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Autore: Adeia Di Elferas    14/09/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Puccio Pucci, fresco ambasciatore fiorentino a Faenza, era finalmente riuscito a ottenere il permesso di visitare la corte di Forlì per incontrare la Contessa Riario di persona.

Era una vera fortuna che ormai Faenza altro non fosse se non un satellite di Firenze, altrimenti la sua mossa sarebbe stata vista di cattivo occhio dal governo faentino. In quel periodo tutti si guardavano da tutti e anche un solo colloquio era visto alla stregua di un mezzo tradimento.

Pucci arrivò alla rocca di Ravaldino in anticipo, rispetto a quanto aveva scritto per lettera, ma le guardie all'ingresso lo accompagnarono subito nella sala in cui normalmente la Contessa presiedeva alla questue cittadine.

Prima che venisse annunciato, il fiorentino ebbe il tempo di sentire di sfuggita la voce della donna, oltre alla porta socchiusa, che diceva: “Gli ho già scritto e sono certa che Raffaele saprà cosa dirgli per farlo rinsavire...”

Aggrottando la fronte, cercando mentalmente di ricostruire chi potesse essere l'oggetto della frase, Puccio Pucci lasciò che la guardia lo scortasse nella sala, presentandolo come: “L'ambasciator di Firenze a Faenza, messer Pucci.”

Caterina Sforza era appoggiata al davanzale della finestra, le braccia incrociate su petto. Portava i capelli biondi raccolti dietro la nuca, in un modo fin troppo sobrio, vista la sua posizione, e il suo abito era elegante, ma vistosamente in uso da parecchio tempo.

A mezzo metro da lei, con le mani dietro la schiena e il capo inclinato di lato, stava quello che doveva essere il tanto chiacchierato Governatore Generale delle truppe e delle rocche. Egli indossava una vaporosa camicia chiara e un giustacuore di velluto blu che metteva in risalto la sua figura slanciata e snella. A differenza dei vestiti della Contessa, quelli del Governatore erano chiaramente nuovissimi.

Per un attimo, per quanto avvezzo a trovarsi dinnanzi a ogni genere di persona, Pucci restò colpito da quella visione. Non aveva mai visto due persone tanto belle nella stessa stanza. Erano eleganti entrambi, seppur in modo differente, e benché si notasse come la Contessa avesse qualche anno in più del Governatore, apparivano entrambi giovani e in salute, emblemi viventi di quello che il Magnifico aveva teorizzato nei suoi componimenti inneggianti alla giovinezza.

La Contessa salutò formalmente il fiorentino, che si profuse nelle solite frasi di rito, mentre tutti e tre si sistemavano ai posti a loro spettanti.

Caterina si sedette sullo scranno rialzato che usava anche durante le questue e le visite ufficiali dei nobili forlivesi, Giacomo prese posto al suo fianco, su una poltroncina posta accanto al palchetto della moglie, e Puccio Pucci rimase in piedi di fronte a loro.

“Quale evenienza vi ha portato qui?” domandò la Contessa, quando Puccio ebbe esaurito le lodi e le captatio benevolentiae in cui era tanto bravo.

“Sono qui a nome del mio signore, Piero Medici.” rispose prontamente il diplomatico, chinando un po' la testa, ma non perdendosi nemmeno una reazione dei due che gli stavano davanti: “Sono qui per offrire tutto il suo sostegno e la sua amicizia a voi, mia signora.”

“Cosa vi fa credere che io desideri tutta questa benevolenza da parte sua?” chiese Caterina, irrigidendosi.

Aveva subito colto il pericolo, sotteso a quelle parole, mentre Giacomo si era sistemato sulla poltroncina in un modo che ne denunciava tutto l'interesse per la faccenda.

“Il mio signore è convinto – riprese Puccio, ripercorrendo il discorso che si era preparato da giorni – che in questo momento le vostre terre siano in serio pericolo. Non è un mistero che alcuni soldati lombardi stiano attraversando impunemente il vostro Stato e da qui a commettere qualche atto scellerato ci passerà poco. Quindi il mio signore vi offre il suo appoggio e la sua amicizia, se voi sarete in grado di ripagarlo con la medesima moneta.”

“I soldati lombardi non hanno alcuna intenzione di attaccarmi, se è questo che preoccupa il vostro signore.” ribatté Caterina, con freddezza: “Mio zio è mio alleato e quindi non ho motivo di temere i suoi soldati.”

“Eppure dicono che vostro zio non vi abbia consultata, né vi abbia invitata a Ferrara per la discussione dell'organizzazione della Lega...” constatò Puccio, fingendosi molto rammaricato per quel dettaglio.

“In effetti non sapevamo nemmeno che...” cominciò Giacomo, ma Caterina lo zittì immediatamente, parlandogli sopra con voce imperiosa.

“Mio figlio è a Ferrara, in questo momento, in veste di Conte di Forlì, dunque le vostre supposizioni sono errate.” disse, notando con piacere come il fiorentino fosse sorpreso da quella notizia: “Inoltre – fece la Contessa, passando all'attacco aperto, più per cercare di dimostrare a Giacomo l'inconsistenza della proposta, che non per mettere in difficoltà il fiorentino – quale aiuto potrebbe mai darmi Firenze, ora che quel Savonarola vi sta facendo tanto penare? La guerra civile sta per sconvolgere le terre di Piero Medici e i suoi cugini Lorenzo e Giovanni sono tra i suoi più strenui oppositori. Davvero il vostro signore sarebbe in grado di vincere una guerra in casa e nel frattempo di proteggere me? Non credo proprio.”

Puccio strinse i denti, contrariato dalla piega che stava prendendo il dialogo. Lo avevano messo in guardia sulla lingua biforcuta della Tigre, ma trovarsela davanti era un altro paio di maniche.

Sforzandosi di sorridere, il fiorentino allargò le braccia e, rivolgendosi soprattutto al Governatore Generale, che sembrava quello più malleabile, disse: “Suvvia, mi pare eccessivo parlare in questi termini. I seguaci del Savonarola li si chiama Piagnoni e non a caso: sanno piangere e basta, non sono pericolosi. Firenze resta la potenza che era ed è destinata anche a crescere.”

“Se fosse così potente – rincarò Caterina, sempre più a beneficio di Giacomo che le sembrava ancora combattuto – non avrebbe permesso né la formazione della Lega, né tanto meno la riunione che mio zio ha organizzato a Ferrara. Credo che piuttosto voi vogliate che io impedisca il passaggio dei milanesi per le mie terre solo perchè il vostro Stato è molto vicino e voi non sareste in grado di difendervi in modo adatto.”

Le labbra di Puccio erano ridotte a un filo violaceo, i suoi occhi incavati e scuri erano fissi sulla Contessa, ma quando ritrovò lo spirito di parlare, il suo sguardo tornò ancora una volta al Governatore, che occhieggiava ora verso la donna ora verso il fiorentino, come non sapesse a chi credere: “Capisco le vostre perplessità, ma vi smentisco subito. L'esercito di Firenze è prontissimo a stanziarsi anche nelle vostre terre, a vostra protezione, a patto che voi assecondiate Firenze e i suoi alleati in caso di necessità.”

“In caso di guerra, volete dire.” lo corresse Caterina con impazienza: “Ebbene, allora che vi sia chiaro che io non intendo schierarmi né per voi né per Milano, perché il mio Stato resterà del tutto neutrale. Il passaggio anche solo di un esercito amico sarebbe una mezza catastrofe per le mie campagne e le mie città e non intendo mettere a rischio i miei sudditi per far un piacere a questo o quel signore.”

Puccio sollevò l'angolo della bocca, facendo passare il peso da un piede all'altro: “Mi spiace dirvelo, ma non credo che vi sarà possibile restare neutrale tanto a lungo.”

“Esattamente quello che credo anche io.” concordò il Governatore Generale, felice di aver finalmente sotto mano qualcuno che la pensava come lui.

“E chi lo dice che non potrò restare neutrale?” fece Caterina, come se Giacomo non avesse nemmeno aperto bocca.

Il fiorentino sospirò: “Siete molto intelligente, Contessa, quindi non dovrei essere io a spiegarvelo.”

“Vi prego, invece.” lo invitò Caterina.

Puccio Pucci deglutì e cercò le parole migliori: “Pensateci: se il resto della Romagna starà al fianco di Milano e con il papa, credete davvero che vi lasceranno stare, anche se non siete schierata con noi?”

Il diplomatico attese che la sua frase facesse il suo effetto almeno sul Governatore Generale, il cui pomo d'Adamo aveva iniziato a salire e scendere nervosamente, e poi proseguì: “Se diventerete nostra alleata adesso, noi vi proteggeremo, quando sarà il momento.” alleggerì di colpo il tono soggiungendo: “E inoltre abbiamo buoni motivi per credere che il papa alla fine cambierà fronte e si schiererà con Napoli, dunque non vedo che interesse abbiate nel favorire con la vostra testardaggine vostro zio, che evidentemente non vi reputa all'altezza, dato che non vi ha nemmeno chiamata a sé a Ferrara.”

“Vi ho già detto che a Ferrara è andato mio figlio, il legittimo Conte, richiamato personalmente da mio zio Ludovico – ribatté Caterina, ostinandosi in quella farsa, pur sapendo che presto si sarebbe saputo il vero motivo della partenza di Ottaviano e che quindi nessuno avrebbe più dato credito a quell'affermazione – e comunque ho la certezza di non essere attaccata da Milano. Vi ricordo che furono i soldati di Milano ad aiutarmi nel rovesciare il Governo degli Orsi.”

“Le cose sono molto cambiate da allora.” commentò Puccio, alzando un sopracciglio e indicando con scarsa discrezione Giacomo con un cenno del capo.

A quel gesto, la Contessa si bloccò. Il modo insinuante con cui il fiorentino stava parlando le lasciava intendere che fosse al corrente di più cose del previsto. O forse stava solo fingendo di avere notizie certe tra le mani.

Quando Pucci parlò di nuovo, Caterina dovette lottare con se stessa per mantenere un'espressione del tutto indifferente: “Non è certo un segreto, Contessa, che il Moro voglia imporre su di voi la sua influenza, usando vostro figlio come fantoccio e che per ora non ci stia riuscendo e questa cosa lo sta irritando parecchio. Non riesce nemmeno a imporvi la presenza dei suoi collaboratori – i suoi occhi corsero ancora una volta a Giacomo, che ascoltava in tensione – e si mostra insofferente verso quelli che vi siete scelta voi.”

Siccome Caterina non accennava a controbattere in alcun modo, il messo fiorentino gonfiò un po' il petto, nel tentativo di apparire ancor più sicuro delle sue parole e riprese: “Vostro zio ormai mette in giro voci che in molti reputano assurde, ma che tuttavia possono ledere alla vostra sicurezza. Dice che voi e il vostro Governatore, perdonatemi se mi permetto, abbiate avuto un figlio in segreto – una lieve contrazione dei muscoli facciali della Contessa e un lampo di timore negli occhi del Governatore fecero intendere a Pucci di aver fatto centro – e che vi siate addirittura sposati. Il che significherebbe per voi perdere la potestà sui vostri figli e poter incorrere nell'ira del papa, che per la vostra condotta potrebbe decidere di destituirvi, cedendo le vostre città a un nuovo signore. So bene che non sareste stata tanto stupida da accollarvi un simile rischio...”

“Infatti.” disse subito Caterina.

“Ma se il Moro potesse produrre le prove...” insinuò il fiorentino, guardandosi la punta dei piedi.

“Non esistono prove, perché non è vero niente.” lo zittì subito la Contessa: “Mio zio è davvero tanto sciocco da credere che io mi sarei legata a un uomo più giovane, di bassa estrazione e di dubbia capacità?”

Giacomo si agitò sulla poltroncina, visibilmente ferito da quella frase. Forse, anche se sapeva che la donna stava solo cercando di sviare i sospetti del fiorentino, in quelle parole dette con tanta facilità sottostavano problemi reali.

Puccio era al settimo cielo nel notare tutti quei dettagli preziosi che avrebbero permesso a lui e al suo signore di approntare un piano preciso per far cadere ai loro piedi Imola e Forlì.

“Qui si combatterà la vera guerra, Contessa, qui in Romagna, non ci sono dubbi in merito.” fece a quel punto il diplomatico, fingendosi scocciato da quel botta e risposta continuo e desideroso di chiudere in fretta la questione: “Sta a voi decidere se soccombere tra due fuochi o scegliere Firenze come alleata e vincere.”

Pucci e il Governatore Generale si scambiarono una lunga occhiata, mentre Caterina fissava un punto indefinito oltre la finestra.

“Con permesso.” concluse il fiorentino, che, avendo lanciato l'amo, sapeva ormai di dover solo aspettare.

Il diplomatico era uscita da una manciata di minuti eppure né Caterina né Giacomo avevano ancora aperto bocca. La prima era ancora immersa nella collera tanto verso suo figlio, quanto verso Piero Medici, che la stava mettendo in seria difficoltà con quell'ambasceria. Il secondo, invece, si sentiva mancare la terra sotto i piedi a pensare a quello che li aspettava nel futuro.

“Mia signora – disse una delle balie dei bambini, entrando nella sala senza curarsi di farsi annunciare – credo che Livio abbia ancora la febbre... Chiede di voi.”

Caterina soffiò e si alzò dalla scranno. Livio, crescendo, si stava dimostrando il più cagionevole dei suoi figli. Era l'unico che prendeva spesso il raffreddore e solo lui aveva preso tutte le malattie tipiche dell'infanzia, che invece avevano miracolosamente risparmiato tutti i suoi fratelli. In poco più di otto anni di vita aveva dato prova di sapersi ammalare e riprende con estrema facilità e aveva dato modo a sua madre di testare su di lui innumerevoli rimedi contro la febbre e la tosse.

“Aspettami al Paradiso.” sussurrò a Giacomo, prima di uscire per andare a vedere come stesse il suo quarto figlio.

Giacomo annuì e aspettò che la donna si dileguasse verso le stanze dei bambini, prima di imboccare il corridoio verso l'uscita della rocca. All'inizio camminava rapidamente, ma alla fine si era messo proprio a correre, temendo di non fare in tempo.

Riuscì a raggiungere Puccio Pucci per un pelo, proprio mentre stava per attraversare il ponte levatoio. Il fiorentino, in realtà, aveva camminato fino a lì con deliberata lentezza, intimamente sperando in un simile slancio del Governatore. Tuttavia, quando lo vide davvero alle sue spalle, ansimante e accaldato, non poté evitare di restarne sorpreso. Era stato davvero più facile del previsto...

“Aspettate...!” fece Giacomo Feo, alzando una mano per bloccare Pucci: “Aspettate...!”

Il diplomatico diede a intendere di essersi appena accorto dell'arrivo del forlivese e così spalancò gli occhi e voltandosi platealmente esclamò: “Governatore Generale!”

Giacomo gli si avvicinò e lo afferrò per una manica, parlandogli quasi nell'orecchio, per far sì che i soldati che erano di guardia alla porta non sentissero nulla: “Potremmo essere interessati.” sussurrò: “Io ho già scritto più volte al vostro signore, Piero Medici e so che lui conosce le mie intenzioni di essergli amico...”

Il fiorentino ricordava anche bene quanto il suo signore si fosse lamentato dell'insistenza del Governatore Generale della Sforza, ma preferì lasciargli intendere invece quanto il Medici avesse apprezzato le sue missive: “Certo, lo so bene, ma purtroppo la Contessa Riario non sembra voler appoggiare la vostra linea di pensiero.”

Giacomo deglutì nervosamente e quasi implorò: “Lasciatemi qualche tempo e vedrete che troverete in noi degli alleati.”

Pucci si sentiva trionfante, tuttavia perpetrò la sua recita, ribadendo, abbattuto: “Non credo che la Contessa sia di questo avviso.”

“Il Governatore Generale delle truppe e delle rocche sono io. In materia di guerra la mia voce conta più della sua.” si vantò Giacomo, con uno slancio di vanagloria: “E vi dico che la convincerò.”

Pucci annuì, diede una pacca sulla spalla al giovane Governatore e sorrise: “Conto su di voi, mio prezioso amico. Si vede subito che siete più abile della Contessa, in materia bellica.”

Giacomo non venne nemmeno sfiorato dall'idea che il fiorentino lo stesse dileggiando, anzi, ne rimase molto inorgoglito e lo salutò con la solennità che avrebbe usato nei confronti di un re.

 

Tornato a Faenza, Puccio Pucci si affrettò a scrivere al suo signore le sue impressione e i suoi successi: 'Il ruolo incomprensibile del Feo nel governo locale è la chiave del nostro riuscire. La Contessa è soggiogata a lui, per quanto non lo voglia dare a vedere e sono certo che alla fine lui la farà cedere con armi proprie di un amante, più che di un Governatore.'

Poi, però, mentre intingeva ancora la punta della penna nell'inchiostro, Pucci si sentì in dovere di essere meno ottimista. Piero Medici era troppo incline alla superficialità e messo davanti a un quadro troppo roseo avrebbe forse preso decisioni affrettate.

'L'alleanza con Forlì è ancora in dubbio, per quanto io sia speranzoso. La situazione dello Stato dei Riario è imperscrutabile, al momento. Per sbloccare questa condizione temo che vi siano solo tre possibilità. La prima: che la Contessa, rinsavita dalla sua infatuazione, si accorga di chi ha attirato a sé e faccia uccidere il Feo. La seconda: che il Feo si lasci da noi giustamente ingolosire e finisca per uccidere la Sforza. Oppure, come terza cosa, che il giovane Riario faccia uccidere tanto la madre quando il Feo e si riprenda il potere. In ogni caso, per ora io insisterei sul Feo. Se gli daremo il giusto appoggio, alla fine farà tutto quello che gli diremo di fare, finanche assassinare la donna che ama.'

 
   
 
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