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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Vaticano era tutto un subbuglio, quel 17 agosto, per le chiacchiere sempre più rumorose circa una secondo viaggio del marinaio Cristoforo Colombo, che sosteneva di aver trovato terre sconfinate da esplorare al di là del mare.

Ben pochi sapeva del contratto segreto che il papa aveva stipulato con Napoli, altrimenti la curiosità dei cortigiani sarebbe velocemente passata dal navigatore al soldo della Spagna alle nozze per procura che si sarebbero tenute proprio quel giorno tra il figlio del papa, Jofré e Sancha d'Aragona.

La giovane, di quattro anni più vecchia dello sposo dodicenne, era stata promessa fino a poco prima a Onorato Caetani e le chiacchiere che la volevano già sua amante erano giunte anche alle orecchie di Alessandro VI, che in tutta risposta aveva fatto spallucce e si era messo a ridere. Poteva soprassedere su un simile dettaglio, diceva, dato che l'Aragona portava una dote più che cospicua, ovvero il principato di Squillace e la Contea di Coriata con tutte le sue pertinenze, che da sole fruttavano ventimila ducati l'anno.

Rodrigo Borja aveva sborsato diecimila ducati per comprare i gioielli da mandare in dono alla futura nuora, ma la spesa valeva ben l'affare.

Si era deciso di tenere il contratto segreto almeno fino a Natale, più per precauzione politica che non per altri strani motivi, ma il papa voleva cautelarsi, celebrando il prima possibile quelle nozze napoletane.

Così, come da accordi, in quell'afoso giorno di agosto, Federico d'Aragona si prestò con animo lieto a interpretare la nipote Sancha, mentre lo sposo, Jofré, balbettava le sue risposte alle domande dei notai e del padre.

Per mettere a suo agio il ragazzino, Federico, che non era insensibile ai patimenti dei giovani nobili costretti a scelte non condivise, si prestò a una buffa parodia di Sancha, rispondendo a ogni formula del rito con voce in falsetto e gesti esagerati, simulando la pudicizia e la civetteria della sposa.

Jofré, dopo un primo momento di incertezza, incrociò lo sguardo del papa, che brillava divertito e così si lasciò andare e si fece più sciolto, grato al napoletano per la sua prontezza di spirito.

Finita la pantomima, Federico fece un profondo sospiro, riprendendo la sua voce e il suo normale piglio e abbracciò fraternamente Jofré. Forte della sua esuberanza, il messo partenopeo andò anche dal papa e strinse a sé pure lui, congratulandosi per la sua scelta.

Alessandro VI ricambiò i ringraziamenti, pregandolo di porgere a Ferrante i suoi più sentiti auguri per il futuro, ma la sua mente stava già lavorando ad altro.

Juan, il suo figlio più prezioso, il più bello e quello che, in barba ai dubbi e alla condizione oggettiva di secondogenito, Alessandro VI aveva innalzato a suo primo erede. Era lui ad avere ereditato il Ducato di Gandia dal fratello defunto e lui a doverne sposare la vedova e Rodrigo si faceva più inquieto, man mano che la data decisa per la partenza del figlio si avvicinava.

Juan era uno scapestrato, del tutto simile a come sarebbe stato suo padre se non fosse stato guidato dall'ambizione, che era stata in grado di mettergli un freno. Il papa temeva che il suo figlio prediletto potesse combinare guai in Spagna, e non poterlo seguire per tenergli gli occhi addosso gli faceva ribollire le viscere.

Adesso che Giovanni Sforza aveva chiesto e ottenuto il permesso di tornare per qualche tempo a Pesaro per curare i suoi affari, lasciando Lucrecia nella sua casa di Santa Maria in Portico, Rodrigo poteva permettersi di accantonare per un attimo almeno le tribolazioni interiori riguardanti la figlia e concentrarsi su Juan.

Con una pacca sulla spalla al giovane Jofré, Rodrigo si ritirò nelle sue stanze a riflettere.

 

Ottaviano Riario teneva le braccia strette al petto e le labbra sporte in fuori. Il Conte stava osservando il fratello più piccolo, Sforzino, che per il suo sesto compleanno da poco passato aveva ricevuto in regalo dalla madre una nuova spada di legno con l'elsa intarsiata che ricordava, a quanto pareva, l'arma preferita del loro bisnonno, Francesco Sforza, omonimo del festeggiato.

Il suo sguardo fisso grondava invidia e fece preoccupare subito sua sorella Bianca, che, entrando nella stanza dei giochi, cercò subito di distrarlo.

“Non esci con Galeazzo a cavallo?” chiese la ragazzina, che portava tra le braccia un libro.

Ottaviano scosse il capo e commentò, a denti stretti: “Non ne ho voglia.”

Bianca lanciò un'occhiata a Sforzino, che roteava in aria la sua nuova spada giocattolo, esclamando frasi abbastanza sconnesse che dovevano ricordare grida di guerra. Poi tornò al viso corrucciato dell'altro fratello e si chiese cosa mai gli stesse passando nella testa. Per quanto cercasse di capire Ottaviano, Bianca proprio non ci riusciva.

“Dove sono le balie?” domandò, colpita da quell'improvvisa curiosità.

Il Conte sbuffò e si ciondolò sul posto: “Non ne ho idea, credo siano con Livio...”

“E tu perché non sei con nostra madre a parlare con gli ambasciatori di Napoli?” incalzò Bianca, andando a una delle poltrone per mettersi comoda a leggere.

“Quanto domande.” fece a denti stretti Ottaviano, senza risponderle.

Bianca aprì il tomo e cercò il punto in cui era arrivata il giorno precedente e decise di lasciare suo fratello nel suo brodo. Tuttavia, voleva allontanarlo da Sforzino, perché temeva di vederlo esplodere in una delle sue scenate di gelosia.

Per Ottaviano, ogni regalo che la loro madre faceva a chiunque di loro che non fosse lui era un aperto affronto e più di una volta si era lasciato andare ad accessi incontrollati di rabbia, ma solo quando era certo che non vi fossero adulti nelle vicinanze.

Per cameratismo e amor fraterno, né Cesare né Bianca avevano mai detto nulla alla loro madre o alle balie. Galeazzo, Livio e Sforzino, che di solito erano i bersagli prediletti del giovane Conte, da quando Bernardino era stato allontanato dalla rocca, non avevano mai confessato nulla per semplice paura.

Per quanto fossero desiderosi di giustizia, infatti, conoscevano a sufficienza il fratello per sapere che Ottaviano li avrebbe puniti per la loro spiata.

“Cesare mi aveva detto che voleva raccontarti di non so cosa che è successo l'altro giorno col suo precettore – buttò lì Bianca, appigliandosi a quel provvidenziale ricordo improvviso – credo sia una delle sue solite bravate... Lo trovi nella sala dello studio.”

Ottaviano strinse i pugni lungo i fianchi. Non era uno stupido, anche se tutti sembravano esserne convinti. Perfino sua sorella lo voleva raggirare a quel modo. Come se lui non sapesse che lo stava invogliando a raggiungere Cesare solo per allontanarlo da Sforzino...

“Va bene, lo raggiungo.” disse alla fine il Conte.

Più che la voglia di rivalsa, in quel frangente, aveva vinto il desiderio di non urtarsi inutilmente con sua sorella che, in un futuro abbastanza prossimo, avrebbe potuto essere una preziosa complice.

 

L'aria di Pavia aleggiava pesante e umida sul castello del Duca di Milano. Bona di Savoia teneva le mani di Isabella d'Aragona, che era corsa da lei per darle la notizia, scavalcando anche il diritto di Gian Galeazzo di essere avvertito per primo.

“Con questo figlio – aveva detto la giovane, cercando l'appoggio della suocera che, diafana e spenta, non poteva fare altro che sorriderle con un velo di preoccupazione – mio padre sarà costretto a cominciare una guerra contro Ludovico.”

Bona avrebbe voluto smorzare l'animosità della nuora, ricordandole come la recentissima morte dell'imperatore Federico III e il profilo agitato e imperscrutabile di Carlo VIII rendessero una guerra in Italia la cosa meno desiderabile al mondo, ma non poteva che sostenerla, almeno a parole.

Isabella aveva avuto da poco la certezza di essere di nuovo incinta e riponeva nel nascituro già moltissime speranze. Era certa che con un terzo figlio in arrivo, Napoli non avrebbe più temporeggiato e l'avrebbe aiutata a strappare dalle mani del Moro il Ducato. Come un cavaliere impavido che salva la sua bella, Alfonso, nelle fantasie della Duchessa, sarebbe arrivato a cavallo di un bianco destriero e le avrebbe riconsegnato il suo trono.

“Gian Galeazzo sarà felice di saperlo.” stava dicendo Isabella, la fronte imperlata di sudore e le mani che tremavano appena: “Appena tornerà dalla caccia glielo dirò.”

“Non capisco come faccia a continuare ad andare a caccia nel suo stato...” sussurrò Bona, mentre la preoccupazione che provava per il figlio riprendeva il sopravvento: “Non si regge quasi in piedi.”

Isabella, a quel punto, lasciò le mani della suocera e si erse in tutta la sua altezza. I capelli rossi, lasciati sciolti in modo molto sfacciato – in virtù del fatto che ormai la corte pavese non esisteva più e quindi le consuetudini della moda non erano più un punto pressante della sua vita – le incorniciavano il viso che si stava facendo paonazzo.

“Mio marito non è un infermo!” sbottò Isabella, contro ogni oggettiva valutazione: “Ha giornate in cui gode di pieno benessere! A volte è un po' acciaccato, ma chi non lo è?”

Bona sospirò e, imperturbabile, annuì: “Avete ragione.”

“Mio padre arriverà fino a Milano e, quanto è vero Iddio, rovescerà quell'usurpatore di Ludovico e metterà la testa di mia cugina Beatrice su una picca!” inveì Isabella, furibonda.

Le iridi chiare di Bona la seguirono nei suoi genti convulsi, ma dalle sue labbra non uscì più nemmeno mezza parola.

Isabella lasciò la suocera sola nella stanza che le faceva da cella. Con l'ultima occhiata la vide mentre si affacciava alla finestra nella sua consueta posa malinconica.

Stavano impazzendo tutti, in quel castello. Isabella lo sentiva. Anche lei stava perdendo la ragione. Suo padre doveva sbrigarsi a marciare su Milano, o sarebbero impazziti tutti...

 

“Sono stato da Bernardino, questa mattina, tornando dalla Messa.” disse piano Giacomo, un braccio attorno alle spalle della Contessa, che, coricata al suo fianco, leggeva un libricino dalla copertina di pelle chiara.

La Messa era una delle poche cose che distoglievano Giacomo dal seguire la moglie in ogni incontro ufficiale. In linea di massima, per altro, quando lui si receva in chiesa, si accordava con la moglie in modo che lei in quel lasso di tempo non si intrattenesse con nessuno.

Senza staccare gli occhi dalla pagina, Caterina mosse appena il capo, come a dire che approvava.

“Non mi chiedi nemmeno come sta?” domandò allora il marito, rivolgendo lo sguardo alle fiammelle che danzavano sulle candele.

Solo a quel punto Caterina chiuse il volumetto che riprendeva la prima parte di un poema epico tradotto in latino, e, tenendo il segno con indice e medio, voltò il capo per guardare Giacomo: “Immagino che stia bene, altrimenti me ne avresti parlato subito, già questa mattina.”

Giacomo fece scivolare il braccio da sotto le spalle della moglie e si mise a sedere sul letto: “Oh, accidenti... A volte sei proprio impossibile.” sussurrò, con uno sbuffo.

Per un momento il Paradiso fu immerso in un silenzio pesante. In quei giorni di febbrili ambascerie straniere, marito e moglie si erano trovati continuamente ai ferri corti durante il giorno, ma poi, nel segreto della loro alcova, erano riusciti ogni volta a ritrovare la pace.

La Contessa era ben decisa a mantenere quello stato di grazia, almeno quando erano soli al Paradiso, perché in un momento del genere sapeva che non sarebbe riuscita a sopravvivere, senza un po' di distensione almeno in privato.

Si alzò dal letto, appoggiò il libro all'inginocchiatoio – usato solo dal marito, soprattutto negli ultimi tempi – e camminò fino a trovarsi davanti a Giacomo.

Caterina accarezzò con tocco lieve la tempia del giovane e poi sfiorò con la punta delle dita la sua guancia. Giacomo, che non accennava a rasserenarsi, alzò gli occhi su di lei ed espirò con forza, scansando appena il viso.

Allora la donna si chinò appena e gli diede un bacio leggero sulla fronte e a quello ne fece seguire altri, sempre più accesi e arditi e a quel punto il ragazzo non oppose più alcuna resistenza.

Nel cuore della notte, Caterina sgusciò fuori dalle coperte e si infilò la camicia da notte. Si mise alla scrivania e accese con attenzione una delle candele segnatempo.

Non era la prima volta che le capitava. In quelle notti di fine agosto non riusciva quasi mai a dormire fino a mattina. Le bastava svegliarsi per qualche motivo stupido, anche solo il verso di qualche animale selvatico oltre la finestra, e non riusciva più a chiudere occhio. Quelli erano i momenti in cui si dedicava alla rilettura e al vaglio delle lettere cifrate che arrivavano dalle sue spie.

Da quando erano stati visitati da Puccio Pucci qualche tempo addietro, i suoi delatori non facevano altro che riportare lo stesso tipo di chiacchiere. Il popolino, ma non solo, stava accrescendo la propria insofferenza nei confronti di Giacomo. In parte quel sentimento era dovuto all'atteggiamento arrogante e altezzoso del Governatore Generale, e in parte era legato alla sua evidente inutilità negli ingranaggi del governo.

La piccola nobiltà, poi, tacciava Caterina di avergli dato un ruolo di potere e ben retribuito senza che ve ne fosse un reale bisogno, dimostrando come la sua politica di tagli e risparmi nella macchina dello Stato fosse solo una grande frottola.

La Contessa rileggeva più e più volte le cifre delle spie, cercando punti in comune e differenze, notando come i più grandi oppositori di Giacomo fossero in Forlì quelli che ce l'avevano con lui perché lo vedevano sempre in giro a non combinar nulla e a Imola quelli che non l'avevano mai visto in città, se non come parte della sua scorta.

La fiamma della candela aveva già sciolto due tacche e Caterina ancora non si decideva a mollare la scrivania e tronarsene a letto. Giacomo dormiva beato, il viso disteso, come se tutte le diatribe di quel giorno non fossero mai esistite.

Caterina un po' lo invidiava.

Il grido di una civetta riecheggiò nel cielo d'agosto e il Governatore Generale si rigirò tra le lenzuola, in dormiveglia. La sua mano cercò la moglie al suo fianco e quando non la trovò, Giacomo schiuse le palpebre e la cercò con lo sguardo. Ovviamente la vide alla scrivania, con una lettera per le mani.

“Ti si rovineranno gli occhi...” bofonchiò il giovane, affondando il viso nel cuscino, respirando a fondo il profumo della creme della moglie.

Non ricevendo in risposta nessun tipo di commento, il ragazzo riemerse dal guanciale e le chiese: “Che stai leggendo?”

“Nulla.” si affrettò a rispondere Caterina, ripiegando subito il foglio e stipandolo assieme agli altri in uno dei cassettini della scrivania, chiudendolo subito a chiave. Non voleva per nessun motivo che Giacomo mettesse le mani su quelle missive. Anche se avrebbe fatto fatica, alla fine le avrebbe decifrate e quelle parole dure l'avrebbero sicuramente alterato.

Giacomo, dal canto suo, immaginava bene il motivo per cui la moglie gli nascondeva quella lettere misteriose e restò avvilito come sempre nel rendersi conto che per lei, lui non era ancora all'altezza di essere messo a parte di tutto quello che succedeva nel loro Stato.

La Contessa soffiò sulla candela segnatempo e ritornò a coricarsi. Giacomo si accoccolò al suo fianco e sospirò, felice di riaverla accanto.

Prima che il marito si riaddormentasse, Caterina gli disse: “Credo sia giunto il momento che tutti capiscano che tu da qui non te ne andrai.”

“Che intendi?” domandò l'uomo, accigliandosi appena, mentre il sonno lo lasciava.

“Voglio che tu vada a Imola a organizzare le difese.” fece Caterina, dando voce a un'idea che le era venuta in quella notte di elucubrazioni: “Ti lascerò un elenco preciso di quello che va fatto, ma dovrai comportarti come se gli ordini fossero tuoi. Fai capire a tutti che sei davvero il Governatore Generale della rocche e delle truppe. Se ti vedranno capace, finiranno per rispettarti.”

Dopo quell'annuncio, la Contessa si assopì quasi subito e fu il turno di Giacomo di non riuscire a richiudere occhio.

 

“Ti piace, eh, fare gli occhi dolci alle belle giovani?” ridacchiò Lorenzo Medici, indicando col coltello il fratello Giovanni che aveva seguito con lo sguardo una delle serve che quasi era corsa via, le guance cremisi e un sorrisetto malizioso sulle labbra.

Il Popolano più giovane allargò le braccia, mentre uno dei domestici gli metteva davanti al naso un piatto di selvaggina fumante, e si difese: “Non ho ancora ventisei anni, non sono sposato e non sono ancora morto, direi che mi è lecito guardare.”

La moglie di Lorenzo, Semiramide, sghignazzò, trovandosi d'accordo con il cognato. Giovanni la ringraziò silenziosamente e cominciò a mangiare.

I figli di Lorenzo e Semiramide non pranzavano quasi mai con loro, soprattutto perché i tre adulti spesso sfruttavano il momento del pasto per parlare delle questioni più pressanti del momento.

Infatti, anche quel giorno, dopo un ultimo accenno leggero alla condizione di Giovanni, ovvero il commento a denti stretti di Lorenzo: “Ebbene, allora faresti bene a trovarti una moglie e basta.”, l'animo dei commensali si era subito fatto nero.

“Piero sta premendo per farci esiliare.” disse lentamente Giovanni, che aveva presenziato all'ultima riunione di governo a Firenze.

Essere all'opposizione assicurava loro di poter sentire con le loro orecchie quel che si diceva in consiglio, ma non li metteva al sicuro da quel tipo di pericoli.

“Non ce la farà.” disse piano Lorenzo, tagliandosi un pezzo di carne e masticandolo rumorosamente: “Il popolo sta dalla nostra parte.”

Giovanni sospirò e concluse: “Il popolo, forse, ma è Piero a comandare, non il popolo.”

Lorenzo fece una faccia disgustata, come se il boccone fosse stato indigesto e lasciò il coltellaccio sul tavolo, per prendere la mano della moglie che, al suo fianco, si era irrigidita nel pensare a quella prospettiva.

Giovanni era avvezzo a vederli mentre si scambiavano quel genere di attenzioni, ma ogni volta non poteva soffocare un filo di invidia nei loro confronti. Il modo in cui la mano di suo fratello stringeva quella di Semiramide e l'immediato sollievo che entrambi parevano aver provato in quel semplice contatto fisico erano per Giovanni un mondo molto lontano e incomprensibile e cominciava a credere che non avrebbe mai conosciuto quella condizione di grazia.

 
   
 
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