Wenn die Sterne leuchten.
Capitolo Nono.
All
the writers keep writing what they
write
Somewhere another pretty vein just dies
I've got the scars from tomorrow
and I wish you could see
That you're the antidote to everything except for me
A constellation of tears on your
lashes burn everything you love
Then burn the ashes in the end everything collides
https://www.youtube.com/watch?v=5NEDjQPq6so
Anno 846
Nei territori invasi di Maria.
Nina si ritrovò a pensare
stupidamente che era assurdo vivere tutta quell’avventura senza ricordare nemmeno
una volta Ilse Langnar. Le
era tornata alla mente mentre stava riparando l’orologio da taschino che,
precedentemente, era appartenuto a Fritz Meier. Nina lo aveva rotto in modo
stupido, poco dopo averlo ricevuto in dono dal padre dell’amico, ma non aveva
mai smesso di portarlo con sé, dentro alla saccoccia di cuoio che le pendeva
sempre dal fianco, come un porta fortuna.
Aveva avuto la fortuna di
trovarne uno simile in un cassetto, in una delle stanze al piano di sopra.
Stava cercando fogli su cui annotare gli scarsi progressi fatti nella
trascrizione dei libri in lingua comune – non era così stupida da farlo sul suo
taccuino, che sapeva le sarebbe stato requisito non appena messo di nuovo piede
nelle Mura Rose- quando fra le mani le era finito quell’oggetto dall’aria
vissuta, nascosto dietro a qualche scatolina vuota, sicuramente ficcato là
dentro nel tentativo di tenerlo nascosto. Chiunque volesse tenerlo al sicuro ci
era riuscito, perché se la giovane non avesse frugato in ogni angolo della
casa, allora non avrebbe mai notato quel vecchio scrittoio, semi nascosto
dietro a una porta. Nonostante le
lancette ferme, la bionda si convinse che se anche le batterie si fossero
scaricate, gli ingranaggi potevano essere ancora utilizzabili. Avrebbe quindi
potuto cambiare un paio di meccaniche da quello di Fritz, che Mike le aveva
detto si dovevano essere rotte in seguito a una caduta e poi, settando
l’orologio quando il sole si sarebbe trovato al centro preciso del cielo a
segnare l’inizio del meriggio, avrebbe avuto un orario approssimativo. Avere qualche
certezza l’avrebbe punto di riferimento a non perdere la testa.
Aveva quindi portato
l’oggetto nella cucina e prima di iniziare lo scempio e la mutilazione di
quest’ultimo, lo aveva osservato per bene. Il caso volle che, incise
sull’argento dello sportellino, spiccassero le iniziali I.L., in una sorta di stramba
coincidenza che però la fece riflettere. Non erano passati molti mesi da quando
avevano ritrovato il corpo della compagna d’armi, intatto ad eccezione del capo
che le era stato staccato dal collo. Non era quello però ad aver lasciato il
segno, ma ciò che la ragazza aveva coraggiosamente riportato nelle pagine di un
diario. Quando era capitato fra le mani di Nina, due secondi dopo che Levi
l’aveva trovato fra i fili d’erba, la ragazza aveva compreso che non era cosa
da poco. L’aveva letto per bene, una volta fatto ritorno a Trost
e si era anche ritrovata a immedesimarsi nel terrore che la giovane aveva
provato e che aveva reso la scrittura sempre più veloce e tremolante fino al
peggiore degli epiloghi.
Ironicamente, però, Nina non
aveva pensato a cosa avrebbe fatto lei al posto di Ilse.
Si era adagiata sugli allori, da quando aveva cambiato squadra e si era
ritrovata gomito a gomito con Levi. Pur essendo costantemente in prima linea,
Nina non era mai sola e aveva le spalle coperte dal guerriero più forte
dell’umanità. Un bel vantaggio.
Eppure, ripensandoci, si
chiese se quella sua esperienza non potesse anche far luce sul mistero di Ilse. Forse avrebbe incontrato anche lei un gigante
parlante? O magari, nella più torbida delle ipotesi, sarebbe anche lei andata
incontro alla pazzia? Perché anche di questo si era discusso; forse la poverina
era impazzita, da sola e spaventata.
Nina non ci aveva creduto,
mentre suo fratello lo ipotizzava, perché era fermamente convinta che ci fosse
della lucidità in quelle parole. Eppure, mentre guardava le lancette rianimate
nel quadrante dorato, il medico si ritrovò a pensare che forse non era così
assurdo.
Forse Ilse
era davvero impazzita, nella solitudine dei territori di Maria.
Forse sarebbe impazzita anche
lei, se non si fosse data da fare.
Con uno scatto, Nina chiuse
lo sportellino, infilando l’orologio nella tasca dei pantaloni bianchi. Si mise
seduta sul letto, recuperando uno dei libri che giacevano impilati a terra per
riprendere il lavoro.
Li stava accumulando a poco a
poco.
Non aveva del sapone con sé,
ma la vita con Levi aveva dato i suoi frutti.
Lavare i vestiti nel torrente
usando solo della cenere, per esempio, era qualcosa che era stato lui ad
insegnarle. A dirla tutta, era una donnina di casa molto più brava di Nina che,
al contrario, sapeva fare poco o niente. Non sapeva nemmeno cucinare e i pochi
tentativi fatti si erano sempre rivelati un disastro. Per non parlare poi del
modo in cui rammendava; era un asso nei punti di sutura, ma nel punto croce
mancava di tecnica.
Era un po’ incosciente da
parte sua uscire durante il pomeriggio, ma non ce la faceva più a vivere da
reclusa dentro quelle quattro mura sino al calare del sole. Si era armata per
bene, per poi strisciare verso lo scorrere del fiumiciattolo, non incontrando
ostacoli.
I giganti si tenevano lontani
dalla borgata ogni giorno di più, come se un solo essere umano non fosse
sufficiente per attirarli. Dalla prima notte aveva notato che il loro numero e
le loro visite erano calate esponenzialmente, nonostante però ne avvistasse
spesso aggirarsi nel bosco che in quel momento era pericolosamente vicino.
Sperò di avere il tempo di
nascondersi sfruttando le rocce attorno a lei, nel caso in cui ne fosse apparso
uno. Quando meno l’avrebbe sentito. Ogni passo rimbombava con la potenza di un
tuono per tutta la vallata attorno al borgo.
Erano passati sette giorni da
quanto era arrivata lì, un’intera settimana a parlare solo con se stessa e Nina
stava iniziando a farci l’abitudine. Per quanto questa realtà fosse triste, in
un certo senso, andava bene così. Avere tutti i sensi perennemente in allerta
era stancante, i nervi a fior di pelle non mancavano mai e non poteva vivere
così. Per questo osava.
Se avesse vissuto ogni
secondo con il terrore di morire, allora avrebbe commesso un errore idiota e
sarebbe morta davvero.
Lavò i pantaloni bianchi
della divisa, sospirando per la sensazione poco gradevole che quelli che aveva
addosso, un pantalone nero che aveva trovato in cassetto, le dava. Era larghi
sulle gambe e le cinghie dell’equipaggiamento vestivano male.
Aveva avuto il tempo di
frugare nelle case per fare incetta di abiti, è vero, ma i libri l’avevano
distratta.
Passò quindi alla camicetta smanicata che indossava il primo giorno, madida del sangue
essiccato di Sankov e prese a strofinare così forte
da pensare che avrebbe perso le dita. Per quanto la cenere fosse efficace,
però, non poté molto e dei tristi aloni giallognoli rimasero ad impregnare il
tessuto candido.
“Levi non ne sarebbe felice”
soppesò, buttando l’indumento in una cesta di vimini, prima di passare ad
altro. Fu allora che sentì un rumore.
Il sangue le si gelò nelle
vene e gli occhi si sbarrarono, ma fu abbastanza veloce da ritrovarsi con le
lame sguainate in un battuto di ciglia. Rimase ferma, china sul corso d’acqua
con un piede dentro al fiume nel tentativo di rimanere bilanciata, sicura di
essere nascosta da due speroni rocciosi. Rimase in ascolto per qualche minuto,
chiedendosi se l’avesse o meno immaginato, ma quando sentì di nuovo qualcosa
realizzò non solo che non era ancora impazzita, ma che quello non sembrava un
gigante.
Affatto.
Rinfoderò le lame senza
sganciarle dalle meccaniche, così da poterle afferrare velocemente, prima di
girare attorno alla roccia.
A pochi metri da lei,
incurante e pacifico, c’era un cavallo.
Tutto intento a brucare
l’erba non si accorse inizialmente della presenza della giovane, che lo fissava
come se avesse appena visto un’apparizione mistica.
Quello era un cavallo.
Un cavallo che poteva
portarla a Trost, per essere precisi.
Sul muso lungo aveva ancora
una testiera, anche se rotta e che pendeva strappata di lato, segno però che
non era selvatico. Quel cavallo era appartenuto a qualcuno, probabilmente della
ricognitiva.
Istintivamente, Nina si
guardò attorno, prima di portare le dita alle labbra e fischiare.
Spero di non doverlo rifare,
ma se quel cavallo era stato addestrato dal loro corpo militare, allora sarebbe
corso subito da lei.
Cosa che non accadde.
L’animale alzò solo il muso, continuando
a brucare imperterrito l’erba, guardandola con quella che Nina scambiò per
supponenza.
Non s’era mai visto un
cavallo supponente e per ovvie ragioni, ma il modo in cui questo tornò a
mangiare le fece capire che forse la stava prendendo in giro.
Con un sospiro rassegnato –
nemmeno una poteva andarle bene- avanzò di qualche passo, catturando di nuovo
l’attenzione dell’animale.
Ora che lo guardava bene,
doveva ammettere che quella bestia aveva qualcosa di strano. Non aveva mai
visto un cavallo così.
Tanto per iniziare, sembrava
più piccolo di quelli che venivano allevati dentro alle Mura Rose. Il muso era
lungo, così come le zampe, sottili. Persino il colore era molto particolare,
non tanto per il fatto che fosse bianco, ma per le screziature marroncine, dello stesso colore del crine, che aveva alla
base della schiena, proprio sull’attaccatura della coda e sulle anche.
Non ne aveva mai visto uno
così, ma infondo non ne sapeva proprio niente di veterinaria.
L’animale le permise di
arrivargli vicino, ma nel momento esatto in cui Nina allungò una mano per
afferrare l’imbragatura della testiera, per quanto fu delicata nei modi, questi
nitrì, allontanandosi in fretta.
“No, ti prego!” disse lei,
abbassando il braccio di corso e improvvisando una corsetta.
Ora che il costato sembrava
esserle guarito poteva anche provarci, ma non poteva di sicuro battere un
cavallo.
Lo guardò allontanarsi per la
piana velocemente e lei rimase lì, come una cretina, con il cappuccio della
mantella calato a metà della nuca e l’espressione più sconsolata che il suo
viso potesse esprimere.
Non c’era molto da fare a
quel punto, se non tornare indietro a recuperare i vestiti per poi tornare al
sicuro.
Si era attardata anche troppo
e il vento era cambiato, soffiandole contro.
Sarebbe stato stupido
rischiare di farsi fiutare.
Il taccuino era ormai
arrivato a segnare la metà delle pagine scritte, quando Nina prese il
coltellino per affilare la punta della matita di grafite. Non aveva ancora
finito di appuntare qualche impressione su quella giornata che poteva definirsi
fiacca e che quindi non avrebbe occupato poi tutto quello spazio. Aveva però
deciso di essere il più precisa possibile, perché laddove Ilse
non aveva avuto tempo, lei ne aveva sin troppo.
Magari, un giorno, qualcuno
avrebbe tratto importanti dati da eventi a detta sua inutili, poi non è che
avesse chissà quale impegno.
Poteva perderci ancora
qualche minuto.
Dopotutto erano sette giorni
che non faceva altro se non camminare in tondo in quel borgo e annotare dati
sensibili.
Prese un pezzo di pane
abbrustolito, l’ultimo per la precisione, ficcandolo dentro alla ciotola
contenente una misera quantità di farinata d’avena. Il solo pensiero che dal
giorno successivo avrebbe dovuto ingurgitare quello schifo senza nient’altro a
contornarlo le fece salire un brivido, ma la sopravvivenza veniva prima dei
gusti.
Forse poteva trovare un modo
sicuro per andare a caccia. In quei giorni aveva notato come un gigante potesse
arrivare a percepire la sua presenza semplicemente dall’odore, anche da
distanza considerevole. Aveva passato qualche ora su un tetto, nascosta dentro
a un comignolo, a causa di quell’imprevisto. Se avesse trovato il modo di
celare il suo odore, allora forse non l’avrebbero nemmeno riconosciuta in
quanto essere umano.
Era una teoria interessante
che meritava una possibilità per essere testata.
Era un mistero il modo in cui
i giganti percepissero ciò che andava divorato da ciò che invece non era di
loro ‘gusto’; per un essere istintivo come quello, era più probabile che a
influenzarne il giudizio fosse l’olfatto più che la vista.
Segno ogni singolo pensiero,
promettendo ad un lettore immaginario, che aveva il volto di suo fratello,
degli esperimenti in merito. Allungò la mano sul tavolo per cercare la scatola
stantia di fiammiferi rovinati dall’umidità di un sottoscala, ma essa si
strinse attorno a un pacchetto rettangolare ben più grande. Prese una delle
sigarette in esso contenuto e la portò alle labbra, spostando la ciotola ora
vuota e sporca di residui di avena.
La sigaretta dopo cena.
Stava pensando a Fritz troppo
spesso nell’ultimo periodo. Forse l’olezzo della morte la faceva diventare più
che mai paranoica e nostalgica, ma le dava una certa sensazione di pace il
sentire l’odore del tabacco attorno a sé. Dopo la morte dell’amico aveva smesso
con quella tradizione, che aveva tristemente perso di significato e la portava
a ricordare momenti che non sarebbero mai più tornati, ma aveva sempre portato
con sé un pacchetto di sigarette, ora disperse insieme al suo kit medico
primario, da qualche parte la fuori insieme ai corpi dei suoi compagni. Quello
era il risultato dei suoi tanti saccheggi, contenuto nelle tasche di un
pastrano lungo che aveva portato via e che sembrava perfetto per essere
utilizzato nel suo prossimo esperimento, che avrebbe per altro compreso della fanga puzzolente. Si alzò portando con sé la candela per
accendere il tubicino di tabacco, la quale poi venne appoggiata su una sedia,
mentre Nina prendeva posto sul materasso. Prese uno dei libri, convinta che
intanto non avrebbe cavato un ragno dal buco, ma magari c’erano altre immagini
con altre didascalie comprensibili e quindi valeva la pena provare.
Appoggiò per bene il capo sul
cuscino, inspirando il fumo piano e chiudendo gli occhi stanchi. Dormiva a
strappi, svegliandosi spesso all’improvviso con una brutta sensazione alla
bocca dello stomaco. Le illusioni che si era creata da sola nella sua mente
andavano dallo scalpitare degli zoccoli di cavalli immaginari a il crepitare
delle pareti che venivano sradicate da un gigante. Nel primo caso si ritrovava
delusa quando comprendeva che era solo un sogno e che ancora nessuno era
arrivato, mentre nel secondo dopo esser rimasta paralizzata nel letto, sentiva
un discreto sollievo.
Si sarebbero dovuti impegnare
parecchio per buttar giù quella casa, sembrava un tutt’uno con la pieve.
Prese un piccolo respiro,
lanciando uno sguardo alla candela e rimanendo un attimo incantata a fissarne
la fiammella che danzava.
Era in quegli attimi di
silenzio prima di dormire che la mancanza di Levi si faceva davvero sentire.
Così tanto da sentire le lacrime pizzicarle i lati degli occhi, ma non avrebbe
permesso a nessuna, nemmeno una, di scivolarle lungo la guancia. Le mancava
parlargli, guardarlo…
Cazzo, le
mancava anche litigarci e quando discutevano era un vero incubo. Per entrambi.
Lasciò il libro che teneva stretto
al petto sul materasso, portando entrambe le mani a stropicciarsi gli occhi,
mentre un mugolio basso nasceva dal fondo della sua gola, spargendosi
nell’aeree statico. Ogni giorno le sembrava sempre più futile il motivo
dell’ultimo litigio, così come la grande idea di lasciare la sua squadra per
unirsi ad un’altra. Ci aveva fatto la figura della ragazzina – di nuovo –e non
solo con lui, ma anche con Erwin.
“Questo non è decisamente il
mio mese” mormorò a mezza bocca, allungando le braccia dietro al capo e tenendo
la sigaretta fra le labbra, mentre pensava ancora a come doveva essere la
situazione attuale a Trost. Non riusciva davvero ad
immaginarsela. Chiuse un istante le palpebre, appoggiando il braccio sugli
occhi così da coprirli, immaginando il moro steso sul letto della caserma, con
lo sguardo fisso puntato sul soffitto, in una stanza buia e silenziosa.
Chissà se aveva piovuto anche
in città, quella sera. Chissà se l’aria odorava di acqua e fogliame con quella
della stanza in cui lei si ritrovava supina. La sola cosa di cui era certa, era
che anche lui stava facendosi quelle domande. Perché lo conosceva e nonostante
avesse dubitato un po’ nello sconforto dei primi giorni, la certezza che lui si
stesse struggendo nell’impossibilità di fare qualcosa s’era fatta forte.
Lo conosceva e bastava.
Basta.
Prese un bel respiro, sentendo
la cenere cadere di lato sul cuscino e abbassò il braccio, afferrando poi il libro con decisione. Doveva tenere la
mente impegnata, quei pensieri non le facevano bene.
Si sarebbe persa a pensarlo e
si sarebbe addormentata con il cuore pesante. Il giorno dopo aveva dei progetti, non poteva
permettersi di essere assonnata o debole.
Fece per aprire il volume, ma
non ci riuscì.
Aveva due dorsi e nessun
punto in cui poterlo aprire.
Presa in contropiede, Nina
fissò l’oggetto che a quel punto non poteva più dirsi un libro e si mise
lentamente seduta, spegnendo il mozzicone sulle mattonelle della pavimentazione. Che scherzo era quello? Se lo passò
fra le mani, battendoci il pugno sopra e costatando che dentro pareva cavo, per
poi decidersi a tentare un esperimento. Sicuramente doveva contenere qualcosa e
non si sa chi si doveva essere
parecchio ingegnato per celarvi allo sguardo qualsivoglia segreto all’interno. Prese
il coltello dal fodero nascosto nello stivale che giaceva a terra e incise una
delle due parti, facendo attenzione a non rompere niente. Quando riuscì a
tagliare dalla base alla cima vi scrutò dentro.
Rimosse integralmente uno dei
due dorsi e nella sua mano cadde un libro più piccolo, ma dalla copertina
intatta e preziosa.
Il titolo e il nome
dell’autore erano scritti in lingua comune con raffinate lettere stampate in
dorato e lei finalmente si ritrovò a leggere qualcosa che poteva capire senza
dover ricorrere a bislacchi tentativi di trasposizione.
“Daniele Vita…
Vitalevi” lesse lentamente, trovando il suono di quel
nome buffo alle orecchie. Non aveva mai sentito niente del genere “Saggio sulla
lingua Tedesca e la nascita della fonetica
della Comune, dalle origini alla fine del Secondo Orizzonte Libero.”
…. Oh.
“Cosa cavolo-tedesca?” Nina
alzò sopracciglio, domandandosi dove fosse la Tedeschia e se magari fosse una zona interna alle mura con un dialetto
proprio, se esistesse o se fosse un modo per chiamare la lingua di un luogo
così come loro avevano sempre chiamato la loro ‘comune’. Ma poi…
Secondo Orizzonte Libero? Libero da cosa?
Dai giganti. Libero dai
giganti?
Le mani le tremarono mentre
arrivava a comprendere che cosa poteva rappresentare quel testo per il mondo.
Tra le mani aveva forse qualcosa di assolutamente inestimabile. Sentì la
salivazione azzerarsi consapevole che quello che c’era scritto fra quelle
pagine, forse, avrebbe svelato qualcosa sui giganti e sulla loro origine.
Forse sul mondo prima della
loro venuta.
Forse avrebbe addirittura
cambiato la sua vita per sempre.
Non era pronta per una cosa
del genere, per il suo mondo che veniva sconvolto, ma prima ancora di
accorgersene, stava già leggendo la seconda di copertina. Era una dedica.
‘Ben poche sono le cose a questo mondo senza le quali
non possiamo vivere: l’ossigeno, l’acqua, il nutrimento e l’amore. Al mio unico
e vero dedico questo mio modesto componimento, nella speranza che l’apprezzi.
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse
requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.’
“Carme 85 dal Liber di Gaio…” Quei nomi erano
davvero complessi da pronunciare “Gaio Vale…Valerio?
Catullo? Va bene questo è davvero assurdo.”
C’era da dire che quelle
parole suonavano in modo molto simile ai nomi delle piante che aveva
blandamente tradotto dal libro dell’erborista. La buona notizia era che c’era
la traduzione sotto.
“Odio e amo” iniziò la
giovane con tono incerto, incrociando le gambe incurvandosi in avanti così da
permettere alla luce della candela di bagnare la pagina e mettere in risalto le
parole “Forse ti chiederai per quale motivo io lo faccia? Non lo so, ma sento
che accade e mi tormento.”
Doveva essere stata una
storia d’amore molto tormentata quella dell’autore e questa D.A,
le cui iniziali erano state scribacchiate a mano in basso alla copertina
insieme a un’ulteriore dedica, stavolta personale.
Voltò nuovamente pagina e di
nuovo, di lato a destra, c’erano segnate solo una manciata di righe.
‘Inoltre, vorrei ringraziare anche i miei buoni amici
Theresa e Harold che mi sono stati vicini durante le fasi di elaborazione di
questa nuova lingua. Il lavoro è stato complesso e a tratti quasi impossibile,
ma l’essere circondato da così brillanti menti mi ha stimolato ad andare
avanti.’
Nina si rese conto che ciò
che stava leggendo era forse il primo manuale scritto in lingua Comune e che
Daniele Vitalevi aveva appena detto di esserne lui il
creatore. Nina non era una linguista, non ne sapeva molto di lettere e di studi
filologici, ma era abbastanza sicura che una persona non potesse svegliarsi una
mattina e, semplicemente, creare una lingua.
Parlata in un territorio così
ampio, poi.
Doveva leggere tutto il
manuale prima di poterne essere sicura.
Chiunque l’avesse custodito
così segretamente era a conoscenza che non doveva essere trovato dalla
Gendarmeria. Chissà quante cose avrebbe scoperto anche solo su degli studi linguistici.
Forse quell’esilio oltre le
mura del Muro Rose non era altro che un segno della sorte.
Forse era destinata a
ritrovarsi lì, raccolta in quell’istante.
Si apprestò a voltare pagina,
leccando dell’indice per far presa sulla carta lucida, ritrovandosi a fissare
qualcosa che non si aspettava ma che, in fin dei conti, le aveva appena
spalancato le porte del mondo.
Un sillabario dal tedesco
alla lingua comune e, nella pagina accanto, un titolo pragmatico.
L’inizio delle guerre Germanico-Iberiche,
la creazione degli stati liberi Franchi e l’adesione all’Impero Tedesco dei
territori dell’Antico Ducato d’Italia.
Be careful making wishes in the dark
Can't be sure when they've hit their mark
And besides in the meantime I'm just dreaming of tearing you apart
I'm in the details with the devil
Anno 844
Il ghetto nella Città
Sotterranea e l’arrivo dell’inverno nella Capitale.
La prima volta che Nina era
scesa nel ghetto, si era chiesta come fosse possibile per il Re dormire serenamente
la notte, consapevole che non occorreva morire per arrivare all’Inferno; bastava
scendere una ripida scalinata verso un abisso senza colore.
Aveva solo successivamente
compreso quanto ingenuo fosse quel pensiero. Cosa poteva mai importare al Re
degli esuli della Città Sotterranea, che si ergeva instabile su fondamenta di
lerciume e malattia?
L’aria era irrespirabile, in
alcune zone. In altre sembrava andare un po’ meglio, ma l’assenza di luce era
opprimente in ogni angolo.
In quel luogo i bambini
nascevano, crescevano e morivano troppo presto, senza avere mai la possibilità
di sentire il calore del sole sulle guance o la pioggia battente a bagnare i loro
capelli.
Levi l’aveva portata un po’
in giro, fra le stradine che si snodavano in un dedalo di viuzze sconnesse
simili a un labirinto, lanciandole dritte di ogni tipo su come campare in un posto
del genere; in particolare continuava ad addestrarla alla lotta corpo a corpo.
Non le aveva risparmiato nulla,
nemmeno quelle otto serie da venti addominali la sera precedente – che facevano
ancora gridare i suoi muscoli resi deboli dalla convalescenza a letto di
qualche settimana prima- però non sembrava voler calcare troppo la mano.
Non la voleva mettere in
pericolo. Forse.
“Ricordi come arrivare alla
piazza del pozzo?” le chiese Levi stufo, frugando nella saccoccia di cuoio di
Nina per prendere qualcosa dal fondo. Se n’era rimasto sempre alle sue spalle,
fin dal primo minuto in quel posto impresso in modo indelebile nella sua
memoria, attendendo che lo seguisse affrettando il passo. Non era saggio
indugiare troppo in quella zona che, anche quando là sotto lui ci viveva, non
era mai stata parte del suo territorio di controllo. Peccato che lei non
paresse aver compreso l’impellenza di camminare con una certa premura.
La giovane, che s’era chinata
su un pover’uomo semi incosciente, steso sulla pavimentazione fredda, l’aveva a
mala pena sentito “Quella vicina al luogo in cui ci siamo fermati l’ultima
volta?” aveva di fatto domandato mentre armeggiava con la sacchetta che piccola
che le pendeva dal fianco, contenente tutto il necessario per il primo
soccorso. Per natura, un medico non può passare per quelle strade senza
fermarsi e Nina non faceva eccezione. Non avrebbe negato un aiuto a chiunque ne
avesse necessitato, anche a costo di fare cinque passi all’ora.
Levi non sembrava dalla stessa
opinione però. “Esatto.” rispose sbrigativo, sempre frugando con foga.
La dottoressa ci pensò su, usando la sola mano libera per
allentare le bende che si snodavano lungo l’arto del vagabondo per controllare
lo stato della gamba. Un tanfo di marcio le fece intendere che, a pensar male
si pensa sempre bene, soprattutto in un luogo del genere. Si passò il dorso
della mano sotto al naso due o tre volte, cercando di discernere gli odori
cattivi della città da quelli della carne malata.
“Almeno mi pare” aggiunse
infine, senza guardare il compagno che l’accompagnava “Sempre a nord, o
sbaglio?”
Aveva in mente quel posto,
però non era poi così certa di poterci arrivare. Quella era solo la seconda
volta che aveva la fortuna di camminare per quelle strade virtualmente
inaccessibili alle persone della superficie. Ora capiva anche il motivo per cui
nessuno scendeva mai la sotto di sua iniziativa e perché i gendarmi facessero
così tante storie quando venivano stanziati nel ghetto; la situazione era tragica
oltre ogni logica.
Levi fece un passo indietro,
guardandosi attorno prima di parlare nuovamente, lapidario “Brava. Ci vediamo
là.”
Lanciò ai piedi della bionda
un coltello, prima di prendere la sacca e sparire nel nulla. Nina alzò gli
occhi stupefatta dal paziente per cercarlo, ma nemmeno una manciata di secondi
dopo quell’assurda provocazione di lui
non vi era più traccia.
“Mi prende in giro” disse a
se stessa, finendo di assicurare i bendaggi e alzandosi in piedi col coltello
in mano. Prese quindi a guardandosi attorno, un po’ tentennante “Sicuramente
ora uscirà dicendomi che è uno scherzo di pessimo gusto” proseguì ancora,
mentre gli occhi saettavano su ogni punto cieco e angolo di strada che la circondavano.
C’erano delle persone, un
gruppetto di bambini dall’aria poco raccomandabile nonostante l’età e qualche
altro corpo steso a terra con magari un alito di vita in corpo. Ma di Levi,
però, non era rimasto nemmeno il profumo.
“Lo odio così tanto.”
Stava girando in tondo.
Ormai si era arresa a quella
scomoda verità, soprattutto dopo aver visto per la quarta volta la stessa
precaria tenda verde marcio usata a mo’ di porta, in una vecchia catapecchia
dall’aria instabile.
Perdersi non era in
programma, in particolare in un luogo così pericoloso, ma lei non si lasciò
prendere dallo sconforto; non sarebbe stato sedendosi in un angolino che
avrebbe ritrovato la via. Di chiedere in giro non vi era la possibilità. Anche se
avesse incontrato qualcuno di bene intenzionato – c’erano anche persone normali
là sotto, grazie al Cielo- non ne si sarebbe sentita compiaciuta nel trovare un
riscontro da qualcun altro. Sapeva che poteva farcela da sola a trovare quella
piazza, era lì da qualche parte e se solo avesse avuto l’attrezzatura, salendo
su uno dei tetti, l’avrebbe senza dubbio raggiunta in un battito di ciglia.
Sistemò una ciocca di capelli
sfuggita al concio senza abbassare il cappuccio del mantello nero, prima di
tornare sui suoi passi, decidendo di voltare a destra ad un bivio. Camminò a
capo diritto, lasciando che il cappuccio potesse celarle il viso ma non lo
sguardo determinato, riconoscendo una bottega che aveva notato con Levi quasi
una settimana prima. Girò attorno al modesto stabile, scendendo una scalinata
composta da lunghi gradini bassi e scomodi, arrivando alla fine a destinazione
dopo aver girato un angolo cieco.
Di fronte a lei si ergeva una
piccola corte con case a più piani, disposte a ferro di cavallo che attorniavano
un pozzo. Le facciate, che sembravano essere state costruite con un disegno
geometrico rettangolare preciso, si alternavano da un piano all’altro in un
armonioso gioco, e anche i tetti rossi sembravano quasi essere fuori posto.
Un luogo così bello, seppur
così in rovina, nella Città Sotterranea.
Nina si guardò attorno,
notando le scalinate che conducevano alle case sopraelevate e spiando un po’
tutto attorno. Levi non sembrava esserci, ma quello era senza ombra di dubbio
il posto giusto. Si appoggiò con i fianchi al polso, tirando le braccia sotto
alla mantella nera per incrociarle sul petto. Rimase ferma, in attesa,
osservando attorno a sé il silenzio e il buio di quel luogo.
Alzando gli occhi verso l’alto
non vide niente, se non le rientranze degli speroni rocciosi e della cupola di
terra. Che vi fosse il sole o la luna, non faceva differenza; si sentiva come
cullata da una notte perenne, il cui silenzio feriva le orecchie, mentre gli
occhi si facevano pesanti.
Soffocò uno sbadiglio,
rizzandosi con le spalle quando avvertì dei rumori. Delle risa, per lo più,
seguite da imprecazioni colorite e voci concitate.
Nel giro di pochi minuti, man
mano che il tono cresceva, Nina poteva benissimo comprendere che non sarebbe
rimasta sola ancora a lungo. Sfilò il coltello dalla cintola, stringendolo bene
l’impugnatura con le dita sottili, ma per il resto non si mosse di un
centimetro. Non voleva dare nell’occhio.
Sei uomini entrarono nella
corte, sicuramente ebbri di vino. Non parvero notarla all’inizio, tanto che un
paio di loro si erano già apprestati a salire le scalinate di quello che, a
giudicare dai tendaggi rossi e dalle voci che provenivano dalle finestre
aperte, doveva essere un bordello. Fu un ometto basso, più di Levi
probabilmente, che la vide. Si fermò, assottigliando lo sguardo come per
metterla bene a fuoco, prima di tirare una gomitata al suo degno compare, un
uomo ben piazzato e col viso schiacciato coperto di cicatrici.
“Guarda, Chuck.
Abbiamo ospiti.”
Bene. Molto bene.
Il tono ostile non era stato
minimamente celato, tanto che il resto della compagnia aveva arrestato la
marcia verso il luogo del piacere per potersi voltare nella sua direzione. Mentre
la schernivano, chiamandola ‘ragazzo’ e domandandole perché si trovasse lì,
Nina si fece un appunto mentale. Sei uomini ubriachi non dovevano essere poi
così difficili da buttar giù. Levi sosteneva che il suo addestramento era
ancora alla fase iniziale, ma Nina l’aveva sentito il cambiamento. Si sentiva
più in forze, sapeva che tutte quelle corse e quei pugni dati all’aria dovevano
essere serviti a qualcosa.
Guardò l’ometto avvicinarsi
baldanzoso, sicura che presto l’avrebbe verificato. “Allora, ragazzo? Non conosci
le buone maniere?” le disse ancora, facendo ridacchiare come ebeti un paio dei
suoi amici, mentre quello che apriva il gruppo e che forse ne era il capo la
guardava con annoiato disinteresse “Sei molto lontano da casa, ragazzo. Dobbiamo
insegnarti un po’ di educazione?”
Nina staccò i fianchi dal
pozzo, portando le mani al cappuccio per calarlo. La reazione dei suoi
avversari non tardò ad arrivare, in particolare di colui che la stava
provocando. Egli infatti non mascherò per niente l’ilarità “Ma cosa abbiamo
qui? Che bel visetto! Scommetto che
costi cara.”
“Ti sembro una che lavora nel
bordello?” chiese lei con tono leggerlo, alzando un sopracciglio leggermente
divertita “Dispiaciuta di deludere tale aspettativa. Va detto, però, che sino a
che è la bellezza della donna a piazzare il prezzo a uno come te va bene. Se
dipendesse dalla bruttezza dell’uomo, anche la più brutta delle puttane sarebbe
comunque troppo cara per te.”
Più di una risata si levò
nell’aria densa, mentre l’ometto stringeva i denti, non più divertito ma ora
offeso nell’orgoglio “Troia” mugolò, prendendo un coltellaccio dalla cintola e
puntandoglielo contro “Adesso ti taglio quella lingua.”
Lei lo lasciò avvicinare. Non attaccare mai per prima, studia il nemico, le aveva detto Levi. Devi sempre guardarli negli occhi, quei
maiali.
A
dispetto di ogni aspettativa, quella tattica parve funzionare. Una stilla
gelida percorse le iridi eterocrome della giovane e l’uomo parve indugiare,
come colto da un’improvvisa indecisione.
“Cosa
di prende Piex? Hai paura di una ragazzina?” lo
spronò quel suo amico, battendosi una mano sulla coscia. “Codardo!”
Nina
lo aspettò, perché sapeva che un uomo con l’orgoglio virile ferito avrebbe
compiuto qualche passo in fallo. Infatti, non appena lui le si buttò contro,
lei non perse nemmeno un attimo. Ruotò i fianchi per schivare il coltello e,
alzando una gamba, colpì l’ometto con una ginocchiata in pieno viso, sporto in
avanti nel momento in cui lui si era stupidamente sbilanciato. Cadde, perdendo
l’arma e conducendo una mano al naso che ora perdeva sangue. Nina lo scavalcò,
andando verso gli uomini “Signori” disse con tatto alzando una mano, quella
libera dal suo coltello, oltre il bordo della mantella nera lunga “Non c’è
motivo per finire tutti con la faccia nella terra” proseguì sicura, guardandoli
uno ad uno “Sono certa che questa incresciosa situazione si possa risolvere con-”
Non
riuscì a finire perché fu il turno dell’uomo piazzato di lanciarsi su di lei,
forse per vendicare l’onta subita dall’amico. Anche lui finì a gambe all’aria
per lo stesso errore. Si era sbilanciato così tanto che Nina non aveva nemmeno
avuto bisogno di alzare una gamba: con una gomitata fra capo e collo l’aveva spedito a farsi un pisolino. Poi
la attaccarono in coppia e lei – che nemmeno sapeva come aveva fatto, riuscì a
evitare anche le loro armi, spazzando via i loro piedi dopo essersi appoggiata
con una mano a terra. Un calcio in viso a testa li aveva resi inoffensivi. Il quinto
uomo non parve volersi muovere dalla sua posizione ritta accanto al capo, il
quale invece scese i gradini fronteggiandola. Nelle iridi praticamente nere
dell’uomo Nina lesse qualcosa. Non sarebbe stato semplice come gli altri. Per questo
fece uscire la mano da sotto la stoffa nera, mostrando la lama lucida.
Non
aveva ancora avuto l’occasione di provare a usare un’arma da taglio, mentre
invece le mani le aveva già menate un paio di volte.
Levi
però le aveva spiegato bene come muoversi anche in quella circostanza e l’aveva
fatto la prima volta che l’aveva portata nel ghetto.
La lama è un
prolungamento del tuo braccio, aveva spiegato con pazienza, mostrandole come
impugnarla in modo che il filo da taglio rimanesse esterno al suo corpo, con la
punta rivolta verso la giovane che l’aveva quindi impugnato a rovescio. Ricorda che se decidi di attaccare per prima
per necessità, non devi guardare il tuo coltello, ma quello del tuo avversario.
Il tuo devi sentirlo parte di te, come se invece di un oggetto, tu fossi in
procinto di attaccare con le unghie. Pensa sempre molto bene prima di farlo,
però. Portare via la vita di un uomo non è come farlo con un gigante; starà poi
a te dormirci la notte.
Nina
non voleva uccidere proprio nessuno, se mai difendersi.
Attese
quindi di vedere mostrate le intenzioni del capo, ma a rovinare tutto ci pensò
quell’insulto ometto. Nina si sentì incredibilmente stupida quando la afferrò
per le spalle, puntandole il coltellaccio alla gola. Si era già ritrovata in
quella situazione e non le era piaciuto la prima volta. La seconda non fu
comunque da meno.
“Lascia
il coltello. Ora!”
Non
se lo fece ripetere, aprendo le dita e lasciando cadere l’arma sul terreno.
Capiterà ancora che tu
venga minacciata. Il segreto è mantenere la calma, non mostrare la tua
debolezza. Aspetta l’occasione giusta.
Il
fiato corto le si stabilizzò, così come il viso. Stese le labbra in un piccolo
sorriso, prima di parlare “Attaccare
alle spalle è proprio da codardi” iniziò con tono soffice, inclinando di lato
il collo e cercando di capire come uscirne “Non che mi aspetti altro da uno
come te.”
“Stai zitta!” le strillò Piex nelle orecchie, graffiandole la pelle delicata del
collo con la punta del coltello. Nina deglutì, ma si mantenne fredda, cercando
di capire quando sarebbe stato davvero il momento giusto. “Ti aprirò la gola da
un orecchio all’altro e così imparerai a portare rispetto.”
“Deve esserci poca gente a
rispettarti se è questo il metodo.”
“Cosa hai detto!?”
Ora. Nina portò una mano sul
suo stesso collo per difenderlo, mentre con l’altra assestava all’uomo un bel
cazzotto in mezzo agli occhi. Un altro che s’era alzato la afferrò le la
camicia strappandola sul fianco nel tentativo di tenerla a sé, ma Nina l’aveva
già colpito con un calcio in pieno viso.
Seppur circondata dagli altri
quattro, era libera. Ruotò su se stessa per guardarlo, mentre estraevano le
armi e commentavano volgari il modo in cui si sarebbero divertiti con lei prima
di ucciderla.
Quattro erano un po’ troppi,
ecco. Uno alla volta poteva provare a gestirlo, soprattutto se così
incompetente, ma quattro…
La sicurezza le venne meno,
ma la vera sciocchezza fu scordarsi che non era sola.
“Oi,
stronzi.” La voce di Levi li investì con la sua pacatezza, ma mentre Nina lo
guardava rassicurata, gli uomini sbiancarono. Anche il capo del branco, che
fino a quel momento s’era dimostrato altero e fiero, vacillò. “Pensate di
levare le tende o devo spaccarvi la testa uno ad uno?”
Piex alzò il capo da terra, sgranando gli occhi fin quasi
a rischiare di perderli. Poi, lentamente, alzò un braccio e puntò l’indice
verso Levi, che lo fissava freddo come il ghiaccio “Il Demone” sussurrò con
tono tremolante, “Il Demone è tornato!” gridò infine, mentre i suoi amici si
sbrigavano a correre via. Venne aiutato da Chuck e
insieme a lui sparì sotto all’arcata di accesso alla corte, più veloci del
pronunciare la parola ‘codardi’.
“Per davvero? Demone?”
Nina raccolse il coltello, andandogli incontro, e sistemandolo nella cinta “Hai
una bella reputazione, devo ammettere.”
“Era un po’ che nessuno mi
chiamava così” rispose lui, apparentemente senza emozioni particolari in merito,
scostandole il mantello da davanti per
guardare che non fosse ferita. Passò anche le dita sulla pelle esposta
del fianco, laddove si era strappata la camicia, facendola rabbrividire “Sei
stata imbarazzante.”
La bionda tornò in sé,
cercando di dimenticare quella carezza “Perdonami?” chiese con tono perplesso “Sono
stata bravissima” si disse infine da sola, sistemandosi di nuovo il cappuccio e
seguendolo “Non hai visto come li ho atterrati?”
“Hai permesso a quel patetico
scherzo della natura di afferrarti alle spalle. Mi aspetto molto di più da te.”
Nina si morse la lingua,
consapevole che Levi aveva ragione. Appoggiò una mano sul fianco, chinandosi
alla sua altezza per spiarlo “Ammetterai però che sono migliorata” gli disse
cauta, giusto per non calcare la mano “Una cosa del genere non me la sarei mai
sognata fino a qualche mese fa.”
“Non ho intenzione di
gratificarti fino a che non farai tutto come si deve” le spense l’entusiasmo
Levi, prima però di sospirare “E comunque” proseguì quindi “Anche un idiota
sarebbe migliorato arrivati a questo punto.”
Lei gli sorrise, tornando a
mettersi diritta. Scelse di smettere di insistere “Cosa facciamo, ora?”
L’uomo si guardò attorno,
come indeciso. Lei lo percepì, infatti parlò di nuovo “Questo posto è speciale?
Mi ci hai portata anche l’altra volta.”
Lui parve un po’ riottoso all’inizio,
ma poi con un cenno del mento indicò una delle case “Ho vissuto qui tutta la
mia vita” le fece sapere, stupendola con dei dettagli sul suo passato. Solitamente
lui non raccontava niente “Era la casa di mia madre, poi mia e di Farlan.”
Lei guardò quella porta intensamente,
come se cercasse la risposta alle mille domande che giravano attorno alla
figura misteriosa di Levi “Deve essere stata dura” disse infine, “Crescere in
un luogo del genere, pieno di farabutti e puttane.”
Per un istante, Nina notò un’ombra
attraversare il volto dell’uomo “Sei così superficiale” le disse tagliente, facendole
incassare il capo fra le spalle per il tono che aveva usato “Per voi della
superficie è facile: vedete questo posto e pensate di conoscerne gli abitanti. Ti
rivelerò un segreto, Nina, quindi
ascolta molto bene perché potresti anche imparare qualcosa” fece un passo verso
di lei, fronteggiandola nonostante i quindici centimetri che la elevavano
rispetto a lui. Nonostante ciò, Nina si sentiva microscopica sotto quello
sguardo freddo “Qui sotto sarà tutta merda e puttane, come dici tu, ma almeno
lo puoi vedere. Hai tutto sotto al naso e sai cosa ti aspetta. Lassù, invece, i
ladri e le troie vanno in giro vestiti di tutto punto, acclamati e amati, mentre
il popolo muore di fame, di pestilenza e di stenti. Preferisco mille volte un
mondo sincero ma che puzza di fogna, di uno che è imbellettato ma marcio fino
alle fondamenta.” Non staccò gli occhi dal viso lentigginoso della giovane per
tutta la sfuriata soffiata a un palmo dal naso, prima di socchiudere ancor di
più gli occhi, girandole attorno “Andiamo adesso, inizia a farsi tardi e
dobbiamo arrivare per cena.”
Lei non gli permise di
allontanarsi. Lo trattenne per un polso, abbassando il capo e lasciando che il
cappuccio le nascondesse il viso pentito.
“Perdonami” sussurrò con tono
piccolo, come una bambina. Lui non si mosse dal suo fianco “Sono stata una
stupida, non intendevo offenderti, ma so di averlo fatto. Non so niente di
questo posto, quindi scusami.”
Levi chiuse un attimo gli
occhi.
Le abbassò il cappuccio,
accarezzandole i capelli sul capo “Sei una cretina” disse spicciolo, mentre lei
lo guardava con i grandi occhi scintillanti piegati dal pentimento “Ora
smettila e andiamo.”
Dannata ragazzina.
Ad aspettarli in cima alla
quarta scala che conduceva fuori dal ghetto non c’era il sole al tramonto, ma
una pioggia battente.
Arrivarono a casa bagnati
fradici, tanto che Jara ironizzò chiedendo se avevano
deciso di farsi una nuotata nel pomeriggio. Erano stati spinti quasi a forza
nella toletta dalla ragazza corpulenta, che aveva piazzato nelle loro mani
tutto l’occorrente per asciugarsi mentre preparava un bagno caldo.
Levi era stato così galante
da far andare Nina per prima, soprattutto in virtù del fatto che aveva già
preso a starnutire.
Lui sconfisse il freddo di
metà ottobre sedendosi sul bordo del camino del soggiorno, avvolto in una
coperta spessa di lana, in attesa del suo turno.
Alla fine, Nina ci aveva
messo così tanto che si erano ritrovati a dover cenare prima ancora di
permettere al soldato di lavarsi. Lei si era scusata, mentre Franz continuava a
ripetere che non cambiava proprio mai. Quella parentesi però permise a Jara di cambiare l’acqua, sostituendola con dell’altra più
calda.
Quando aveva potuto trovare
ristoro nell’acqua calda e profumata di sapone, Levi era rinato. Si era
concesso qualche minuto in silenzio, con la nuca appoggiata sul bordo di
ceramica della vasca dai piedi leonini e gli occhi chiusi. Aveva ascoltato la
voce della figlia del dottore chiamare il fratello, la risposta seccata di
Fritz e i passi frettolosi per la stanza. Così come anche Levi, pure il ragazzo
era di partenza. Sarebbero usciti la mattina successiva insieme alla volta del
nord. Mentre Levi aveva da assolvere qualche incombenza per conto di Erwin e
del Comandante nei distretti del Muro Rose e del Muro Maria, Fritz aveva
trovato la sua collocazione definitiva nel distretto di Nedlay.
Inutile dire che lui si era
ritrovato sconfortato alla notizia, mentre Nina aveva scritto furiosa a Erwin,
che doveva essersi scordato di raccomandarlo. Levi, d’altro canto, non sapeva perché
si sentiva quasi sollevato all’idea di non averlo attorno a sé a Trost. Rifiutandosi di credere che fosse geloso, aveva
attribuito quel sentimento al fatto che Fritz, per quanto così accomodante, non
gli piaceva un gran che. Non sembrava figlio di suo padre, alle volte lo
trovava insulso, così succube.
Era definitivamente geloso, anche
se piuttosto che dimostrarlo, si sarebbe annegato da solo in quello stesso
momento.
Attese fino a che l’acqua si
fu fatta anche troppo fredda, prima di avvolgersi in un asciugamano, uscendo
dalla toletta per dirigersi nella mansarda in cui dormiva, ma solo dopo aver
sfiatato la vasca che riversò l’acqua lentamente in una canaletta di scolo che
portava all’esterno.
Quando arrivò nella sua
stanza, dopo aver salito almeno una ventina di ripidi gradini, non la trovò
vuota. Con il naso ficcato in un libro spesso come la sua testa, c’era Nina. Se
ne stava stesa sul letto, a pancia sotto, con il tono enorme appoggiato a un
cuscino. Gli lanciò una veloce occhiata quando lo vide entrare, ma non disse
nulla, limitandosi a inumidirsi il pollice con la lingua per poi appoggiarlo
sull’angolo della pagina.
“Che ci fai qui?” domandò
lui.
Nina voltò pagina “Sono in
fermento per la partenza di Fritz, di sotto” rispose, interrompendosi a causa
di uno sbadiglio “Ho bisogno di silenzio per studiare e dove posso trovarne se
non qui?”
La studiò, lasciando
scivolare lo sguardo lungo il suo profilo, fino alle spalle coperte da una
pesante sciarpa verde e al vestito da casa grigio che la copriva fino alle
caviglie, cadendole addosso senza una forma precisa. Poteva nuotarci dentro a
quell’ammasso di stoffa.
Nina gli faceva un po’ pena,
con gli occhi a mezz’asta per la stanchezza che pretendevano di rimanere
concentrati. Era distrutta. “Dovresti dormire” le disse, notando che fra le
dita reggeva un rametto di lavanda secca che, di tanto in tanto, accostava al
naso.
“Non posso” fu la risposta
della ragazza “Se non finisco almeno questa parte entro dopodomani, non andrà molto
bene all’esame di chirurgia.”
Il moro non replicò oltre. Si
sfilò l’asciugamano da attorno alla vita, appoggiandolo contro la testiera del
letto per farlo asciugare. Nonostante la totale nudità non parve essere a
disagio, così come Nina non si fece poi molti scrupoli a guardarlo. Quando i
loro occhi però si incontrarono, entrambi ripresero a fare ciò che dovevano. Lei
girò nuovamente la pagina, vagamente soddisfatta, mentre lui iniziava a vestirsi
con i capi comodi che usava per dormire. Si sedette sul letto, sfregandosi bene
i capelli e solo allora, mentre teneva le braccia sollevate al capo, Nina notò
qualcosa.
“Perché hai un braccio
bendato?” Lui parve irrigidirsi appena e subito si sbrigò ad abbassare la
manica della maglia nera. Lei però fu più veloce e dopo essersi messa seduta,
lo prese per il polso “Ti sei ferito oggi?” chiese stranita, tirandolo verso di
sé così che potesse voltarsi verso di lei.
Levi non strappò via il
braccio dalla sua presa, però le prese a sua volta il polso, per far sì che lei
lo lasciasse “No” rispose senza particolare interesse, permettendole di
stringergli piano la mano quando le abbassarono sul materasso “Questo è una
sorta di…. Non saprei come definirlo. Diciamo che è
una cosa di famiglia.”
Nina piegò di lato il capo. “Come
un marchio?” domandò e lui annuì lieve. “Deve essere una cosa segreta se lo
tieni coperto con una benda.”
“Lo è.”
“Quindi non posso vederlo?”
“No.”
Nina gli lasciò la mano,
tornando a buttarsi stesa sul letto, incassandosi fra i tanti cuscini che Jara aveva lì posizionato quando aveva preparato la stanza
al loro ospite. Lui lo sapeva benissimo quando la biondina poteva essere
curiosa e nonostante ciò non si curava minimamente della cosa. Forse ci godeva
addirittura nel darle informazioni scarne a mezza bocca circa il suo passato.
“Mi chiedo se un giorno potrò
dirti di conoscerti, Levi e basta.”
Lui parve quasi divertito
dall’affermazione, poiché un lato delle sue labbra si incurvò appena verso l’alto
“Cosa c’è che vorresti sapere?”
Recuperò il libro, Nina,
prima di mettersi a pensare a una domanda diretta che non gli desse motivo per
svicolare il discorso come era solito fare.
C’era così tanto che voleva
sapere, a partire dal suo cognome o da che fine avesse atto la sua famiglia.
“Perché ti sei proposto
volontario per andare a Briemer?” chiese infine,
postando tre cuscini dietro alla schiena per starsene sollevata.
Intanto, il moro aveva preso
a sistemare una sacca per il viaggio. Infilò al suo interno qualche vestito e
dei grossi calzettoni di lana che avevano comprato un paio di giorni prima al
mercato. A Briemer a fine ottobre faceva già più
freddo che a Trost in pieno inverno.
“Perché Erwin mi ha detto che
questo tipo di ordini diretti vanno portati in fretta” fu la risposta tattica
dell’uomo.
Nina lo guardò con un
sopracciglio alzato, “Come no” rispose sardonica, aprendo il libro e guardando
il disegno della sezione anatomica di un polmone, prima di proseguire “Nessuno
va a Briemer per fare un favore a qualcun altro. Nemmeno
tu. Quel posto dicono sia virtualmente impossibile da raggiungere, soprattutto in
inverno. Mi stai davvero dicendo che preferisci rischiare di rimanere bloccato
la per mesi solo perché vuoi portare le rassegnazioni di Shadis
al Capitano Schimdt?”
“Non credi che lo farei?”
“Non lo faresti mai, Levi.”
L’uomo le lanciò un’occhiataccia,
chiudendo la sacca e appoggiandola a terra. Girò quindi attorno al letto,
iniziando a sistemare con precisione le cinghie dell’attrezzatura sul baule ai
piedi del materasso, “Sei fastidiosa come una talpa che prova a spiantare una
rapa.”
Nina rise, sedendosi con le
gambe incrociate mentre lo guardava impegnato in quel lavoro certosino.
“Mai pensato di scrivere
poesie?” lui non si degnò di replicare quell’ennesima provocazione, così lei si
sporse in avanti, appoggiandosi con i gomiti proprio laddove il materasso
terminava. Gli sorrise un po’ civettuola “Ti prego” pigolò “Dimmi perché sei
così interessato a Briemer. Lo so che hai fatto delle
domande al dottor Meier su quel posto. L’abbiamo capito tutti che hai interessi là.”
Messo con le spalle al muro e
certo che non se la sarebbe cavata semplicemente mandandola al diavolo, Levi
appoggiò le mani sulle gambe. Rimase inginocchiato accanto al baule, mentre con
il tono più acido che riusciva ad avere sputava una sola frase.
“Sto cercando una donna e un
bambino.”
Forse fu il modo vagamente
allusivo o forse solo lo sguardo che le riservò, ma Nina perse del tutto il
sorriso e anche un po’ di colore sulle guance. Levi non seppe dire se l’ombra
che le passò nello sguardo fosse solo un po’ di rabbia, ma non disse altro. Tornò
a sedersi contro i cuscini e riaprì il libro, immergendosi nella lettura.
L’aveva combinata grossa.
Con un sospiro rumoroso che parve
più un ringhio, Levi si alzò in piedi e andò verso la piccola scrivania
incastonata sotto al lucernaio della mansarda. Almeno aveva smesso di fare
domande.
Prese posto sulla sedia e
prese a visionare la documentazione che Erwin aveva spedito qualche giorno
prima da Trost. Un po’ di roba andava lasciata a Nedlay, ma il grosso – comprese una sorta di norme
comportamentali strane che Levi non indagò oltre- doveva arrivare direttamente
al distretto più a Nord delle Mura Maria. Lesse sbrigativo qualche passo, per
lo più c’erano le rassegnazioni alle squadra e l’approvazione o meno di
richieste. Levi era rimasto un po’ sorpreso quando erano arrivate anche le
loro, di rassegnazioni. Erwin lo aveva preteso nella sua squadra, la centrale
di comando dell’avanguardia. Nina invece era finita nelle retrovie, nella
squadra di Hanji, visto che il Caposquadra Ness avrebbe preso come di ruotine le reclute dell’anno,
alternandosi a Thoma.
Erano ai lati opposti della
formazione, il che era strano visto che sembrava che il Capitano Smith avrebbe
chiesto di avere la sorella con sé, una volta slegata dal primo gruppo di
difesa carri. Invece era finita con un paio di amici nella squadra dei ‘matti’
della Zoë.
Forse perché era il gruppo
che maggiormente si avvicinava ad una unità medica e scientifica.
Levi si alzò nuovamente,
andando a ficcare tutti quei fogli nella sacca. Una volta al letto, Nina gli
parlò nuovamente.
“Dovresti tenere i permessi
per passare le porte in cima o a Nedlay dovrai
perdere parecchio tempo.”
Levi notò che, in primo
luogo, era davvero arrabbiata. Aveva usato un tono piatto e dimesso e non l’aveva
guardato manco per sbaglio, rifiutandosi di staccare le iridi eterocrome dalle
pagine. Secondariamente, aveva parlato di qualcosa che lui non possedeva
affatto.
“Permessi?”
“Sì. I fogli firmati da Erwin
o da Shadis che ti permettono di spostarti delle
terre di Sina verso il nord” non ricevendo risposta,
Nina alzò lo sguardo sul volto di Levi. E capì “Erwin si è dimenticato di farti
i permessi, vero?”
Quello era un bel problema.
La memoria di suo fratello
ogni tanto perdeva dei punti. Oppure sapeva che sua sorella avrebbe rimediato
ogni cazzata fatta, anche a livello burocratico.
“Dovrai rimandare la partenza”
snocciolò però la bionda, tornando ai suoi studi.
Lui non smise di fissarla “Oppure?”
“Oppure cosa?”
Il moro si stizzì, “Senti,
cretina, o hai una soluzione per questa stronzata che il tuo amato fratello ha
fatto, oppure ti mando a Trost a calci in culo per
farmi fare i permessi.”
“Guarda che tu non sei
nessuno” rilanciò subito lei, a sua volta irritata, guardandolo negli occhi “Io
sono un tuo ufficiale superiore, soldato
semplice Levi e basta.” Il moro incrociò
le braccia sul petto, senza smettere di aspettare la soluzione a quel
casino. Alla fine, Nina cedette. Si mise seduta, chiudendo il libro dopo aver
appoggiato fra le pagine il rametto di lavanda “Prendi fogli e calamaio.”
Le porse quanto richiesto,
sedendosi sul letto per reggere la boccetta di inchiostro, mentre lei
appoggiava le pagine immacolate sulla copertina del libro. La guardò intingere
la punta del pennino dentro all’inchiostro nero, attenta a non macchiare le
coperte “Non credevo che tu avessi l’autorità per autorizzarmi ad andare a
nord.”
“Infatti non ce l’ho” rispose
Nina, ora attenta e concentrata sulla scrittura.
Lei rimase di sasso a quelle
parole “Quindi cosa pensi di fare? Sei inutile.”
“Stai zitto?”
Per circa dieci minuti nella
stanza non volò una mosca. Nina scrisse, inclinando di lato il capo quando
terminò e si perse a leggere da capo tutto. Alla fine lasciò una firma
svolazzante in fondo e portò il foglio al viso, soffiando piano sull’inchiostro
per farlo asciugare più in fretta. Quando lo passò a Levi, questi rimase senza
parole.
Non era possibile dimostrare
che quello era un falso in mezzo a tutte
le carte che Erwin gli aveva fornito. La scrittura era pressoché identica e
anche la firma pareva autentica.
“Hai falsificato la firma di
tuo fratello?” chiese quindi, controllando che l’inchiostro fosse asciutto per
poi piegare in quattro il foglio e ficcarlo nella tasca della giacca beige d’ordinanza.
“Lo faccio sempre” gli
rispose lei con tono non curante, grattandosi il mento che sporcò di nero. Doveva
esserle rimasta un po’ di china sulle dita e lei non parve accorgersene “Erwin
ha tanto per la testa e per quanto sia zelante, capita spesso che dimentichi
qualcosa. Diciamo che ho un’autorizzazione ufficiosa a compilare qualche modulo
se lui ha dato il suo consenso.”
“Come hai imparato a farlo?”
Ora era lui a fare delle
domande e lei per un attimo penso che, per giustizia, avrebbe dovuto non rispondere
affatto. Alla fine, però, decise di lasciar stare. Lo guardò tornare verso la
scrivania, dove iniziò a sua volta a scrivere qualcosa “Non lo so” fu la
risposta sincera della bionda, mentre passava le dita sul dorso del tomo di
medicina, guardandone la copertina di pelle color terra bruciata “Fin da quando
sono piccola ho sempre avuto una buona memoria; mi basta leggere una cosa o
sentire una canzone per non dimenticarla mai. Vale anche per le strade, per le
poesie e per i nomi. Se vedo il volto di un uomo anche una sola volta, allora
lo riconoscerò in mezzo a cento. Così come il tuo braccio, anche la mia
famiglia ha un marchio, che però non è visibile.”
Il moro si ricordò di una
frase detta della bionda “I Müller non dimenticano”
citò, senza smettere di scrivere.
“Allora ogni tanto mi
ascolti.”
La conversazione cadde lì,
poiché Levi era troppo impegnato per continuare il circolo vizioso di
provocazioni che sarebbe nato in breve tempo. Al contrario di Nina non era
molto bravo a scrivere lettere e rapporti, quindi doveva concentrarsi e
prestare attenzione. La persona che aveva insegnato a leggere e a scrivere a
Levi non era di certo erudita, quindi nemmeno lui vantava un gran repertorio
lessicale, anche se aveva sempre letto in un modo o nell’altro, quando riusciva
a procurarsi dei libri nella Città Sotterranea.
Ci provò a concentrarsi, ma
sentiva che c’era qualcosa di irrisolto. Sbuffò, scocciato dal fatto che Nina
si fosse offesa prima. Oppure non voleva lasciarla in una tale incertezza alla
vigilia di una partenza? Levi non sapeva dirlo.
Si appoggiò con la schiena
alla sedia, portando una mano agli occhi che la debole luce della candela stava
stancando. Alla fine si decise a rompere il silenzio, giusto per dar pace a se
stesso.
Non lo stava facendo per lei,
nella sua ottica.
O almeno di questo si stava
convincendo.
“La donna si chiama Gretha” iniziò quasi con titubanza, appoggiando il pennino
nella boccetta “Mentre il bambino è-”
Non serviva terminare la
frase, perché Nina s’era addormentata. Il libro appoggiato al petto, con le
mani incrociate su di esso e l’espressione un po’ tesa persino nel placido sonno.
Il capo era leggermente inclinato verso di lui, sui cuscini e le labbra si
erano schiuse. Levi rimase a fissarla per qualche minuto, prima di alzarsi per toglierle
il tomo di dosso. Le alzò piano le gambe, coprendola con le coperte pesanti di
lana e lei, nel sonno, si spostò disturbata, mettendosi sul fianco, ancor di
più rivolta verso di lui.
“Cosa dovrei farci con una
cretina come te?” domandò sottovoce, spostandole i capelli che le erano finiti
sul volto indietro, sulla nuca, prima di leccarsi il pollice per levarle l’inchiostro
dal mento. Era crollata, spossata dagli allenamenti e dalla visita nel ghetto e
forse anche dall’estenuante conversazione che avevano avuto. Levi non era il
massimo dell’arte oratoria, certo, ma il provocarla non era stato gentile da
parte sua.
Soprattutto perché lui aveva
da tempo capito i sentimenti di quella giovane sempre sorridente.
Bussarono alla porta mentre
Levi stava tornando alla scrivania e, sullo stipite, apparve Fritz. Il ragazzo
lo guardò, prima di spostare lo sguardo su Nina addormentata. Fece un paio di
passi nella stanza, guardandola con un sorriso dolce sulle labbra “La stavo
cercando” ammise, sistemandole le coperte sulle spalle mentre Levi incrociava
le braccia sul petto “Volevo augurarle la buonanotte, ma doveva essere davvero
stanca.”
Fritz adocchiò il libro nelle
mani di Levi, che non commentò nemmeno una parola che gli era stata rivolta.
Meier portò invece le mani
nelle tasche dei pantaloni, guardandosi attorno giusto per non essere costretto
a spiare le iridi fredde del moro “Se non è un problema la lascio qui” disse,
sempre parlando piano “Mi dispiacerebbe spostarla. Difficilmente si addormenta
senza bere la valeriana.”
Quella era una cosa che Levi
non sapeva.
Non dimostrò sorpresa, ma ciò
non significava che non ci fosse rimasto di sasso. Nina, che sembrava prendere
sempre tutto alla leggera, non era poi così diversa da lui che dormiva tre ore
a notte quando andava bene.
“Puoi lasciarla lì. Non credo
dormirò molto, non mi infastidirà.”
Fritz annuì veloce, iniziando
già ad avviarsi alla porta “Dovresti, Nedlay è
lontana da qui e la cavalcata sarà lunga. Ci vediamo domani mattina.”
Levi gli dedicò un cenno,
facendo per voltarsi.
L’altro non pareva aver
finito, però “Volevo dirti grazie” disse a sorpresa, facendo tornare l’uomo a
voltarsi verso di lui “Per quello che fai per lei” proseguì il dottore, un po’
impacciato. Sembrava gli costasse qualcosa dirlo, ma il sorriso che gli rivolse
non fu per questo falso “Grazie.”
La porta si chiuse, lasciando
interdetto il moro.
“Sono tutti dei pazzi in
questa casa” fu il solo commento che gli venne in mente, soprattutto pensando
all’infatuazione del giovane per la ragazza che ora gli dormiva nel letto. Invece
di prenderlo a pugni preferiva ringraziarlo perché si prendeva cura di Nina,
come lui non era autorizzato a fare? Che sciocchezza. Levi non le avrebbe mai
capite quelle maniere.
Decretò che la giornata
poteva anche finire così. Spense una candela e andò con l’altra verso il letto.
La spense solo quando si fu
steso accanto a Nina, che dormiva beata. Inizialmente si stese col volto verso
il tetto, ma poi si mise su un fianco per guardarla in viso. Alzò una mano,
premendo l’indice fra i suoi occhi, laddove le sopracciglia arrivavano a
toccarsi tanto la fronte era corrugata. Dopo qualche secondo Nina mugolò
infastidita, muovendo una mano e afferrandogli il polso nel sonno “Rielke…” sussurrò con tono scocciato senza destarsi,
rimanendo poi con la mano dell’uomo nella sua.
Era la seconda volta che
succedeva quel giorno? Forse la terza. Di nuovo, Levi non interruppe il
contatto.
Rimase lì a guardarla, nel
momento in cui i suoi occhi si abituarono all’oscurità, sentendosi investito
dal profumo di lavanda che sembrava emanare.
Iniziava a diventare un bel
problema, quell’attaccamento che provava per lei.
Non lo voleva.
Però non poteva nemmeno
decidere di non provare nulla.
Quando scesero a mangiare
qualcosa prima della partenza, la mattina era ancora lontana. Fuori il cielo
era ancora color pece e l’aria era parecchio fredda.
“Deve aver nevicato al nord”
disse il dottor Meier mentre richiudeva la porta, andando ad appoggiare sul
tavolo qualche pagnotta ancora calda che aveva preso dal panettiere all’angolo.
Nina sbadigliò rumorosamente,
mentre accanto a lei Fritz imprecava a denti stretti, pensando a quanto sarebbe
stato ‘divertente’ trovarsi a Nedlay di lì in avanti “Non
fare così” gli disse la bionda, accarezzandogli il braccio “Il soggiorno a Nedlay è temporaneo no? Non ti hanno ancora riassegnato in
via ufficiale. Chiederò a Erwin ogni giorno di insistere con Shadis e in primavera saremo di nuovo insieme.”
A quelle parole, gli occhi di
Fritz si illuminarono, mentre di fronte a lui Levi mangiava pane e beveva latte
come se tutto il resto non fosse importante “A Trost?”
Nina annuì, sorridendogli “A Trost.”
“Intanto ci rivediamo per i Fuochi di Stohess,
no?” chiese Leopold, che era arrivato da cinque minuti per salutare il caro
amico e aveva la faccia di qualcuno che non si era nemmeno coricato per dormire
“Non starai lontano molto dalla tua Nina.”
Il diretto interessato
arrossì, mentre la giovane ridacchiava piano “Avrò si e no tre giorni di
licenza, a dicembre” commentò amareggiato Meier.
“Giusti per la fine dell’anno”
ricantò Jara, servendogli il the.
“Siamo stati tutta l’estate
in Capitale” gli ricordò Nina, rubando un biscotto “Fino alla fine della
prossima primavera non avremo licenze per forza.”
“Vorrà dire che verrò a
trovarvi io” si intromise il rosso gendarme, appoggiando le braccia al tavolo e
affondandovi il viso “Preferisco andare a sud però, che a nord!”
“A nessuno piace il nord”
confermò Fritz, “Voglio dire…. A oriente tira sempre
in vento. A Renin piove e basta. A Nedlay invece nevica solo, quindi non usciremo da Briemer perché quando il tempo è brutto non si fanno
missioni. Cosa faremo tutto l’inverno?”
“Se ti consola a Shigashina non succede mai niente” lo informò Nina “Sono
settanta anni che non c’è niente di
noto, ma almeno il clima è buono.”
Il padrone di casa ascoltò i
giovani parlare, guardando di tanto in tanto Levi. Alla fine si rivolse a lui
mentre questi porgeva la ciotola vuota a Jara e si
alzava per infilare la giacca e la mantella. Era ora di andare “Tornerai o
andrai direttamente a Trost, Levi?”
Il moro guardò verso Nina,
non rispondendo subito “Non guardare me” disse lei “Io sono qui fino al dieci
di novembre, non posso aspettarti, riprendo servizio il dodici e anche io ho
quattro giorni di licenza per l’ultimo dell’anno.”
“Dovrei tornare prima.”
“Se non nevica” gli ricordò
Leopold, tenendo affondate le mani nelle tasche del cappotto di ordinanza,
mentre usciva insieme a un Fritz ormai rassegnato al suo destino.
Nina abbracciò l’amico,
raccomandandogli di scrivere, mentre accanto a lei Jara
sellava il cavallo e parlava al fratello come se fosse scemo. Leopold gli
concesse un paio di pacche sulle spalle, ricordandogli che a nord le puttane
costano meno, “Anche se ti conviene tenertelo nei pantaloni, o potrebbe caderti
col freddo!”
Tutti risero, eccetto Levi
che sembrava preso dal sistemare la sua sacca sulla sella di Meruka.
“Vorrei avere un piano B”
disse Fritz, appoggiando una mano sul fianco di Nina e l’altra sulla spalla del
migliore amico.
“Il nostro piano B di solito
è un piano Birra” gli fece sapere
Leo, suscitando di nuovo qualche risata “Il che è anche un ottimo consiglio:
affoga i dispiaceri nell’alcool e lo vedi come passa in fretta il tempo”.
Nina ne approfittò per
allontanarsi verso l’altro uomo. Si piazzò accanto a lui, tenendo le braccia
incrociate sotto al seno visto il freddo che faceva. Lo guardò sistemare un
paio di cinghie prima di voltarsi verso di lei “Possiamo andare o i tuoi amici
hanno intenzione di sparare stronzate da mocciosi ancora per molto?”
Nina sbuffò divertita,
roteando gli occhi alle sue parole “Sempre il solito” disse, prima di alzare le
mani mezze nascoste dalle maniche del vestito grigio per sistemargli la
mantella sulle spalle. Alla fine lisciò il tessuto verde sul petto, guardandolo
negli occhi “Scrivimi” lo ammonì “Fammi sapere che sei arrivato vivo a Briemer e se hai trovato la tua donna e il tuo
bambino.”
Un sentimento contrastante
nacque nel petto di Levi, che si sentì combattuto fra il prenderla a schiaffi e
il baciarla.
Alla fine optò per una via
intermedia. Appoggiò la mano su quella della ragazza, “Starò benissimo senza di
te che mi aliti sul collo tutto il giorno.”
Nina scosse piano il capo,
non riuscendo però a non sorridergli. Si guardarono per diversi secondi, mentre
l’aria si faceva elettrica ed entrambi non potevano non pensare a quanto l’altro
fosse vicino.
Alla fine, però, Nina spezzò
quel gioco. Si tolse la sciarpa, avvolgendogliela attorno al collo “Così magari
non ti verrà a fare male la schiena” lo prese in giro a sua volta “Senza il mio
fiato sul collo” rimarcò, “Hai una certa età dopotutto.”
“Nina lascialo andare o
partiranno per pranzo!” la voce di Leopold la fece tornare in sé e soprattutto conscia
che non erano soli. Fece un passo indietro e lui con un saltello agile montò a
cavallo. Appoggiò una mano sul suo stivale, sul ginocchio “Buon viaggio”
Levi la guardò affiancarsi a Jara, che appoggiò sulle sue spalle la coperta che stava
avvolgendo anche lei.
A fatica, il moro staccò gli
occhi da quelli magnetici del sergente, lanciando uno sguardo a Fritz che, per
primo, si lanciò nella notte.
Eh sì. Stava decisamente
diventando un problema.
… Naturalmente Levi rimase
bloccato dalla neve a Briemer e tornò dopo quasi un
mese e mezzo.
Per lo meno, però, le scrisse
una lettera.
Nda:
Lo so, sono in ritardo, però
questo capitolo è davvero lungo e serve a farmi perdonare :DDD
Un paio di appunti veloci che
la tesi mi aspetta.
Ho trasposto Ilse perché, nonostante gli AOV spefichino
che la sua vicenda si è svolta nel 850, nel manga non è segnata nessuna data. Ho
preferito seguire il manga per molti aspetti, compreso il fatto che il corpo
non lo trovano nell’albero ma a terra.
Ci sarà un capitolo intero su
questa vicenda che è molto importante ai fini della trama e del sequel futuro
quindi non mi dilungo oltre.
Ho trovato le canzoni suonate
solo a violino e quindi niente. Nuova era di accompagnamento ai capitoli.
Un altro paio di utili info e
poi la smetto.
Punto prima, se avete letto
il capitolo 85 saprete il ‘problema legato alle foto’ e quindi niente, ho
modificato il mio capitolo 5 per eliminarle e sostituirle con dei ritratti.
Isayama cavolo non traviarci.
Punto secondo, la mia cara
amica RLandH ha finalmente postato!
Come ho già detto, le nostre
storie sono intrecciate e nella sua scoprirete, prima o poi, che cavolo è andato
a fare Levi a Briemer.
Eccovi il Link, per intenderci:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3529133&i=1
Ok basta, devo essere
produttiva accademicamente.
Grazie a chi legge,
seguendomi in silenzio, ma in particolare a quei cupcake
di Shige e Auriga che mi tengono compagnia e mi seguono.
….E si anche a te, Luna, ma scrivi v.v
Alla prossima!
C.L.