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Autore: Adeia Di Elferas    22/09/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Mentre Giovanni Sforza piegava più o meno di buon grado il capo alla vita in Vaticano, Alessandro VI sfruttava la sua presenza per mandarlo assieme a Juan ad accogliere i messi che arrivavano da ogni parte d'Italia, in particolare quelli che giungevano da Napoli.

Re Ferrante, trepidante d'attesa nei confronti della resa incondizionata del Moro, aveva sguinzagliato decine di spie in Vaticano ed era riuscito a scoprire che la convinzione del papa di parteggiare per Milano e la Lega poteva essere meno forte di quel che aveva fatto credere.

Da quanto i delatori avevano sentito alla corte di Alessandro VI, lo spagnolo cominciava a nutrire seri dubbi su Carlo di Francia e su quello che avrebbe fatto se fosse davvero sceso in Italia per riconquistare il trono di Napoli e Ferrante sapeva che era il momento di tirare la tonaca del pontefice, facendolo propendere finalmente in modo chiaro per la sua fazione.

In effetti, Rodrigo Borja, dopo aver messo, a suo dire, al sicuro Lucrecia, dandola una dimora sontuosa in Santa Maria in Portico e averle assicurato un matrimonio bianco e uno sposo servile e sottomesso, poteva occuparsi degli altri figli.

Se per Juan il futuro era quasi per certo già in Spagna, come marito di una cugina del re spagnolo, per Jofré il discorso era del tutto diverso.

Quando Federico, figlio di Ferrante, propose per l'ennesima volta una principessa d'Aragona, tale Sancha, figlia illegittima, ma riconosciuta, di Alfonso d'Aragona, Alessandro VI non poté più rifiutare una simile proposta.

 

Ciò che Caterina Sforza aveva scritto a suo zio Ludovico il Moro non era passato sotto silenzio e presto tanto il papa quanto i napoletani avevano cominciato a muoversi.

Anche se dalle parole che la nipote aveva scritto al reggente del Duca di Milano si poteva intuire che la donna volesse propendere per i partenopei, Rodrigo Borja non era convinto fino in fondo di quella novità. Per quel che la conosceva, la Contessa Riario non avrebbe mai voltato le spalle alla sua terra d'origine e quindi proprio non riusciva a capire cosa o chi le avesse fatto cambiare idea.

Se re Ferrante, per maggior sicurezza, aveva cominciato a mandare a ripetizione ambasciatori di ogni tipo a Forlì, Alessandro VI non era stato da meno e aveva inviato il Cardinale Sansoni Riario nelle terre della sua parente.

Parimenti, Caterina, che già ne aveva fin sopra ai capelli di tutte quelle udienze che si sentiva in dovere di concedere, aveva mandato un messo fidato a Firenze, per indagare meglio sia sula situazione della città, sia sulle intenzioni reali di Piero Medici.

Quando aveva avuto notizie dell'arrivo di Raffaele Sansoni Riario, Caterina lo aveva fatto raggiungere da una staffetta, che lo aveva scortato fino a Forlimpopoli. Per quanto in fondo la Contessa ormai si fidasse abbastanza del Cardinale, non voleva che vedesse troppe cose coi suoi occhi e quindi era d'uopo lasciarlo lontano da Forlì e dalla rocca di Ravaldino.

“Secondo me è una cosa insensata.” aveva detto Giacomo, quando Caterina aveva espresso il desiderio di andare a parlamentare in privato con Raffaele: “Noi non siamo alleati del papa e quindi non vedo perché mai tu dovresti avere un abboccamento con il suo inviato di punta. Che poi, se quello è il meglio che il papa ha a disposizione...”

Il tono di scherno che Giacomo usava puntualmente nel parlare di Raffaele non colpiva più di tanto Caterina, che reputava già da sé quell'uomo un misero fantoccio, ma feriva profondamente Ottaviano, che nel cugino del defunto padre vedeva una sorta di surrogato di figura paterna e un esempio da seguire.

Perciò quando anche quella sera a cena era stato sollevato il problema, nel sentire ancora parlare a quel modo l'amante della madre, Ottaviano aveva avuto uno scatto di rabbia, sbattendo un pugno sul tavolo e intimando: “Non osate parlare così di un mio parente!”

“Non si alza la voce a tavola.” l'aveva prontamente ripreso Caterina, del tutto disinteressata a quella diatriba tra il figlio e il marito.

Aveva deciso di far visita a Raffaele e Giacomo poteva dire quello che voleva. Il Cardinale Sansoni Riario restava un parente di Caterina e dei suoi figli e non accettare nemmeno un colloquio di qualche minuto, sarebbe stato interpretato da tutti come una scorrettezza insensata.

Così la mattina seguente, senza avvisare Giacomo, Caterina si era fatta preparare un cavallo ed era corsa a Forlimpopoli, per incontrare Raffaele.

Il Cardinale la salutò di buon grado, ma fin da subito non nascose la sua delusione nel non essere stato ospitato alla rocca di Ravaldino.

“So che è ormai là che voi fate tutti i vostri maneggi.” disse l'uomo, quando lui e la Contessa si ritirarono nella stanza del castellano, Piero Landriani.

“Ho ritenuto che fosse meglio incontrarvi qui, presso mio fratello.” ribatté Caterina, fingendo di non cogliere la tacita accusa.

Raffaele non accennava a sedersi e sembrava inquieto. La stanzetta che fungeva da stuolo a Piero era stipata di libri e ninnoli di ogni genere e il Cardinale, con la sua figura allampanata e il suo naso lungo, sembrava fuori posto in una camera tanto piccola.

Nemmeno Caterina si mise a sedere, sperando a quel modo di abbreviare il più possibile quella visita.

“Ebbene...” Raffaele la guardò di sottecchi e confessò: “Speravo di potervi incontrare assieme a vostro figlio.”

Caterina sollevò le sopracciglia: “Mi state dicendo che non direte nemmeno perché siete qui?”

Il Cardinale scosse la testa e disse, accorato: “No, deve esserci anche vostro figlio Ottaviano.”

Senza farselo ripetere, Caterina si congedò dal parente acquisito e ritornò a Forlì al galoppo. Prima di lasciare la rocca di Forlimpopoli, pur lottando con la propria riluttanza, disse a Piero che sarebbe tornata nell'arco di pochi giorni assieme a suo figlio Ottaviano e a una piccola scorta.

Il giorno seguente, Caterina fece ritorno a Forlimpopoli, come promesso, accompagnata dal figlio Ottaviano, dal Governatore Generale Feo e da qualche rappresentante della nobiltà forlivese.

Raffaele a quel punto non aveva più scuse e quando Piero Landriani organizzò per loro l'incontro nella sala grande della rocca, Caterina mandò avanti il figlio, come dimostrazione di buona volontà, mentre lei rimase in seconda fila, accanto a Giacomo.

Durante il breve viaggio che li aveva portati lì, Ottaviano e Giacomo avevano avuto modo di beccarsi a sufficienza e a frenare le loro invettive sempre più perfide era stata Caterina, che aveva ricordato loro la presenza degli altri uomini di scorta e così entrambi, l'uno per dovere filiale e l'altro per compiacere la moglie, si erano zittiti.

“Sono stato mandato qui nel vostro Stato – cominciò Raffaele, guardando attentamente il nipote e rivedendovi più che mai in modo sconcertante il viso di suo cugino Girolamo – perché il papa vuole assicurarsi che in queste terre ci siano alloggi e strutture adeguate a far sostare un esercito.”

Caterina sbatté le palpebra interessata, ma si trattenne dal fare commenti, dato che spettava a Ottaviano interagire con il Cardinale, per richiesta espressa di Raffaele.

Giacomo, invece, aveva assunto un'espressione truce, convinto che il parente della moglie fosse lì per convincerla a propendere per la Lega.

“Il Santo Padre – riprese il porporato, ora cercando nervosamente anche lo sguardo della Contessa, capendo che il desiderio di Rodrigo Borja di coinvolgere il giovane Conte era stato un errore – vuole conoscer con precisione le vostre tendenze e vi vorrebbe fedeli servi nella guerra che verrà.”

“Certo...” rispose Ottaviano, con voce sottile, mentre spostava il peso da una gamba all'altra, mostrando tutta la sua agitazione con un movimento ripetitivo e nervoso delle mani.

“E per essere fedeli servi, a chi dovremmo porgere la nostra fedeltà?” chiese Caterina, senza riuscire a trattenersi, prima che Raffaele dicesse ancora qualcosa.

Il Cardinale gonfiò il petto e per un attimo fece vibrare le labbra sottili, per poi dire: “Il papa ha capito che la causa napoletana è più santa di quella francese e perciò vi incita ad appoggiare Re Ferrante.”

Giacomo era tanto sorpreso che la bocca gli si aprì di scatto, come gli occhi, mentre sussurrava un attonito: “Oh...”

Caterina, invece, non ci vedeva chiaro. Fece un passo avanti, affiancando Ottaviano, mentre i nobili che aveva portato con sé bisbigliavano alle sue spalle chiedendosi cosa mai sarebbe accaduto.

“Ma la lega?” chiese la Contessa, a voce abbastanza bassa da farsi sentire solo da suo figlio e dal Cardinale.

Adesso era Raffaele a sembrare in difficoltà. Non era ancora riuscito a superare la soggezione che provava nei confronti di quella donna e una domanda del genere lo poneva in una situazione molto scomoda.

“Ebbene, il papa l'ha solo autorizzata, a patto che lo aiutino a difendersi in caso di pericolo. Non ha mai detto che avrebbe dato a Milano un appoggio militare.” constatò il Cardinale, stringendosi una mano nell'altra.

“Rodrigo Borja ha fatto sposare sua figlia a Giovanni Sforza.” fece notare Caterina, ignorando lo sguardo perso di suo figlio, che saettava da lei al Cardinale senza posa, confuso: “Ha stipulato un'alleanza matrimoniale con Milano.”

“Ufficialmente solo con Pesaro.” sottilizzò Raffaele, fissando Ottaviano in un patetico tentativo di riportarlo nel discorso: “Tant'è che papa Alessandro ha deciso di far sposare suo figlio Jofré con una principessa di Napoli.”

“Questa poi...” sussurrò Caterina, abbassando lo sguardo, pensierosa.

“Quindi – riprese il Cardinale, di nuovo a voce alta, affinché tutti sentissero e tutti potessero in caso di bisogno testimoniare le sua parole – sono qui a chiedervi ufficialmente per nome del Santo Padre, di allearvi in forma stabile con Napoli e difendere lo Stato Pontificio dai francesi!”

Il vociare dei nobili di Forlì si fece più intenso e finalmente Giacomo si era ripreso dal suo iniziale stupore e aveva preso il coraggio a due mani, mettendosi accanto alla moglie, per dire, con voce sicura: “È proprio quello che stiamo facendo, anche noi crediamo che Napoli sia...”

“Forlì e Imola resteranno neutrali.” lo zittì Caterina, guardando intensamente il Cardinale: “Non abbiamo intenzione di favorire apertamente né l'una né l'altra fazione e quindi le mie terre non prenderanno parte attiva a nessuna guerra.”

“Napoli ha dalla sua anche il nostro parente Giuliano.” tentò Raffaele, in extremis, mentre davanti a sé vedeva il viso del Governatore Generale passare tutti i gradi di rosso fino al viola per l'onta di essere stato messo a tacere dalla Contessa: “E Napoli ha anche gli Orsini. Virginio Orsini e sua sorella si sono schierati apertamente da tempo!”

Nel sentire il nome del suo vecchio compagno di avventura, Caterina provò un piccolo dolore nel petto. Non le aveva fatto alcun piacere sapere che gli Orsini erano scesi a patti coi Colonna e aveva reputato ancor più sconsiderata la posizione estrema di Virginio, che era stato pronto a rinnegare tutto quello che rappresentava in nome del denaro.

“E allora Milano ha i Gonzaga – ribatté la Contessa – e Ferrara e molti altri validissimi Capitani.”

Raffaele sospirò e concluse: “Dunque non vi schiererete?”

“Se lo farò, vi assicuro che sarete il primo a saperlo.” assicurò la donna, affrettandosi a chiudere il colloquio, temendo che suo marito o suo figlio potessero aggiungere ancora qualcosa di fuori luogo.

Apparentemente molto più rilassato, il Cardinale Sansoni Riario accettò di buon grado di sciogliere l'ambasceria e salutò con calore Ottaviano, chiedendogli in modo informale come andassero i suoi studi e la vita alla rocca di Ravaldino.

Caterina mandò i nobili della sua scorta e Giacomo a preparare i cavalli. Lasciò che Ottaviano si congedasse dal cugino e poi si avvicinò a Raffaele per scambiare le ultime parole in privato.

“Siete contento, ora? Non potevate dirmele ieri queste cose?” domandò, mentre l'uomo incurvava un po' le spalle, in segno di remissività.

“Il papa mi ha mandato qui perché voleva da me un segno di buona volontà.” disse Raffaele, veloce e a voce bassa, come se avesse paura di essere sentito da qualcuno: “Giuliano ha tirato troppo la corda e se io non mi faccio vedere solerte, quel poco che ho in Vaticano si disgregherà come polvere!”

Caterina alzò un sopracciglio, commiserando quell'uomo che viveva nella paura costante e si aggrappava a ogni appiglio, pur di restare nelle grazie tanto del papa quanto della propria famiglia.

Non voleva fare la sua fine.

“Ho dovuto dirvi quello che il papa mi ha ordinato di dirvi – rimarcò Raffaele – e volevo che altri sentissero, altrimenti il papa avrebbe potuto credere che io...” non concluse la frase, deglutendo rumorosamente.

“Quindi non è la vostra idea, quella di stare con Napoli?” indagò Caterina, incuriosita.

“Napoli non vincerà. Non può vincere.” constatò Raffaele: “Si tratta solo di un'illusione. La Francia, cugina, stiamo parlando della Francia e di Milano che combattono fianco a fianco contro della soldataglia... Il papa può dire quello che vuole, ma i signori della Romagna, i signori dello Stato Pontificio, sono corsi subito a Ferrara non appena Milano li ha chiamati e hanno fatto bene.”

Caterina si morse il labbro e concordò silenziosamente.

“Alleatevi con Milano.” consigliò Raffaele: “Fossi in voi non ci penserei un attimo.”

La Contessa vide con la coda dell'occhio che Giacomo era tornato indietro per annunciarle che i cavalli erano pronti e per un istante la sua mente la riportò agli infiniti discorsi che suo marito le aveva fatto e l'astio nei confronti del Moro ritornò più vivo che mai, tanto da farle dire: “No, con Milano no. Resterò neutrale.”

“Spero che ci riusciate.” annuì il Cardinale e per la prima volta Caterina notò le sue profonde occhiaie e le rughe che gli affiancavano le labbra e si chiese quando fosse invecchiato così tanto.

 

Nel caldissimo luglio del 1493 gli ambasciatori attraversavano per il lungo e per il largo la penisola italiana, sostando in quasi tutte le corti, perorando cause, lanciando minacce e facendo promesse.

A Milano era addirittura arrivato Giuliano Della Rovere in persona che, fatto forte dell'improvvisa benevolenza papale, aveva il compito di convincere Ludovico il Moro a lasciar perdere i suoi folli piani guerreschi e lasciare all'Italia qualche anno ancora di pace.

Il Cardinale Della Rovere aveva chiesto espressamente allo Sforza di mettere giudizio e di lasciare il governo una volta per tutte al nipote.

“Che diamine!” aveva esclamato, scontrandosi con i panegirici del Moro, atti a negare la sua disponibilità, seppur con garbo: “Vostro nipote è più morto che vivo! Lasciategli qualche mese il Ducato e quando sarà sottoterra vi riprenderete tutto, che vi costa!”

Ma Ludovico non sembrava incline a seguire quel pensiero, per quanto apparentemente valido e rispedì al sud il messo pontificio con un pugno di mosche, con grande soddisfazione di Beatrice Este, l'onnipresente moglie, che con brevi cenni del capo e sguardi d'intesa sembrava governare il pensiero del marito e ogni sua azione.

Anche Forlì era stata presa di mira dagli ambasciatori e tanto Milano quanto Napoli avevano inviato i loro migliori diplomatici, nella speranza di convincere la Contessa a confermare la propria benevolenza per l'uno o per l'altro signore.

Purtroppo la donna non si lasciava scappare né un gesto, né una parola o una mezza promessa e restava equidistante dalle parti, senza mai rendere noti i suoi veri pensieri.

Agli incontri ufficiali, che ormai occupavano gran parte della sua giornata, Caterina ammetteva spesso anche Ottaviano, che pure si stufava abbastanza in fretta e di norma se ne allontanava spontaneamente dopo nemmeno un paio d'ore.

A rendere tanto penose quelle occasioni, per il giovane Conte, era la costante presenza del Governatore Generale Feo, che non mancava nemmeno un appuntamento della moglie. I benpensanti vedevano quella solerzia da parte dell'uomo come un segno del suo impegno politico che, finalmente, si faceva vedere. Le malelingue, molto più numerose, sostenevano che il Feo partecipasse ossessivamente a ogni ambasceria solo perché troppo geloso della Contessa per permetterle di incontrare da sola altri uomini.

Quale che fosse la ragione reale, immancabilmente dopo ogni incontro con diplomatici stranieri a cui avevano preso parte solo la Contessa e il Governatore in assenza del Conte, gli ambasciatori che attendevano fuori dalla sala di rappresentanza sentivano i due litigare, a volte anche ferocemente.

Con le pareti spesse a dividerli, era pressoché impossibile capire quale fosse il motivo dello scontro, ma quando le porte si riaprivano, i due erano rossi in viso e spesso di pessimo umore.

La cosa che indisponeva massimamente molti dei messi milanesi e napoletani era pensare che nelle mani di quella donna, così evidentemente influenzata dal suo Governatore Generale, uomo senza arte né parte, stava il destino dell'intera penisola.

Forse, pensavano quasi tutti i legati stranieri, alla Contessa era sfuggito il dettaglio più importante di tutti, acciecata com'era dalle sue questioni personali: né Napoli né Milano si decidevano a sparare il primo colpo di colubrina solo perché non erano ancora sicuri di avere un semplice passaggio sulla via Emilia. Infatti erano stati tutti mandati a Forlì col preciso ordine di convincerla una volta per tutte, perché era quello il quid che mancava tanto a Napoli quanto a Milano per dar fuoco alle polveri.

Paradossalmente, senza il consenso della neutralissima Contessa Sforza Riario, la guerra non poteva cominciare.

 
   
 
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