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Autore: nettie    21/09/2016    1 recensioni
Alzò il capo e mi guardò con quei due grandi occhioni vispi che raccontavano la Primavera.
《 Li vedi questi libri? Saranno i nostri fiori quando fuori è Inverno. 》
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Quando ebbi per la prima volta un contatto con Margherita, era una fresca primavera e il vento mi carezzava il volto. Il cielo era terso, privo di nuvole, e il sole mi baciava il capo. Tenevo in mano un mazzo di piccole margherite dai petali fini, dalle sembianze così delicate, e sedevo a terra, in un angolo di quel giardino grande che mi accoglieva puntualmente ogni pomeriggio. Le fissavo, e in silenzio sfioravo piano i petali candidi con i polpastrelli delle dita, come se volessi carezzarli. Mi divertivo ad osservare ogni tipo di pianta ci fosse in quel giardino, a prendere mazzi interi di bellissimi fiori per contemplarli tutti ed inebriarmi i polmoni del loro dolce profumo. Probabilmente lei mi vide e mi venne incontro, perché quando alzai lo sguardo mi ritrovai le sue gambine magre che spuntavano da sotto una veste davanti il muso.

Indossava il mio stesso camice, ed eravamo così diversi e così simili da far quasi soggezione. Salii con lo sguardo percorrendo centimetro dopo centimetro tutta la sua figura, fino ad arrivare a posare gli occhi su quel viso d'angelo dalle labbra come petali di rosa. Affogai poi i miei occhi scuri nei suoi, dello stesso colore del cielo che vegliava entrambi dall'alto. Ne fui colpito tanto da perdermici dentro, ignorando lo scorrere dei secondi e le mie mani che avevano iniziato a formicolare piano, facendomi perdere la percezione delle dita e dei palmi. Lei mi parlò, e fu allora che udii forse il suono più bello mai udito in tutta la mia vita. Mi salutò e basta, un semplice saluto che seppe catturarmi all’istante. Mi si gelò il cuore e il sangue nelle vene, perché non potevo dare una risposta a quel saluto tanto gentile; non potevo complimentarmi con lei per la sua voce tanto melodiosa e femminile. Per la prima volta in vita mia, iniziai ad avere un magone giù nello stomaco che quasi bloccava il respiro: avevo paura di risultare scortese, e d'allontanare l'unica persona che mi si era avvicinata per la prima volta dopo anni di solitudine. Neanche provai a schiudere le labbra, tant'era lo scoraggiamento in me. Rimasi muto come lo ero sempre stato,  Inizialmente, mi mostrai diffidente e distaccato nei suoi confronti, forse per troppo tempo. Abbassai lo sguardo, perché sostenere quei due occhioni grandi e chiari era per la mia anima fragile troppo difficile. Lei sembrò non far caso al silenzio che ricevette in cambio al suo saluto e si mise di fianco a me, seduta con le ginocchia al petto. I ricci rossi brillavano sotto i raggi del sole, le scendevano lungo tutta la schiena e lungo tutte le spalle, formavano piccole spirali e boccoli che seguivano la linea della sua spina dorsale.

Io mi morsi appena il labbro, mentre le mani continuavano a carezzare piano quei fiori dai delicati petali. Dito dopo dito, petalo dopo petalo, facendo attenzione a non sfregiare quei piccoli fiori che in tutta la loro bellezza sapevano donarmi un senso di serenità e pace quasi idilliaco.

Lei portò una mano al suolo e ne colse uno dai petali bianchi, stringendo lo stelo fra il pollice e l’indice. La guardavo con la coda dell'occhio nella speranza di non farmi notare, e più i miei occhi percorrevano le linee nelle quali si snodava il suo volto, più il mio cuore rimaneva affascinato ed estasiato.

 

《 Sono belli, vero? 》

 

Disse ancora, forse nella speranza di poter intrattenere un discorso con me. La sua voce era fievole e calma, pacata, aveva un timbro caldo che nascondeva una vena di vergogna e timidezza. Ci fu un lungo silenzio fra noi due, e io, a disagio, non alzai mai lo sguardo per tutto quel lasso di tempo. Sentivo le gambe tremare e il fiato s’era spezzato, bloccato nel petto a metà percorso. Poi, le sue parole mi spiazzarono.

 

《 Sei muto? 》

 

Non ho idea se lo stesse dicendo per scherzare, o se lo stesse dicendo per schiaffarmi in faccia una realtà che odiavo con tutto me stesso. Mi voltai verso di lei, e i miei occhi scuri come il petrolio incontrarono i suoi color del cielo primaverile; mi ipnotizzarono ancora una volta. Sulle sue labbra rosee era dipinto un sorrisetto sornione, un sorrisetto da schiaffi, che sparì immediatamente dopo aver incontrato i miei occhi scossi e allarmati. Annuii piano con un movimento del capo quasi impercettibile, e lei mi guardò più intensamente, con quei due occhioni che tanto mi colpivano. In realtà, non sapevo se fossi muto o meno. Non ci avevo neanche mai pensato, e non ero neanche sicuro del vero significato. Non avevo mai aperto bocca in vita mia, era certo, e non sapevo quale e come fosse il suono della mia voce ... ma per me, non era mai stato un problema. L’unica cosa che sapevo era che la mia patologia si poteva riassumere in una parola: solitudine. Quella maledetta che per il più delle volte si mascherava da amica, quella maledetta dalle quali braccia mi lasciavo coccolare. Scossi leggermente la testa annuendo per puro istinto, tanto per darle una risposta. Non disse niente, forse rimase in silenzio per rispetto, o forse semplicemente perché non sapeva cosa dire. Per me non fu un gran problema, anzi, me ne tornai sulle mie a sguardo basso, e continuai a badare ai miei fiori stretti nel pugno. Il mio cuore nonostante tutto batteva all'impazzata nella cassa toracica, avevo paura potesse esplodere tanto quella domanda m'aveva reso agitato e nervoso. Le sue manine così piccole e delicate raggiunsero le mie, e con una dolcezza inaudita aprì il pugno dove tenevo stretti i piccoli fiori, e nel mazzo aggiunse il fiore che lei stessa aveva colto poco prima. Non la guardai, né feci altro. Sentii il cuore mancarmi un battito nel petto e le guance prendere fuoco, fu una sensazione tutta nuova e quasi mi vergognavo del rossore che s’era creato sulle gote. Mi lasciò chiudere nuovamente la mano, e nessuno dei due disse niente. Da sotto quel camice troppo largo per quel corpo così minuto, con la coda dell’occhio intravidi dei polsi fini e pesantemente bendati. Mi chiesi perché, ma non riuscii a darmi una risposta. Smisi di pensarci poco dopo perché non mi piaceva focalizzare la mente sui fatti privati altrui.

Rimanemmo lì in quell’angolo del giardino forse per ore intere, mentre il sole ci guardava e vegliava su di noi, posto in alto nel cielo. C’era un silenzio religioso fra noi due, un silenzio che quasi parlava, e mi piaceva. Avvertivo una sorta di elettricità nell'aria, quel qualcosa che mi rendeva partecipe di una vicina svolta, ma era ancora troppo presto per far sì che io capissi la realtà dei fatti.

Quello fu il nostro appuntamento segreto, che più di tanto segreto alla fine non era. Ogni giorno, lei riusciva a scovarmi negli angoli più remoti di quell’immensa distesa d’erba, e rimaneva con me fino al calar del sole. Leggevo il suo nome scritto sulla targhetta appesa al braccialetto che tutti in quel posto portavano, e per la prima volta provai ribrezzo verso il fatto che ci etichettassero come animali destinati al macello. Feci una smorfia, forse, ma la camuffai bene e mi chiesi come si potesse mai numerare un fiore di tale bellezza?

Tutto il pomeriggio lei era la mia ombra. Finivamo come da routine seduti su uno spicchio d’erba, con le caviglie solleticate dai fili d’erba umidi e dai petali dei fiori che entrambi amavamo tanto. Passava il tempo a raccontarmi di lei, dei suoi passatempi, di quanto amsse i propri capelli e di quanto amasse leggere. Io avrei voluto dirle che amavo anch'io la sua bellissima chioma riccia, e avrei voluto confessarle che erano pochissimi i libri letti in vita mia. E andavamo avanti così, a cogliere fiori ed intrecciarli fra loro come due bambini dall’alto dei nostri vent’anni, fino a quando il sole non ci baciava il capo con il suo ultimo raggio di luce. Lì, all’imbrunire, entrambi sentivamo chiamare i nostri nomi ad alta voce: solo in quel momento realizzavamo che era davvero l’ora di andare, e che un ennesimo giorno se ne era andato così, nel nulla. Ci alzavamo, e seguivamo l’uomo dal camice bianco e dal simpatico berretto che ci guidava di nuovo dentro quell’immenso edificio. Lei, ogni volta, prima di sparire dietro la porta della sua camera, mi salutava e m’abbracciava stretto. Sentivo le sue piccole braccia cingermi il busto ed il suo volto affondare nel mio petto. Io poggiavo il viso fra i suoi capelli e godevo del suon buon profumo come fosse l'unica cosa importante al mondo. Non potevo dirle niente e mi sanguinava il cuore, allora una volta sciolto l'abbraccio mi limitavo a sorriderle e lasciarle una carezza affettuosa sul capo: cos’altro avrei potuto fare? Quando poi vedevo la sua porta chiudersi davanti i miei occhi, sentivo la mano di Sandra afferrarmi delicatamente un polso, per invitarmi a seguirla nella stanza che da anni mi faceva da dimora. Per la prima volta, iniziai a sentirmi un animale in gabbia anche fuori la stanzetta del Dottore.

   
 
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