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Autore: Adeia Di Elferas    20/09/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La mattina del 12 giugno, il Vaticano era come paralizzato dall'attesa di quello che sarebbe stato secondo molti l'evento mondano dell'anno.

Juan Borja, il Duca di Gandia, era stato scelto per andare a prelevare la sposa, perfettamente preparata dalle sue dame di compagnia e dall'onnipresente Adriana Mila, affinché attendesse il grande momento nelle stanze interne degli appartamenti papali.

Il più bello dei figli del papa, nello splendore dei suoi diciassette anni, vestiva in modo sfarzoso e appariscente. Aveva scelto un abito in panno d'oro, una turchesca in stile francese, tanto lunga da toccare terra, con le maniche del giubbone ornate di perle enormi, tanto grandi da far sfigurare quelle che componevano la collana assieme ai rubini. Sul berretto, poi, aveva appuntato un gioiello raggiante, tanto luccicante da far voltare più di un cortigiano al suo passaggio.

Cinquantamila ducati, ecco quanto era costato quell'abito. Nessun uomo assennato avrebbe osato spendere tanto, per il matrimonio di una sorella.

Quando la cerimonia stava per cominciare, le donne più nobili e ricche che gravitavano attorno alla vita del Vaticano entrarono nell'Appartamento Borja chiacchierando concitatamente e qualcuna di loro non si ricordo neppure di inchinarsi dinnanzi al papa, tanto l'attenzione di tutte era incentrata sui pettegolezzi e sull'eccitazione del momento.

Alessandro VI non se la prese troppo, per quell'infrazione dell'etichetta. Quello che voleva era dare a sua figlia un matrimonio che tutti si sarebbero ricordati ed era esattamente il tipo di cerimonia che si stava apparecchiando dinnanzi ai suoi occhi.

Quando finalmente arrivò lo sposo, i presenti non si ammutolirono, anzi, il cicaleccio si amplificò, coprendo anche il commento a mezza bocca dell'ambasciatore mantovano, che aveva riconosciuto la collana al collo dello sposo come quella: “Del mio signore, Francesco Gonzaga, lo posso giurare...”

Giovanni indossava una turchesca molto simile a quella del futuro cognato, seppur meno ornata e meno costosa, e il suo unico monile di pregio era proprio la collana avuta in prestito da Mantova.

Mentre lo Sforza si sistemava davanti all'altare, in impaziente attesa della suo prossima sposa, da una porticina laterale fecero il loro ingresso, in ostentata sordina, i due figli maggiori del papa.

Juan, col il suo abito impareggiabile, guardava con un sorrisetto il pubblico, felice di farsi rimirare e di attirare gli sguardi invidiosi degli altri giovani della corte. C'era un che di estremamente spaccone e pacchiano nel suo atteggiarsi e nel suo mettere in mostra la ricchezza ottenuta per pura fortuna di nascita.

Cesare, invece, si sentiva a disagio, con il suo abito vescovile, così semplice e impersonale, benché rifinito con le sete più raffinate e ricercate della terra.

Negli occhi di Cesare non si leggeva la volgare soddisfazione che illuminava quelli del fratello. In lui ardeva una fiamma scura di risentimento e insoddisfazione e sapere che quel giorno sua sorella Lucrecia sarebbe andata in sposa a Giovanni Sforza non poteva fare altro che acuire il suo patimento.

L'aria dell'ambiente si stava facendo sempre più calda e pesante per via del grande assembramento di persone, dai cortigiani, alle più alte cariche militari e civili dello Stato Pontificio.

Quando venne annunciata la sposa, tutte le teste si voltarono verso l'ingresso e Lucrecia poté fare il suo ingresso trionfale.

Camminava in modo tanto leggero da sembrare immobile. Il suo abito finissimo e impreziosito da pietre e gioielli, ne avvolgeva il profilo facendola apparire ancora più giovane e delicata di quanto non fosse in realtà.

Una serva dalla pelle color dell'ebano le portava lo strascico lunghissimo, come la moda imponeva, e al fianco della sposa spiccava la bella Giulia da una parte e Lella Orsini, cognata della Farnese, dall'altra.

A chiudere il piccolo corteo che si avvicinava inesorabile a Giovanni Sforza c'erano Battistina, nipote di Innocenzo VIII e altre nobili di famiglie minori, scortate a loro volta da servidorame di colore.

In tutto l'appartamento Borja, il vociare era assordante. Ogni stanza era stipata di persone e gli ultimi arrivati dovevano accontentarsi di qualche angolino di fortuna vicino alle porte. Tutti sgomitavano e allungavano il collo per poter vedere almeno di sfuggita la sposa con il suo codazzo di dame.

Davanti agli occhi gongolanti di Ascanio Sforza, Lucrecia affiancò Giovanni, l'uomo per lei scelto da suo padre Rodrigo, ed entrambi gli sposi si inginocchiarono sui cuscini d'oro posti dinnanzi ad Alessandro VI.

Venne il momento del notaio Beneimbene, uomo di fiducia di Rodrigo Borja, scelto ad hoc per quell'occasione. Fece con solennità le domande di rito ai due sposi, mentre il silenzio calava sui presenti desiderosi di sentire le voci dei due sposi.

“Voglio e di buona voglia.” assicurò Giovanni Sforza, il collo e le guance imporporati e un crampo allo stomaco.

“Voglio.” disse piano Lucrecia, con un filo di voce.

A quel punto Niccolò Orsini, il Conte di Pitigliano, sollevò la spada sopra alle teste di Giovanni e Lucrecia, mentre il Vescovo di Concordia infilava loro gli anelli, mentre teneva un breve discorso incentrato sulla santità e sull'importanza del vincolo matrimoniale.

Se a quelle parole, Giovanni, che era vedovo, non riusciva ad alzare gli occhi sulla sua nuova sposa, Lucrecia non appariva tanto imbarazzata, quanto desiderosa di chiudere con le formalità e cominciare con la festa che era stata organizzata per loro.

Senza lasciare agli sposi nemmeno il tempo di scambiarsi una parola, gli invitati li trascinarono ad assistere alla prima delle rappresentazioni decise dal cerimoniere di corte. Si trattava dei Menecmi di Plauto e vennero recitato strettamente in latino.

Rodrigo Borja, dopo appena qualche scena, vedendo sbadigliare tanto Giulia Farnese quanto Adriana Mila, decise di interrompere quella annunciata tragedia e ordinò che si proseguisse con il prossimo punto: un'ecloga composta da Serafino Aquilano in onore di Lucrecia e Giovanni.

La festa pubblica durò fino a sera, con grandi lazzi e risate grasse, del tutto fuori luogo in quelle sale decorate con temi sacri, ma tanto graditi da Rodrigo e da tutti i suoi parenti.

La parte interessante, tanto per i pettegoli, quanto per i protagonisti, arrivò a sera. Il papa aveva infatti deciso di indire un banchetto intimo, con pochi e selezionatissimi ospiti, ed era quella la vera attrazione di quel matrimonio.

Mentre il cielo di Roma imbruniva e il ponentino profumava la città con un sentore di mare e di pini, l'aula pontificia, magnificamente addobbata, si colorava grazie agli abiti sgargianti delle grandi dame del Vaticano: Giulia Farnese, Lella Orsini, Battistina e la madre Teodorina Cybo, la sempre presente Adriana Mila.

E poi gli uomini, la maggior parte dei quali in abito talare: il trionfante Ascanio Sforza, il Sanseverino, i fratelli Colonna, Niccolò Orsini, un Borja di recente fatto Cardinale da Rodrigo e, soprattutto, i fratelli della sposa.

Lucrecia e Giovanni furono impegnati per tutta la cena a parlare con le dame e i gentiluomini seduti accanto a loro e vennero distratti più di una volta dalle battute di spirito – spesso ricche di doppi sensi – che il papa e i commensali si scambiavano con aria gioviale.

Finite le portate, i servi si organizzarono in fretta per mostrare alla tavolata tutti i doni di nozze giunti da ogni angolo d'Italia. Tra quelli più memorabili, c'erano quelli fatti dagli Sforza. Milano aveva infatti mandato del broccato, di quello che era ormai famoso in tutto il mondo, e due anelli pregiatissimi. Ascanio, a titolo personale, aveva aggiunto un servizio da tavola d'argento massiccio. Un dono forse molto borghese, ma che la sposa parve gradire in modo particolare.

Dopo la passerella di regali, i commensali indugiarono ancora in dolci e vini e ognuno si adoperava per raccontare le storie più divertenti e succulente.

Senza sapere chi aveva cominciato – seppur il cucchiaino nella mano di Rodrigo la diceva lunga – un confetto venne lanciato in aria, verso Giulia Farnese e in un lampo quasi tutti i presenti stavano alimentando quella guerra di confetti, lanciandosene di continuo e gli uomini avevano come massimo bersaglio la scollatura degli abiti delle dame, primo tra tutti quello della bella Giulia.

Perfino Ascanio Sforza si rivelò essere un gran tiratore e spesso faceva partire le sue munizioni in contemporanea col papa, per mettere in difficoltà ora la Farnese ora la Mila.

Lucrecia rideva fino alle lacrime, assecondando quella puerile e sciocca manifestazione di convivialità e Giovanni cercava di assecondare la corrente come meglio riusciva. Fece partire pochi confetti, in realtà, ma fece mostra di non prendersela quando il bersaglio diventava lui, soprattutto se era la moglie a prenderlo di mira.

Juan era tra i più prodighi di confetti e a volte gli mancava il fiato per quanto rideva, così beveva ancora un po' e si ricomponeva per poi tornare subito all'attacco.

Solo Cesare sembrava seriamente scocciato da quel gioco. L'alterigia dei suoi occhi distanti non intaccava il buon umore di nessuno, ma incuteva in Giovanni un po' di timore. Ogni volta che il cognato gli tirava un confetto, infatti, lo faceva con una certa cattiveria che lo Sforza tentava di attribuire alla concitazione del gioco e a nient'altro. E così faceva passare sotto silenzio quella che a chiunque sarebbe apparsa come cieca e furibonda gelosia.

Quasi ad alba fatta, finalmente il crocicchio si sciolse. Giovanni cominciava a sentirsi agitato e la stanchezza dovuta alle ore di festeggiamenti lo tradiva di continuo, facendolo sbadigliare nei momenti meno opportuni.

Mentre usciva dall'aula, fiancheggiato dal papa, ebbe l'ardire di chiedere quando la sua sposa lo avrebbe raggiunto nelle sue stanze. Era stato più il vino, che non il desiderio a farlo parlare, ma la risposta del papa lo fece fermare comunque sui due piedi.

“Suvvia, Giovanni – gli disse Rodrigo, battendogli una mano sulla schiena – ci sarà tempo per quello. Lucrecia è ancora una bambina, non dovete avere fretta.”

“Ma...” prese a dire lo Sforza, che in realtà si sentiva quasi sollevato dall'essere esonerato da una simile responsabilità, almeno per quella notte.

Rodrigo si passò la lingua sulle labbra e, con uno sguardo involontario verso Cesare, che stava parlottando con Lucrecia, probabilmente per dire le stesse cose che ora lui stava dicendo a Giovanni, concluse: “Non abbiate paura, Sforza, non vedeteci nulla di strano. Abbiamo deciso così solo in riguardo alla natura acerba di mia figlia. Non crederete che aspettiamo solo per poter sciogliere il matrimonio in caso di necessità, vero?”

Il signore di Pesaro scosse subito il capo, temendo di poter scatenare un incidente diplomatico: “Assolutamente no, no, certo che no.”

“E allora!” esclamò Rodrigo, con una seconda, poderosa, pacca sulla schiena del giovane: “Andate a riposare! Avrete tempo tempo per conoscervi...!”

Giovanni incassò e si esibì in un timido sorriso, mentre il papa passava a chiacchierare con Ascanio Sforza, ringraziandolo sentitamente per il regalo fatto a Lucrecia: “Siete sempre un uomo pratico, voi!”

 

'Se proprio non intendete appoggiarmi, come sostiene il mio caro ambasciatore Sfrondati, che per altro vi prego di trattare con maggior riguardo in futuro, almeno spero che vogliate appoggiare Carlo di Francia.' aveva scritto Ludovico il Moro: 'Non fate nulla per parteggiare per Napoli, giacché, nipote mia, vi posso assicurare che Napoli non vincerà. Siate assennata e seguite anche il volere del Santo Padre, padrino di vostro figlio, il Conte Ottaviano, e parteggiate per noi, non mai con Ferrante.'

Caterina aveva notato con una certa soddisfazione come le parti di prammatica quali l'intestazione e i convenevoli fossero stati scritti da una calligrafia molto compunta e ordinata, probabilmente di uno scribacchino o del cancelliere di Ludovico, mentre il corpo del testo era stato scarabocchiato dalla mano grande e grossolana del Moro.

Significava che ci teneva particolarmente e che cominciava ad avere paura.

Anche se Ludovico aveva fatto cercato di prendere in giro Napoli, rispondendo all'ultimatum di Ferrante con mille promesse, la realtà era che giugno stava per finire e che il Moro non accennava a lasciare il trono a suo nipote Gian Galeazzo. La guerra era ormai annunciata e il milanese si stava rendendo conto troppo tardi che Ottaviano non era per lui un alleato né affidabile né di valore.

Seguendo il consiglio di Giacomo, che aveva insistito continuamente affinché Caterina guardasse con maggior simpatia il fronte napoletano e fiorentino, la Contessa aveva in effetti scritto qualcosa di vago ad Alfonso d'Aragona, preferendolo al padre perché secondo lei più incline a essere schietto e sbrigativo nella diplomazia. Ferrante l'avrebbe ricoperta di pomposità e promesse, mentre lei voleva saggiare quanto davvero i partenopei potessero offrirle.

Per il momento l'erede al trono le aveva risposto con la stessa vaghezza con cui lei aveva domandato, ma sembrava che in effetti ci fossero buone probabilità di un'alleanza vantaggiosa per entrambi, anche se Caterina restava cauta.

Le sue città erano piccole e se era vero che la rocca di Ravaldino – e forse quella di Imola – poteva resistere a un lungo assedio, altrettanto non lo si poteva dire per i quartieri abitati. Anche chiudendo tutte le porte, le città alla fine sarebbero state prese, o per incursione o per fame.

Doveva essere del tutto sicura dell'appoggio incondizionato dell'esercito napoletano, prima di accettare formalmente un patto.

Così quando il Moro le aveva fatto recapitare la lettera in cui la esortava a non seguire la frangia napoletana, ma piuttosto quella francese, Caterina aveva potuto scrivere nella risposta: 'Con Napoli ho già dovuto intrattenere qualche pratica volgare, di poco conto, essendo stata lasciata sola per mesi e anni – calcò particolarmente quell'ultima parte, sperando che suo zio cogliesse appieno l'allusione al suo mancato invito a Ferrara – e quindi ho dovuto prestare orecchio a qualche proposta a forza, pur non volendo.'

Prima di chiudere la missiva, la Contessa ci aveva pensato a lungo e poi aveva ceduto e aveva aggiunto: 'Per quanto concerne il vostro ambasciatore, lo tratto come tutti gli altri. Egli, piuttosto, e me fece gran scortesia, facendo uscire mio figlio Ottaviano da Forlì senza interpellarmi ed esponendolo inutilmente al pericolo d'un viaggio.'

 

Ludovico e Beatrice erano entrambi in silenzio, assorti nei loro pensieri, mentre il piccolo Massimiliano, di pochi mesi, dormiva nella culla sistemata dalle balie nel centro del salottino.

“Dovresti farlo.” concluse la giovane, all'improvviso, facendo quasi sobbalzare il marito.

Egli fece un respiro profondo e si sporse verso di lei, facendo cigolare l'intelaiatura in legno del divanetto: “Carlo non lo vedrà come un affronto?”

Beatrice sporse in fuori le labbra a cuore e le sue guance paffute si tesero, mentre soffiava fuori l'aria. Effettivamente era rischioso, ma il sasso era stato lanciato e il tempo scorreva. A quel punto tirarsi indietro sarebbe stato semplicemente folle.

“Non vedo che motivazioni potrebbe addurre, per un suo eventuale risentimento.” disse Beatrice, alzandosi per andare a vedere il figlio nella culla: “Tua nipote Bianca Maria in fondo non è così importante da essere contesa dall'Impero e dalla Francia. Lascia che si sposi con Massimiliano e guadagniamoci sopra il più possibile.”

Ludovico, che dopo tutto sperava in quella risoluzione da parte della moglie, si alzò e la si avvicinò. Le appoggiò una mano sul fianco e si chinò per poter avere il viso all'altezza di quella della moglie. Quando lei si voltò un po', lui le diede un leggero bacio sulle labbra e poi si misero entrambi a guardare il loro primo figlio, chiamato proprio come quel Massimiliano che li stava facendo arrovellare da giorni.

“Meglio avere un piede anche nell'Impero.” constatò Beatrice, in un soffio, mentre con una mano grassoccia accarezzava lentamente la guanciotta tiepida del figlio.

Il Moro annuì silenziosamente e poi concluse: “Domani dirò al mio cancelliere di rispondere subito, allora, in modo da fissare una data certa per il matrimonio tra Massimiliano e mia nipote.”

Beatrice sorrise, orgogliosa del marito, che stava facendo sì che il Ducato fosse loro e di nessun altro, e dopo un un'ultima carezza al bambino, chiamò le balie, per poter passare il resto della notte da sola con il suo brillante, prepotente e impareggiabile Ludovico, il Duca di Milano de facto.

 
   
 
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