Erano passate tre settimane
dalla nascita di Kayla Burke. Fortunatamente, dato che suo padre era ad
Azkaban, erano riusciti ad evitare di mettere alla piccola il cognome
Saintclare e di farla riconoscere da Magnus come sua figlia. Non che il
cognome
Burke fosse un cognome facile da portare, Elaine sapeva bene a cosa
sarebbe
andata incontro quando sarebbe cresciuta ma, almeno per ora, era al
sicuro.
Stava seduta sul letto,
guardando sua figlia che stringeva un suo dito nella manina quando
sentì un
bussare alla porta.
“Entra” disse a suo
fratello.
Edward entrò nella stanza e
sorrise istintivamente guardando l’immagine che aveva davanti.
“Allora…è domenica, il sole
splende e io ho una sorpresa per te.”
“Una sorpresa? Di cosa si
tratta?” chiese Elaine incuriosita.
“Se te lo dico che sorpresa
è? Seguimi di sotto”
La giovane obbedì, lasciò
la bambina nella sua culla e seguì Edward lungo le scale.
Sul pianerottolo
all’entrata della grande casa trovò una carrozzina
blu, con delle grandi ruote.
“Hai passato l’ultimo periodo
rinchiusa dentro quattro mura, ma non sei tu a dover restare in una
prigione.
Non lo meriti, e non lo merita nemmeno Kayla, quindi oggi
usciamo.”
“Ma Kayla è ancora piccola
e…”
“Non voglio sentire nessun
ma… Kayla è una bambina forte e in salute,
può cominciare tranquillamente ad
uscire. E per quanto riguarda te…” e prese le mani
della sorella tra le sue
“…non permettere che quello che pensa la gente ti
tocchi. Tu non hai mai fatto
niente di male, è ora che la smetti di prenderti colpe che
non hai.”
Fu così che, non senza
qualche reticenza, la convinse ad andare a fare una passeggiata.
Inaspettatamente Elaine non si ritrovò addosso tante
occhiate maligne quante se
ne aspettava e trovò in qualche modo piacevole sentire di
nuovo il calore del
sole sul viso e il chiacchiericcio della gente per le strade.
Si fermò davanti alla
vetrina di un negozio di vestiti e Edward ridacchiò
“Ti lascio alle tue cose da
donna ma c’è una persona che voglio presentarti.
Torno subito.”
Edward si diresse verso un
locale situato qualche decina di metri più in
giù, mentre lei rimirava un
vestito di un delicato azzurro abbinato a quello del manichino accanto:
un
completo di mago blu scuro, con cuciture azzurre in risalto.
Non passò più di un minuto
quando vide uscire dal negozio un ragazzo, un ragazzo familiare.
Quando William uscì dal
negozio stentò a credere ai suoi occhi. Quante
probabilità c’erano che uscisse
nell’esatto momento in cui Elaine Saintclare si trovava
lì?
Non poteva sfuggire a
quegli occhi chiari. “Hey” la salutò.
“William” contraccambiò
lei, con un tono di voce particolarmente duro.
Il ragazzo si affacciò per
sbirciare dentro la carrozzina. “È
adorabile…complimenti” disse leggermente a
disagio.
Elaine odiava le situazioni
di stallo come quella, era inutile stare lì a fare
convenevoli quando invece
c’era una questione di cui discutere.
“Sei sparito” affermò la
ragazza.
“Lo so”
“Per mesi” specificò Ely
“Sei venuto a casa mia, abbiamo chiacchierato, era tutto
tranquillo e poi mi
hai baciato! Mi hai baciata e te ne sei andato! Ti pare normale? Hai
mai anche
solo lontanamente pensato di farti vivo in questi mesi?”
Le parole uscirono fuori
dalla bocca di lei come un fiume in piena e William si sentì
una specie di
verme. Non aveva avuto intenzione di ferirla ma lui aveva agito
impulsivamente
e la situazione era tutt’altro che semplice.
“Non è così semplice…tu hai
una figlia e un marito!”
William accentuò
particolarmente l’ultima parola. Per quanto non potesse
negare a se stesso che
provava qualcosa per quella ragazza non era pronto neanche ad
affrontare quello
che avrebbe implicato un’eventuale liason con una donna
sposata, e con un
mangiamorte per giunta.
Elaine si ritrovò incapace
di negare la verità. Aveva ancora un marito, quella cosa
l’avrebbe perseguitata
fino alla fine dei suoi giorni, o dei giorni di Magnus.
Non riuscì neanche a dire
niente quando William la superò per andarsene.
Nel frattempo Edward era
entrato al Crazy Head. Il locale era praticamente deserto quella
domenica
mattina, eccetto per quello che sapeva essere un cliente abituale, che
passava
il suo tempo rintanato in un angolo a bere per dimenticare
chissà quale dramma.
Johanna lo individuò
subito, spostando gli occhi chiari verso la porta.
“Chi non muore si rivede”
ironizzò mentre con la bacchetta spostava dei bicchieri su
un ripiano.
“Hai ragione, me lo merito
ma sai che non amo l’umorismo macabro.”
Il ragazzo si era
avvicinato mentre lei era passata oltre il bancone per andare ad
appoggiare
saliere e pepiere sui tavoli.
Quando tornò verso Edward,
con il vassoio tra le braccia, disse “Prima sei venuto qui un
giorno sì e
l’altro pure, poi è successo quello che
è successo e ultimamente vieni qui
raramente e io non vorrei averti spaventato e…”
Il flusso di parole, detto
da Johanna ad una velocità impressionante per qualsiasi
essere umano, venne
interrotto dalle labbra di Edward che si posarono sulle sue, mentre
teneva una
mano dietro la testa di lei, immersa in quella massa di capelli scuri.
Johanna rimase interdetta.
In una frazione di secondo tutto intorno a lei esplose, come
un’ondata di
calore che la avvolse. Lasciò andare il vassoio ma non lo
sentì tintinnare
contro il pavimento, troppo presa com’era ad iniziare a
rispondere a
quell’inaspettato, ma forse neanche tanto, bacio.
Quando si staccarono, si ritrovarono
entrambi a ridere come due adolescenti e in un attimo fu lei a baciarlo
di
nuovo, sorridendo contro quelle labbra ruvide. Pelle contro pelle.
Sorriso
contro sorriso.
“Comunque ero venuto perché
voglio presentarti due persone molto importanti…”
“Sei riuscito a far uscire
tua sorella alla fine?” chiese dandogli un amichevole pugno
sulla spalla. Fine
del romanticismo. “E bravo Burke! Falle entrare!”
Il ragazzo sorrise ed uscì
di nuovo in strada, ma quando individuò Elaine si accorse
subito che sembrava
leggermente sconvolta.
“Portami a casa” lo pregò
lei.
“Ma come…cosa…”
“Per favore…”.
Non le capitava
praticamente mai di andare da suo fratello, al Quartier Generale degli
Auror;
non che non le facesse piacere vederlo ma preferiva incontrare Zeek
nella
tranquillità dell’ambiente domestico. Quel giorno
però suo padre le aveva
chiesto di portare al fratello una cartella che quello sbadato aveva
lasciato a
casa del genitore quando erano stati tutti lì a cena, la
sera precedente.
Non si era potuta rifiutare,
non l’avrebbe fatto in ogni caso e così aveva
perso metà della sua mattinata
libera per passare prima da casa del padre e poi dal Ministero della
Magia.
Salutò Zeek e i suoi
colleghi dai volti ormai familiari e quando si chiuse la porta
dell’ufficio della
squadra 327 alle spalle gettò un occhio
sull’orologio che aveva al polso.
Perfetto, era mezzogiorno ormai, alle tre doveva andare a lavorare e
non aveva
ancora combinato niente. E cominciava anche ad avere fame!
Si avviò verso l’ascensore
con l’intenzione di tornare. Camminava tranquillamente lungo
il corridoio
quando la sua attenzione venne catturata da una porta che si apriva ad
una
decina di metri da lei.
Insieme ad altre due
persone stava uscendo da quella stanza un uomo dai riccioli biondi e
l’espressione
leggermente corrucciata.
Francis.
Victoria non si accorse di
aver pronunciato il nome ad alta voce finché il diretto
interessato non si
voltò verso di lei e le sorrise.
E all’improvviso la ragazza
si sentì in imbarazzo. Lo vide dire qualcosa ai colleghi e
poi avvicinarsi a
lei, e più si avvicinava e più lei avvampava.
“Victoria” la salutò con un
caldo sorriso “Niente acqua oggi”
ridacchiò mostrandole le mani libere.
La mora si ritrovò a
ridacchiare a sua volta e si sentì di nuovo stupida per
l’incidente di un paio
di settimane prima.
“Non sono sempre così
maldestra…”
“Ma io non posso saperlo”
obiettò lui.
“Hai ragione, non puoi
saperlo”
Ci fu un attimo di
silenzio, anche Francis sembrava imbarazzato. Per un attimo Victoria fu
tentata
di salutare e andarsene, cosa cavolo ci faceva in piedi lì,
con il cuore che le
batteva in maniera incontrollata?
“Ehm…allora…qual buon vento
ti porta qui?”
“Oh…io sono venuta solo a
portare una cosa a mio fratello. Lui, ehm, lavora qui”
balbettò Victoria.
Se qualcuno avesse visto la
scena dall’esterno avrebbe notato come i due sembrassero
più adolescenti
imbarazzati che adulti. I luminosi occhi verdi di lui la mettevano un
po’ a
disagio, non perché fossero intimidatori ma era come vederci
l’anima dentro.
Improvvisamente lo stomaco
di Victoria brontolò. Che figura! Sperava che lui non
l’avesse sentito ma il
sorrisetto che si allargava sulla bocca dell’uomo le fece
capire che si
sbagliava.
“A quanto pare non sono
l’unico ad avere fame” constatò Francis
“Io stavo comunque andando a pranzo
sai, nel caso volessi unirti…”
Per un attimo il cervello
della ragazza andò in tilt. Se fosse stata impulsiva avrebbe
risposto
immediatamente di sì ma c’era una parte del suo
cervello, insieme ad una parte
del suo cuore che le diceva: un pranzo? Con una persona che non
conosci? Con un
uomo?
“Io…forse dovrei andare a
casa” si ritrovò a rispondere abbassando
leggermente gli occhi chiari, gesto
che le impedì di notare il lampo di delusione che attraverso
lo sguardo della
persona in piedi di fronte a lei.
“Peccato…ti perdi i
migliori hot-dog di Londra…” la
stuzzicò.
“I migliori?” chiese Vic
alzando un sopracciglio.
“Ti sfido a trovarne di
migliori”
La ragazza tentennò prima
di piegare le labbra in un sorriso e replicare “E
sia…”
Francis la condusse fino
all’esterno del Ministero della Magia, e poi le chiese di
prenderlo
sottobraccio per smaterializzarsi. Victoria acconsentì,
anche se un po’
incerta. Era convinta che sarebbero andati in qualche parte
lì vicino invece
ricomparirono in un vicolo di Londra.
“Vieni” Francis la invitò a
seguirlo e la ragazza obbedì. Gli bastò svoltare
un paio di volte e Victoria
rimase impressionata nel ritrovarsi a lato di Buckingham Palace.
Camminarono
fino ad entrare in St. James’s Park.
“Posso sapere dove stiamo
andando?” chiese Victoria curiosa.
“Mi aspetteresti lì?” e
Francis indicò una panchina di fronte al laghetto.
Davanti all’occhiata che la
ragazza gli rivolse, l’uomo ridacchiò
“Non ti preoccupare, torno subito”.
E così Victoria si andò a
mettere seduta e iniziò a guardarsi intorno in quel
soleggiato lunedì. Vedeva
babbani camminare, leggere e chiacchierare su quei verdi prati, tra le
piante
che facevano ombra e gli scoiattoli che gironzolavano alla ricerca di
cibo.
“Eri mai stata qui?” le
chiese la calda voce maschile alle sue spalle. Francis le
passò un hot dog
prima di sedersi lì accanto.
“No… non sono mai stata una
grande frequentatrice della Londra babbana…sai, la mia
è una famiglia di
purosangue…”
In risposta allo sguardo
curioso di lui continuò “Siamo Crouch…i
miei non sono mai stati molto chiusi,
ma neanche così liberali…”
L’uomo sorrise. “I miei
genitori sono babbani. Io ci sono praticamente cresciuto qui e adoro
questo
posto. Adoro i parchi di Londra, secondo me sono un piccolo pezzetto di
paradiso in mezzo al caos della città.”
“I tuoi sono babbani?”
domandò Victoria, dopo aver mandato giù un
boccone. Sicuramente i due avevano
avuto una vita diversa ma Francis Collins non sembrava cresciuto
affatto male.
“Già, mia madre lavorava in
una profumeria, prima di andare in pensione mentre mio padre
è un poliziotto,
l’equivalente babbano di un Auror, più o
meno”
“Quindi è lui che ti
ha…ispirato?” Victoria cercò bene
l’ultima parola, non voleva sembrare
un’impicciona ma quel tipo la incuriosiva.
“Credo che il senso di
giustizia circola nel nostro DNA. Anche i miei nipoti avevano scelto
questa
strada.”
“Oh, hai dei nipoti?”
Nipoti? Beh di certo non poteva essere nonno, anche se si vedeva che
era
parecchio più grande di lei, quindi dovevano trattarsi per
forza di figli di un
qualche fratello o sorella.
Come se avesse letto nella
sua mente, Francis specificò “Ho due sorelle, o
meglio avevo due sorelle
maggiori: Susan e Mary” poi la sua voce si
abbassò, così come il suo sguardo,
mentre si torturava le mani “Mary è stata uccisa
lo scorso Agosto, insieme a
tutta la sua famiglia e alla famiglia del marito. Otto persone
massacrate come
bestie.” L’ultima frase la disse con una nota di
disgusto.
Victoria aprì un piccolo
cassetto della sua memoria. Ovviamente si ricordava del giorno in cui,
quasi un
anno prima, era stata distrutta la famiglia McKinnon. Era una delle
famiglie
magiche più antiche e potenti, anche se non purosangue.
“E Susan?” chiese lei,
cercando di portare la conversazione su qualcosa di più
leggero.
“Lei lavora al San Mungo,
per questo ero lì l’altra volta. Insegna
all’Accademia di Medimagia.”
“Davvero? Io inizierò a
frequentarla a Settembre!” trillò Victoria senza
pensarci. Solo dopo
materializzò che poteva essere sembrata una ragazzina
eccitata.
“Vuoi diventare
Guaritrice?” domandò lui ancora divertito dal
comportamento della mora lì
accanto.
Lei annuì, ancora un po’
imbarazzata di aver scelto di rimettersi a studiare a quel punto della
sua vita
ma la reazione di Francis la stupì.
“La trovo una cosa molto
bella, dopotutto i nostri corpi sono fatti per guarire…anche
se molti sono
pronti a sacrificarsi, ma io sono dell’opinione che si
dovrebbe sempre avere
qualcosa per cui vale la pena morire.”
Victoria rimase senza
parole. Quello che Francis aveva detto e la sincera ammirazione che
aveva
dimostrato l’avevano lasciata interdetta.
“Ops… credo che la mia
pausa pranzo sia finita” constatò l’uomo
qualche attimo dopo aver osservato il
suo orologio.
Appena lo vide alzarsi e
scrollarsi via le briciole dai pantaloni anche Victoria fece
altrettanto ma lui
la fermò appoggiando dolcemente una mano sul braccio di lei.
“No, tu resta pure se vuoi.
È una così bella giornata che sarebbe un peccato
non passarla all’aperto.”
Francis le sorrise in quel
modo sincero e rassicurante che aveva visto tante volta. E per un
attimo in
quel sorriso rivide David. Dovette sbattere le palpebre più
volte per rendersi
conto della realtà. Che cosa le stava succedendo? Quello
davanti a lei non era
David! David era morto! L’uomo che amava era morto e lei
pensava di poterlo
sostituire con il primo che le capitava a tiro?
“Se è un problema per
tornare a casa da sola ti riaccompagno”.
I pensieri di lei vennero
interrotti dalla calda voce di Francis, preoccupato per
l’improvviso silenzio
della giovane.
La risposta gli arrivò con
un cenno distratto del capo.
“Torna pure al ministero. Io
resto ancora un po’, prima di andare al lavoro”.
“Ok…” fece lui non
propriamente convinto.
Francis fece evanescere le
cartacce del pranzo poi si infilò le mani nelle tasche dei
pantaloni color
tortora e salutò la ragazza.
“Allora io vado… buona
giornata Victoria.”
“Ciao Francis e grazie per
il pranzo. Avevi ragione, era veramente buono.”
Victoria sorrise e lui le
sorrise di rimando, prima di voltarsi. Fece qualche passo lungo il
sentiero e
poi si girò di scatto verso la giovane.
“Victoria” la chiamò e lei
alzò lo sguardo, invitandolo silenziosamente a continuare.
“Sabato sera. Alle otto.
Qui. Ti va?” domandò leggermente in imbarazzo.
La ragazza iniziò a
mordersi il labbro e torturarsi le mani.
“Ecco…io…veramente, non
saprei”.
Francis sfoggiò di nuovo il
suo rassicurante sorriso. “Non è un appuntamento.
Considerala, diciamo, una
scoperta” e le fece l’occhiolino.
L’espressione di Victoria
trasudava curiosità. Non riuscì a dare
all’uomo una risposta negativa.
Angela aveva avuto orari
completamente sballati all’ospedale ultimamente. Ormai
cominciava a pensare che
davvero il caldo estivo avesse dato alla testa a molta gente. Era un
continuo
correre di qua e di là. E in più, essendo quasi
metà luglio, qualcuno era
cominciato ad andare in ferie. Amava il suo lavoro ma non ce la faceva
proprio
più. Quella mattina era addirittura arrivata a pregare May
di scagliarle contro
una maledizione, qualcosa che le impedisse di andare a lavoro per
qualche
giorno.
Quando quella sera, dopo
che aveva fatto un turno di 13 massacranti ore, William si
presentò a casa sua
avrebbe voluto quasi strozzarlo ma cambiò idea quando le
disse “Devo parlarti”.
“Coraggio, entra” lo
invitò.
I due andarono in camera di
Angela e si sdraiarono sul tappeto che stava davanti al letto, in
memoria dei
tempi della scuola. Ad Hogwarts si sdraiavano sempre sul prato, quando
era
tempo di discorsi seri.
“Sputa il rospo”
E così le raccontò di
quando era stato da Elaine e del bacio dato senza pensarci e
dell’incontro che
aveva fatto la settimana prima.
“E vorresti insinuare
ancora che non provi niente per lei…neghi anche
l’evidenza, complimenti
Traynor!”
“Angy…”
La ragazza si tirò su e si
mise a sedere a gambe incrociate, continuando a guardare
l’amico negli occhi.
“Ascolta Will, tutto quel
rifiutare le ragazze che fai, anche a lavoro lo so che è
perché ti senti solo
più di quanto tu voglia ammettere. So che amavi Norah ma se
n’è andata, è
scappata in America con quel giocatore di Quidditch. So che fa schifo
ma questa
è la realtà.”
“Sono oltre la cosa”
affermò Will mettendosi le mani dietro la testa e chiudendo
gli occhi.
Angela gli rivolse un
sorriso intenerito. “Ma non hai superato lei vero?”
Al sospiro dell’amico capì
di aver fatto centro. “Hai detto che hai smesso di scriverle
lettere pregandola
di tornare ma non sei andato avanti, hai messo la tua vita in pausa
nella
speranza che lei torni ma probabilmente non lo farà, non
tornerà mai.”
“Lo so” sospirò di nuovo
Will “ma non rende di certo le cose più
facili.”
Restarono un po’ in
silenzio poi William prese un bel respiro e si alzò.
“Ti lascio riposare.”
“Guarda che puoi restare se
vuoi”
“No, meglio che torno a
casa” poi Will tirò fuori il suo solito smagliante
sorriso, quello che
incantava metà del suo ufficio e aggiunse “Quanto
le devo per la seduta di
psicanalisi, dottoressa Angela Freud?”
L’amica stette al gioco e
mise su una faccia concentrata e pensierosa. “Vediamo, siamo
ben oltre il mio
orario di ufficio quindi…”
Non riuscì a finire la
frase perché il ragazzo iniziò a farle il
solletico chiedendole se le bastava
come paga. Risero un po’ ed infine William si decise a
tornarsene a casa.
Salutandola le diede un
leggero bacio sulla fronte “Grazie sorellina” disse.
“Non chiamarmi sorellina,
si dà il caso che ho qualche mese in più di
te” protestò Angy.
“D’accordo…” fece mentre
usciva “…vecchietta” aggiunse ridendo.
Era una settimana davvero
calda. Tutta Londra in pratica boccheggiava a causa dell’afa.
Freya aveva
spalancato tutte le finestre dell’appartamento nella vana
speranza che
circolasse un po’ di aria. Quel pomeriggio sarebbe uscita di
nuovo con
Sebastian, il quale aveva preso un permesso dal lavoro per poter
trascorrere
insieme l’unico giorno libero di lei. Aveva deciso di
concedere un’altra
occasione a quel ragazzo e a se stessa.
Il ragazzo non le aveva
detto dove sarebbero andati, le aveva semplicemente suggerito di
mettersi un
costume da bagno.
Alle tre in punto Sebastian
bussò a casa sua.
“Pronta ad andare?” le
chiese appena aprì.
“Ad andare dove?” chiese
Freya curiosa.
Il ragazzo le offrì il
proprio braccio e lei infilò un braccio sotto a quello di
lui, mentre con l’altra
mano teneva la sua borsa.
Un momento dopo si
ritrovarono in una spiaggetta ai piedi di una bianca scogliera, con un
delicato
vento che faceva rumore soffiando tra le canne. Il vento era
l’unica cosa che,
insieme alle onde, faceva rumore in quella calda giornata estiva.
“Ti piace?”
“E’ molto…tranquillo.”
Sebastian annuì, con un
colpo di bacchetta trasfigurò due sassi in una grande telo
da mettere sulla
sabbia. Si sedette e iniziò a spogliarsi in tutta
tranquillità, come se non ci
fosse nessuno a guardarlo. E invece c’era qualcuno a
guardarlo, due occhi scuri
lo guardavano attentamente.
“Coraggio, spogliati” le
disse
“Lo dici ad ogni ragazza?”
iniziò a ridacchiare Freya.
La ragazza si tolse
velocemente i pantaloncini e la canottiera che indossava. Sperava di
non essere
diventata rossa in seguito alle occhiate voraci che Sebastian le stava
riservando.
Quando alzò di nuovo lo
sguardo lui la stava guardando, ma si era spostato sulla battigia, con
i piedi
immersi nell’acqua. Freya lo raggiunse, ma appena i suoi
piedi toccarono l’acqua
rabbrividì.
“È gelida!”
“Che ti aspettavi? Non
siamo mica ai Caraibi!”
Sebastian si tuffò
tranquillamente, ma era talmente vicino alla ragazza da schizzarla.
Freya cercò
di scansarsi e solo lentamente lui riuscì a portarla dove
l’acqua era più alta,
per farle fare il bagno.
Dopo una mezz’ora erano
distesi sul telo, erano entrambi girati su un fianco e si guardavano.
Mentre
chiacchieravano Sebastian le accarezzò una mano e piano
piano si avvicinò per
baciarla.
Freya si scansò in modo
impercettibile, cosa che bastò al ragazzo per desistere.
“Scusa, forse non dovevo…”
“No, scusami tu…” disse
mesta la ragazza. “Io…non so se sono ancora
pronta”
Il ragazzo le accarezzò il
viso con una mano. “Aspetterò ok? Ti
aspetterò fino a che ce ne sarà
bisogno.”
Ormai Luglio si stava
avvicinando alla fine. Era stato un periodo particolarmente intenso dal
punto
di vista lavorativo ma fortunatamente costellato da vite salvate
più che da
morti. E finalmente cominciava di nuovo a provare un certo senso di
soddisfazione
nel salvare quelle vite.
Quella era stata la prima
giornata trascorsa in modo tranquillo. Era una cosa alquanto sospetta.
C’era da
preoccuparsi di più quando tutto era tranquillo, rispetto a
quando era
incasinato. I guai sono sempre dietro l’angolo.
Il suo guaio personale l’attese
quella sera sul pianerottolo di casa sua. Una figura femminile se ne
stava
seduta per terra, con le ginocchia rannicchiate al petto.
Alzò la testa
spaventata quando sentì il rumore di passi lungo le scale.
“Naomi!” la chiamò May
appena la vide.
Si avvicinò di corsa e le
si inginocchiò davanti. “Naomi, che è
successo?”
Sua sorella la abbracciò e
iniziò a singhiozzare rumorosamente. May accarezzava i
capelli della sua
sorellina, erano biondi e scompigliati come i suoi.
Quando la ragazza si calmò
May la fece sciolse l’abbraccio e le aprì la porta
di casa. Naomi Higgins-Clark
si sedette sul divano. Pochi attimi dopo May uscì dalla
cucina con un barattolo
di gelato e due cucchiaini, offrì un cucchiaino alla sorella
e si accomodò
accanto a lei.
“Allora vuoi dirmi che è
successo?”
Naomi prese un bel respiro
e sputò fuori la verità. “Sono
incinta” e ricominciò a piangere.
“Tesoro….l’hai detto ad
Andrew? Perché è di Andrew, vero?”
chiese May riferendosi al ragazzo che la
sorella frequentava da quasi sei mesi.
Naomi iniziò a scuotere la
testa “Andrew non vuole saperne niente”.
Che
stronzo,
pensò Maysilee.
“May che devo fare? Ho 18
anni, mi sono appena diplomata, volevo fare un sacco di
cose…” pianse prima di
infilarsi un cucchiaino di gelato in bocca.
Anche l’altra aveva un
cucchiaino in bocca, ma ormai aveva mandato giù il gelato e
teneva il
cucchiaino fermo solo con la bocca, con l’impugnatura che le
toccava il naso.
“Devi dirlo a mamma e papà…”
rifletté.
“Come faccio a dirglielo? Oddio,
sarò la loro delusione. Sono una delusione!” si
disperò.
May la guardò torva
togliendosi il cucchiaino dalla bocca e puntandolo addosso alla
sorella. “Tu
non sei una delusione, chiaro?”
Naomi si sforzò di
sorridere, anche se poco convinta. “E se mi cacciano di
casa?”
“Stai qui” rispose l’altra
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Passarono il resto della
serata così e fu esattamente così che le
trovò Freya quando rientrò a notte
fonda. Appena notò il barattolo di gelato capì
che c’era qualcosa che non
andava.
“Chi dobbiamo odiare
stavolta?” chiese avvicinandosi al divano.
“Uno stronzo” replicarono
in coro le due sorelle.
“Ah, Naomi si fermerà con
noi per qualche giorno” aggiunse May.
Freya fregò il cucchiaino
dalla mano dell’amica e arraffò un po’
di gelato. “Benvenuta a casa allora”
sorrise alla più giovane prima di accomodarsi anche lei sul
divano.
Edward era steso sul suo
letto ad occhi sbarrati, nonostante fosse piena notte. Erano parecchie
le volte
che si svegliava nel cuore della notte ultimamente e si arrovellava
pensando a
quello che era successo all’udienza. I Magiavvocati di Magnus
Saintclare, suo
cognato, avevano intenzione di dichiarare che il loro assistito aveva
agito
sotto maledizione Imperius. Se il Wizengamot avesse preso quelle parole
per
vere avrebbero potuto anche decidere di liberarlo e a quel punto
sarebbe
tornato a devastare la sua famiglia. Doveva assolutamente fare qualcosa.
Buonasera!
Non ho molti commenti da
fare tranne che, purtroppo per voi, ho toccato nuove vette di lunghezza
per
quanto riguarda i capitoli!
Spero che vi sia piaciuto
Alla prossima
H.