopportabile, poteva essere una valida alleata. La sua lingua ammaliatrice, sapientemente guidata, si sarebbe dimostrata estremamente utile. Avrebbe potuto creare zizzania, spezzare le alleanze, instillare dubbi, paure e sospetti nei suoi avversari senza alcuno sforzo. In più, il pacchetto includeva un figlio dei tre pezzi grossi, che non fa mai male! In quel frangente, Aysha agì da degna figlia di Ate. Per convincere Nicole, doveva mostrarsi ai suoi occhi utile, anzi meglio indispensabile
«Bè, non potrai sempre contare su di lui. Infatti, qui dentro è inutile»
L’altra alzò un sopracciglio e ribatté scettica
«Davvero? Vogliamo provare?» Aysha represse l’istinto di spaccarle il suo visino perfetto e ostentando un autocontrollo che non possedeva rispose
«Fai pure, ma sappi che non può evocare un fulmine perché squarcerebbe il soffitto, che ci crollerebbe addosso. Non avrebbe molto fortuna neanche con le correnti d’aria, il cui unico risultato sarebbe quello di lasciarci nell’oscurità più totale. Infine, è uno spadaccino senza la sua spada, quindi inoffensivo» disse tutto questo ad una tale velocità da confondere e impedire all’altra semidea di interromperla o replicare.
«Inoltre, non puoi fare affidamento su un potere che non funziona sempre con tutti» aggiunse, rigirandosi innocentemente tra le dita una cioccia riccia e scura e voltandole le spalle, come per andarsene. L’aveva fatto, aveva sganciato la bomba. Sperava solo di avere ragione.
«Cosa? Come fai a saperlo?» biascicò irritata Nicole. 
La figlia di Ate si umettò le labbra carnose, soddisfatta del suo operato. Si rivolse di nuovo a lei, con i piccoli occhi verde torbido raggianti e le sopracciglia inarcate in un’espressione arrogante.
«Semplice. Se avessi potuto, avresti già usato la tua lingua ammaliatrice su di me»
Lasciò l’altra senza parole, incapace di rispondere. Vista la situazione, Aysha continuò
«Ascolta: potremmo formare un bella squadra. Io sono agile, veloce, intelligente e… non dirò a nessuno che hai “schiavizzato” un povero figlio di Zeus. Sai, qualcuno potrebbe non gradire…»
«Mi stai ricattando!?» soffiò indignata Nicole
La riccia fece finta di pensarci
«Sì, credo proprio di sì!» ed esibì un sorriso trionfante.
«Ci stai?» chiese gongolante la figlia di Ate, allungando la mano olivastra. Nicole la strinse, a dir poco furiosa.
Se Aysha si fidasse della figlia di Afrodite? Certo che no! L’avrebbe sfruttata finché poteva, poi avrebbe trovato un modo per liberarsi di lei. Dal canto suo, anche Nicole cominciò subito a pensare a come uscire da quella scomoda situazione e a come trarne vantaggio.
Che bizzarra alleanza!


Per quanto vagassero da tempo, senza nessuna traccia di Alexander, Rosie cercò di rimanere calma e positiva. Per tenere le mani occupate, aveva legato i suoi capelli castani in una treccia laterale. Aveva provato a rincuorare Zoey, ma quest'ultima era rimasta davvero turbata dalla scomparsa di Alex. Più di quanto la piccola figlia di Demetra si aspettasse. Anche lei era preoccupata per lui, ma l’altra era profondamente scossa, in un modo che non riusciva a spiegarsi, soprattutto per qualcuno che conosceva a malapena. 
Le due ragazze ebbero un sussulto quando qualcosa cadde rumorosamente davanti a loro. Si scambiarono un’occhiata e si avvicinarono per esaminare l’oggetto: era un piccolo scrigno, dello stesso colore dei capelli di Zoey, ovvero color cioccolato con dei riflessi rossi. Era finemente intagliato e lucidato, apparentemente nuovo, come se fosse fresco di verniciatura. Ai lati presentava degli eleganti ghirigori simili ad onde stilizzate. La cosa più stupefacente era che sul coperchio c’era un bassorilievo, raffigurante una ragazzina del tutto simile alla figlia di Poseidone. Chiunque l’avesse realizzato, era riuscito persino a dare l’illusione di movimento ai capelli della figura, rispecchiando fedelmente la chioma riccia, spettinata ed indomabile del modello reale. Zoey lo studiò attentamente con le mani chiare, indugiando sull’apertura in oro rosso, incerta sul da farsi. Alla fine, lo aprì, decisa a non farsi mettere in crisi da uno scrigno. Sollevò il coperchio lentamente, con cautela, quasi con paura. All’interno ci trovò una boccettina da circa venti ml, contenente un liquido denso e argenteo e chiusa con un piccolo tappo di sughero, e un foglio di carta ingiallita. Quest’ultimo recava queste parole:

Agisci come chi viaggiò in un mondo incantato
e segui le istruzioni di questo foglio dorato, 
per recuperare ciò che avevi,
fa' come ti dico: BEVI

Zoey era perplessa. Chi viaggiò in un mondo incantato? Per recuperare ciò che avevi? Che cosa voleva dire?
Anche Rosie rimuginò sul significato di quella breve filastrocca e, pensando al secco comando “BEVI”, le si illuminò una lampadina
«Alice nel paese delle meraviglie!» dissero le due ragazzine in coro e scoppiarono a ridere, di una risata pura e genuina, divertite dalla perfetta sincronia con cui erano arrivate alla stessa conclusione.
«Va bene, ma come può aiutarci? Alice doveva bere per rimpicciolirsi, mentre io, secondo quanto dice qui, dovrei recuperare qualcosa» aggiunge la figlia di Poseidone, sempre più confusa
«Magari, quelli sono i tuoi ricordi…» propose Rosie.
In realtà, era la prima cosa che aveva fatto capolino nella mente di Zoey alla lettura del terzo verso, ma era un’eventualità che la riempiva di dubbi. E se fosse una trappola? Possibile che le memorie accumulate in quattordici anni di vita, si potessero contenere in quella piccola boccetta?
Senza neanche rendersene conto, aveva cominciato ad arricciarsi sul dito una ciocca di capelli, mentre borbottava in francese. Stavolta, fu il turno di Rosie di guardare l’amica confusa e preoccupata
«Zoey, stai bene?»
«Sì, perché?»
«Stavi parlando in francese!»
Conosceva il francese. Conosceva il francese ma non sapeva perché. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Stappò la boccetta e la bevve tutta d’un fiato.
Come in una nave in balìa di una tempesta le onde si infrangono a prua, sempre più alte, sempre più violente, così i ricordi investirono la mente della semidea.

«Dov’è la mamma?»
«Ecco… lei non c’è più»

«Forza bambini, ci sono due signori che vi vorrebbero adottare. Fate i bravi, mi raccomando!»

«Mamma! Mamma! Lys mi sporcato la bambola!»
«Non è vero, non sono stato io!»
«Alex, chiedi scusa alla tua sorellina»
«Uffa, la difendete sempre perché è la più piccola!»
«Alexander Ulysse Baston, vieni subito qui!»

«Papà, spingimi più forte!»
«Va bene, però tieniti»
«Anch’io voglio salire sull’altalena!»
«Io pure!»
«Anch’io! Anch’io!»
«Prima io però!»
«Tranquille bambine, una alla volta  farò fare un giro sull’altalena a tutte»

«Papà, andiamo a giocare a pallone?»
«Certo Alex, finisco di prendere il tè con le tue sorelle e arrivo»
«Tutte queste femmine saranno la nostra rovina…»

«Lys, ridammi subito la mia fascia!»
«Vienitela a prendere»
«Se ti acchiappo, te la faccio pagare!»
«Provaci!»

«Lys?»
«Sì, sorellina?»
«Alla fine, il Campo Mezzosangue non è poi così male»
«Già»
«E… sono contenta di essere in cabina con te…»
«Lo so, tutti vorrebbero essere in cabina con me. Considerati fortunata!»
«Idiota! Per una volta che volevo dirti qualcosa di carino…»

Pensò seriamente che la testa le sarebbe esplosa. Adesso tutto era più chiaro. La sua preoccupazione, il nodo alla stomaco che l’aveva attanagliata da quando Lys era scomparso, tutto acquistava un nuovo significato alla luce di quello che ricordava. Si guardò la fascia giallo-arancione che portava al polso sinistro, uguale a quella di suo fratello eccetto per la colorazione. Era incredibile come un particolare prima insignificante, con i suoi ricordi ripristinati acquistasse tutt’altro valore.
«Zoey! Zoey! Presto, dobbiamo andare!» la strattonò tra le lacrime Rosie
«Cosa? Perché? Che sta succedendo?» chiese disorientata
«Sta per crollare tutto, dobbiamo scappare!» urlò la figlia di Demetra con urgenza
«Ma Alex… non possiamo…»
«Non c’è tempo!»
Zoey si alzò in piedi, furiosa e allo stesso tempo supplicante
«È mio fratello, non possiamo lasciarlo qui!»
A questa rivelazione, Rosie non seppe cosa rispondere. Riuscì solo a guardarla con un immenso senso di colpa e dispiacere dipinti sul volto, gli occhi lucidi di pianto.
Ci fu una scossa tremenda e degli enormi massi caddero dal soffitto. Le ragazze si spostarono appena in tempo, salvate dai loro riflessi da semidee. 
La consapevolezza della situazione in cui si trovava colpì Zoey come un macigno. Non poteva cercare Alex senza morire nel tentativo e condannare a morte anche Rosie. Aveva appena ritrovato suo fratello e l’aveva già perso.
«Perdonami Lys» sussurrò.
Corse via, seguita da Rosie.


Spalancò gli occhi improvvisamente a causa di uno schiaffo. Era disteso supino a terra, ma per lo shock raddrizzò immediatamente la schiena, incontrando lo sguardo sorpreso di Mariska, che poco prima era arretrata per la repentina presa di coscienza del semidio. Insomma, un attimo prima è svenuto e adesso sembra perfettamente presente e attivo!, pensò la ragazza.
Emil si portò la mano alla guancia, lievemente arrossata. 
«Ma sei pazza!?» esclamò
«Sei tu quello che ha fatto il cosplay della bella addormentata nel bosco! Cosa avrei dovuto fare?» rispose a tono Mariska.
Il figlio di Demetra ripensò a quello che aveva fatto, al bosco, al quasi annegamento…
«Lasciamo perdere. Non posso spiegarti perché, ma dobbiamo uscire da qui»
Mariska percepì una certa urgenza nella sua voce, anche se appena accennata, per cui decise di fidarsi.
«Va bene» disse un po’ riluttante, lasciandosi sfuggire un sospiro
«Dov’è Wiktor?»
Quella domanda fuoriuscì dalle labbra di Emil prima ancora che potesse rendersi conto di averla formulata. Se ne pentì all’istante. Cosa gliene importava?
«È rimasto bloccato dall’altra parte» rispose la figlia di Dioniso, indicando un enorme cumulo di macerie.
Emil non seppe decifrare cosa provava. Dispiacere? Sollievo? Preoccupazione? Preferì semplicemente ignorare la cosa.
«Dai, sbrighiamoci» 


Le luci si spensero di colpo. Poi un faro si accese, accecando il figlio di Efesto, ancora legato. 
«Ben svegliato, semidio»
Una voce suadente, decisamente femminile, echeggiò in tutta la stanza, lasciando sospesa nell’aria la lieve vena canzonatoria di cui era intrisa la parola “semidio”.
Luciano rimase in silenzio, aspettando che continuasse.
«Come siamo taciturni! Dai, ho una sorpresa per te» disse ammiccante
Di fronte a lui, un cono di luce illuminò un uomo di mezza età, legato ed imbavagliato.
«Grazie, non dovevi. Preferisco i buoni regalo» scherzò Luciano per prendere tempo
«Cosa? Non ti piace? Ah già, non te lo ricordi…» e rise, come se avesse raccontato la barzelletta più divertente del mondo, di una risata cristallina, di quelle lunghe e prolungate che ti fanno dubitare della sanità mentale di una persona.
Luciano inarcò le sopracciglia folte e scure, piuttosto confuso ed inquietato allo stesso tempo.
«È l’ora di rinfrescarti un po’ la memoria»
La stanza intorno a lui prese a vorticare ad una velocità nauseante. Non riusciva più a distinguere i contorni della realtà. Finalmente il mondo smise di girare e lui cadde bruscamente in avanti, frenando la caduta con le mani. 
Si trovava in una fabbrica operaia, forse del settore siderurgico. Ogni cosa di quel posto gli era familiare: il sommesso vociare dei lavoratori, i rumori dei macchinari in funzione, la puzza di olio e di fumo, la sporcizia. Il tutto gli trasmetteva un tale senso di appartenenza, da essere quasi commovente. Si sentiva a casa.
Davanti a lui comparve un ragazzino. Aveva la carnagione ambrata, grandi occhi castano scuro e lunghe ciglia. Era sporco di olio sul viso, sulle braccia e anche sui vestiti malconci. Col dorso della mano si scostò dalla fronte imperlata di sudore dei ciuffi castano chiaro, macchiandosi ancora di più. In quel gesto, finalmente lo riconobbe: era se stesso, all’età di tredici anni. Nel tempo, Luciano era un po’ cambiato. La dolcezza dei tratti infantili aveva lasciato spazio a dei lineamenti morbidi, ma dalla mascella ben delineata. Inoltre, era aumentato di statura e il fisico era leggermente più scolpito. Il piccolo Luciano si avviò spedito, zigzagando in mezzo ai macchinari, piuttosto sicuro della sua direzione. Chiedendosi dove stesse andando, il figlio di Efesto lo seguì. Il Luciano tredicenne spalancò una porta che dava su un’altra sala macchinari. Rimase impietrito sul posto, come l’altro Luciano. 
In quel momento come allora, egli poté solo assistere, impotente. 
Un uomo, furente, spinse sua madre sui macchinari in funzione e lei cadde e agitava le braccia alla ricerca disperata di un appiglio, mentre cadeva inesorabilmente, e finì schiacciata e morì sul colpo e Luciano si coprì le orecchie per non sentire le urla del ragazzino, le sue urla, e l’odio e la rabbia repressa si impadronirono di lui, insieme al dolore e alla disperazione per aver perso la persona che amava di più al mondo.
Cambiò scenario. Era in un’aula di tribunale. Era vuota, ma la ricordava benissimo. Era l’aula in cui era stato processato l’uomo che aveva ucciso sua madre. L’aula in cui si era dichiarato innocente. L’aula in cui lui aveva esposto la sua testimonianza, che nessuno aveva considerato. Era l’aula in cui quell’uomo era stato assolto.
Tornò nella stanza da cui era partito, ancora intrappolato al lettino di metallo.
«L’uomo cattivo ti ha ucciso la mamma» cantilenò una voce infantile.
Luciano lo guardò, ma con occhi diversi. Julian Shackleford. Persino il suo nome gli dava il voltastomaco. Lo scorrere del tempo gli aveva solo imbiancato la radice dei suoi capelli bruni, ma quegli occhi, quei gelidi occhi chiaro-azzurri, avevano popolato le sue fantasie più cupe e violente. Si chiese come avesse potuto dimenticarli.
La sua sola vista, insieme al ricordo della morte di sua madre vivo nella mente più che mai, lo resero furibondo. Sentì la collera montare, i pugni serrarsi fino a conficcarsi a sangue le unghie nella carne, le narici dilatarsi, gli occhi inumidirsi, le labbra tremare, ogni fibra del suo essere tesa allo spasimo per il desiderio di vendetta. Come ad assecondare il suo volere, le tenaglie si aprirono. Si scagliò immediatamente contro Julian. Abbandonò ogni sorta di razionalità e raziocinio, lasciando che l’odio e la rabbia accumulati in quattro anni lo pervadessero. Lo tempestò di pugni e calci. Lo colpì alla mascella, allo stomaco, sul naso. Diede un calcio alla sedia a cui era legato, gettandolo a terra. Prese a dargli ripetuti e violenti calci allo stomaco, alle ginocchia. Si allontanò un istante per cercare un oggetto pesante. Trovato, lo usò per spaccare la sedia, che gli era d’intralcio. Schegge di legno volarono ovunque, conficcandosi anche nella pelle di Luciano, a cui però non importava. Sollevò l’uomo per il colletto della giacca, ormai intrisa di sangue, e lo sbatté al muro, aiutato dall’adrenalina che circolava nel suo corpo. Piantò gli occhi iniettati di sangue in quelli chiari di Julian, pieni di assoluto terrore.
«Finiscilo!» una sola parola, un comando dolce, allettante e Luciano si ritrovò in mano esattamente ciò di cui aveva bisogno in quel momento: un pugnale.   
Glielo conficcò nel petto, spingendo con il peso del suo corpo per piantarlo più in profondità, mentre le grida dell’uomo erano soffocate dal bavaglio. Quando la lama affondò completamente, Luciano la rigirò, per farlo soffrire ancora di più. Estrasse l’arma e il corpo di Julian Shackleford si accasciò a terra senza vita, mentre fuoriuscivano rivoli di sangue. 
Una lacrima cadde sul pugnale insanguinato, pesante come una sentenza di morte. A quella ne seguirono altre. Lacrime di disperazione, lacrime di soddisfazione, lacrime di sfogo.
Le luci si riaccesero in tutta la loro potenza e accecarono Luciano, che si coprì gli occhi con la mano. Quando li riaprì, tutto era tornato al suo posto, come se non fosse successo nulla. Il cadavere, il sangue, persino quello su di sé era sparito. Lui però era certo di ciò che era accaduto, poiché si sentiva svuotato, svuotato da anni di odio e rancore. Si sentì afferrare da dietro e si ritrovò di nuovo bloccato sul lettino, che si piegò fino a costringerlo in posizione supina. Il lettino si mosse velocemente, portandolo in uno spazio poco illuminato, dal soffitto altissimo.
«Prima che te ne vada, devi solo fare una scelta» scandirono insieme delle voci maschili, femminili e puerili
«Che cosa vuoi?» era esausto, non era in vena di giochetti
«Solo un semidio uscirà da qui»
A destra, apparve Sophie, anche lei immobilizzata. Ci fu assordante rumore di catene in movimento e qualcosa, di cui potevano solo distinguere il metallico scintillio, scese in picchiata su di loro.
Non c’era niente che il figlio di Efesto potesse fare e, seppur a malincuore, fece la sua scelta
«Uccidi lei»
Non avrebbe rischiato la vita per una ragazza che conosceva a malapena.
Le catene calarono sulla figlia di Atena.
«Aspetta!» urlò Luciano. Tutto si fermò, una lama a pochi centimetri dal cuore della ragazza. 
«Hai detto che solo un semidio uscirà da qui, giusto?» nonostante il cuore gli battesse all’impazzata, cercò di mantenere un tono calmo
«Sì, è quello che ho detto»
«Sophie non è un semidio, però. È una semidea» era il pretesto più ridicolo a cui potesse aggrapparsi, se ne rendeva conto, ma doveva almeno provarci, nella speranza di prendere tempo ed escogitare una soluzione migliore.
Dopo dei secondi che parvero interminabili, finalmente la voce rispose
«Hai ragione. Te lo concedo, per stavolta»
Li liberò davanti ad una porta spalancata, da cui penetravano dei raggi solari. Erano talmente storditi, che nessuno dei due azzardò un passo.
«Forza, andatevene» li esortò sbrigativa una voce maschile. Attraversarono veloci lo spazio. Uscirono, la luce del sole che li riscaldava. Un leggero venticello rendeva la temperatura gradevole, mite. Il cielo era di un azzurro abbagliante, specialmente dopo il buio del tempio.
Luciano si allontanò a grandi falcate, ma venne richiamato dalla voce di Sophie. Decise di non scappare, di affrontare la situazione. Si fermò e aspettò che lo raggiungesse. Aveva i capelli biondi un po’ scombinati dalla corsa e le guance arrossate.
«Grazie» disse semplicemente
«Per cosa?» chiese lui sbalordito e perplesso
«Per non esserti comportato da eroe»
Non c’erano disprezzo, rabbia, risentimento, delusione o tagliente sarcasmo nelle sue parole. Era… sincera. 
No, cazzo, pensò Luciano. Aveva ucciso un uomo, l’avrebbe lasciata morire per salvarsi, insomma, si era comportato da pezzo di merda. Lui voleva sentirselo dire. Avrebbe accettato qualunque reazione da parte sua, ma non la gratitudine.
«Sei scema!? Mi sono comportato da bastardo egoista e tu mi ringrazi!?» le sbraitò contro
«E pensi sia peggio che sacrificarti e lasciarmi col bruciante senso di colpa di una morte che non ho chiesto!?» rispose a tono, quasi sull’orlo delle lacrime
«Certo che è peggio! Qualunque persona normale penserebbe che è peggio!» ribatté furioso
«Ti assicuro che non è così, idiota!» replicò esasperata, andandosene via.


Molti semidei cominciarono ad uscire dal tempio in rapida successione. Nessuno sembrava aver trovato qualcosa. 
«Presto, un figlio di Apollo! È ferita!» urlò Yuki, riferendosi chiaramente a Ciel, che riusciva a reggersi in piedi solo grazie al suo aiuto. Shayla accorse immediatamente, determinata a rendersi utile. Esaminò la ferita, con fare esperto. Non era un taglio profondo, ma era necessario che fosse subito disinfettato. Peccato che non avesse neanche una goccia d’acqua, anche solo per pulirlo. Dannazione, imprecò mentalmente la ragazza. Guardò gli occhi di Yuki e Jessica, carichi di aspettativa. Si sentì morire, non voleva deluderli. La terra sotto i loro piedi tremò violentemente, mentre il tempio crollava, con la velocità di un castello di carte e il frastuono delle macerie. Nel frattempo, una zolla di terreno si divise in due, lasciando emergere una pedana d’acciaio, ricolma di ogni bene: armi, cibo, acqua, medicine e…
«Will!» la figlia di Apollo era così sollevata che stesse bene. Il suo fisico minuto si notava a malapena in mezzo ai viveri, ma i suoi capelli biondo scuro, illuminati dalla luce del sole, lo rendevano perfettamente riconoscibile.
Come le api sono attirate dal miele, così i semidei si diressero verso gli oggetti sulla pedana. C’erano abbastanza provviste ed armi per tutti, persino in sovrabbondanza. I più lungimiranti si rifornirono di cibo ed acqua, mentre altri andarono dritti verso le armi, per scegliere quella più consona. Strano notare come alcuni puntavano a certi tipi di armi piuttosto che altre, in particolare come la loro attenzione cadesse su oggetti all’apparenza insignificanti, ma che si dimostravano perfetti per loro. Come Cora, che prese un comune ciondolo a forma di fulmine, con la facoltà di diventare una spada in bronzo celeste, lunga circa un metro, di nome Keraiunos, “fulmine”; o Emil, che optò per una lunga lancia, mascherata sotto forma di un fermaglio di croce rovesciata; anche Nicole, che scelse una lima per unghie che all’occorrenza poteva trasformarsi in una pugnale, di nome katakliptica, “favoloso”. Quando tutti ebbero in mano un’arma, questa iniziò a sfrigolare nelle loro mani, provocando loro la comparsa di bolle, scariche di dolore al braccio e l’improvvisa colorazione verdognola delle vene. Mollarono la presa all’istante.
«Ironico, vero?» disse una voce, contemporaneamente la sovrapposizione di una maschile e una femminile. Dato che nessuno osò fiatare, troppo sgomenti e provati dal tempio, la voce continuò
«Insomma, tutta questa situazione: il figlio del dio della medicina, scienza nata per prolungare la vostra misera vita, vi ha portato la morte sotto forma di strumenti per dare la morte. Le vostre armi sono avvelenate. Se ci pensate bene, è ancora più divertente, perché voi umani dite spesso: “Il tempo guarisce tutte le ferite”.
Ahahahaha, in questo caso, è proprio il tempo ad essere il vostro peggior nemico! Più ne passa, più il veleno si fa strada nel vostro corpo, più la vostra fine si avvicina. Tranquilli, dato che sono clemente, esiste un antidoto. Dovete solo trovarlo»
Se il contesto non fosse abbastanza assurdo e surreale, partì un’altra voce, per cadenza e velocità uguale a quella che si sente alla fine degli spot pubblicitari dei farmaci:

Attenzione, il veleno presenta degli effetti collaterali anche gravi quali: febbre, insonnia, incubi, attacchi di panico, allucinazioni, aumento dell’aggressività, paranoia, follia, dolore e… morte. 






Ehilà! 


Eccomi qui a rompervi le scatole poco prima (o poco dopo per chi è già cominciata) l'inizio della scuola! 
Siamo tutti devastati da questo avvenimento #prayforstudents
Spero che il capitolo vi piaccia e considerate che sono stata buona, perché non è ancora morto nessuno. Volevo almeno far entrare in scena tutti i personaggi, prima di ucciderli. Perché sì, forse già dal prossimo capitolo, comincerà il massacro 
Prima di salutarvi una cosa importante: il bello delle interattive è l'interazione con gli altri utenti, appunto. Penso sia un bel gesto di fiducia consegnare nella mani di un estraneo un personaggio a cui probabilmente siete legati e in cui avete messo un po' di voi stessi. Ovviamente è una mia responsabilità trattarli con cura. Però, non vedo la stessa partecipazione da parte di tutti. Non pretendo che recensiate ogni singolo capitolo, sia chiaro, mi basta anche un semplice messaggio privato ogni tanto, giusto per capire che ci siete. Per cui, ho bisogno che rispondiate ad una domanda, per messaggio privato, in modo da capire chi c'è e chi non c'è.
Riguarda la morte: come la affronta? Il vostro personaggio è disposto ad uccidere? In che modo, rapido ed indolore o lento e doloroso? Per quali motivi o in quali situazioni sarebbe disposto ad uccidere? Proverebbe dei rimorsi? Vorrei sapere questo, con le dovute spiegazioni.
Siccome capisco che sta ricominciando la scuola e sarete tutti/e occupati/e, vi do due settimane di tempo, cioè fino al 26 Settembre. Chi non risponderà, non sarà interpellato nelle scelte del suo personaggio, che farà una fine prematura. 
Non potete capire quanto detesti fare così...
Visto che si guardano sempre gli aspetti negativi, adesso occupiamoci di quelli positivi: ringrazio tutti/e quelli/e che recensiscono, che seguono, preferiscono o ricordano questa storia.
Un grazie immenso, ve se ama 

Come sempre, i vostri pareri sono i benvenuti e ci vediamo al prossimo capitolo!
Baci :-*


P.S. che per l'uso che ne faccio, più che per Post Scriptum, sta per Personale Sclero.
Avete letto "Le sfide di Apollo - L'oracolo nascosto?
Ve lo chiedo perché ho letto varie recensioni di persone che ne sono rimaste entusiaste. Non è che non mi sia piaciuto, anzi! Anche solo per Apollo e la sua crescita e i Solangelo, questo libro è stupendo! Solo che alcuni aspetti non mi fanno impazzire e vorrei capire se sono l'unica... 
Se volete, possiamo anche parlarne per mp.
Ora smetto di rompere, bye 

 

   
 
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