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Autore: Adeia Di Elferas    26/09/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giacomo Feo era partito a malincuore da Forlì, in quell'inizio di settembre e ci teneva molto a farvi ritorno il prima possibile.

Sua moglie gli aveva fornito una scorta di tutto rispetto, ma il giovane non si fidava di nessuno dei soldati che Caterina aveva scelto personalmente. Probabilmente era uno sciocco a esser tanto teso, ma andare a Imola per lui non significava solo prendersi per la prima volta la diretta responsabilità della sua carica, ma anche incontrare di nuovo suo fratello.

Infatti molte delle direttive che sua moglie aveva annotato a beneficio di Giacomo prevedevano di coinvolgere anche il Governatore della città, che era Tommaso.

Passò da Faenza, senza badare troppo al pedaggio che gli imposero e lasciò che l'aria fragrante della fine dell'estate lo calmasse, mentre conduceva il suo cavallo in mezzo a quello delle sue guardie.

Giacomo non parlò con nessuno degli uomini che lo seguivano. Anzi, cercò di captarne le chiacchiere, ma il più delle volte si trattava di pettegolezzi innocenti o di questioni di ordine pratico, come la biada per i cavalli o l'alloggio una volta arrivati a Imola.

La cosa che più lo infastidiva, se doveva essere sincero con se stesso, era lasciare Caterina da sola. Un po' perché non voleva privarsi della sua compagnia per così tanto tempo e un po' perché lo irritava pensare che durante la sua assenza lei sarebbe andata avanti a parlare con gli ambasciatori che ormai avevano fatto il sentiero a furia di andare alla sala delle udienze.

I messi stranieri stavano diventando un'ossessione nella vita quotidiana della Contessa e, per quanto lei per il momento fosse riuscita alla perfezione a non sbilanciarsi con nessuno, Giacomo temeva come non mai che lasciata sola – magari in compagnia del pestifero Ottaviano – alla fine si sarebbe lasciata convincere a parteggiare per Milano.

Giacomo vide finalmente in lontananza le mura di Imola e si sentì improvvisamente mancare il fiato. Sentiva nella saccoccia che teneva a lato della sella i vasetti che Caterina aveva preparato per Gian Piero Landriani che, aveva scritto Lucrezia, soffriva sempre di più di affaticamento agli occhi e così necessitava qualcuno dei rimedi della Contessa. Assieme a quelli, oltre a qualche effetto personale del Governatore Generale, c'erano le lettere che gli erano arrivate da Firenze.

Se Piero Medici non si era mai preso il disturbo di rispondergli come si doveva, almeno il suo cancelliere lo aveva ringraziato per la parziale apertura che era riuscito a imporre a Caterina, nella fattispecie, lo lodava per averla indotta a scrivere ad Alfonso di Napoli e a cominciare con lui almeno qualche pratica volgare.

Con sicurezza, il drappello di uomini giunti da Forlì, passò attraverso la città fino a raggiungere la rocca.

Accanto al ponte levatoio, assieme ad alcuni rappresentanti dei nobili di Imola, stava Lucrezia Landriani, vestita a festa. Giacomo squadrò in fretta tutti quelli che le stavano vicini e notò con sollievo che suo fratello Tommaso non era tra loro.

Gian Piero Landriani, che come castellano non poteva uscire dal perimetro della rocca, invece, li attendeva appena oltre il portone.

“È un vero piacere avervi qui.” disse Lucrezia, quando Giacomo smontò da cavallo e le si avvicinò per farle il baciamano.

Tra le prerogative del Governatore Generale, nel corso di quel breve soggiorno, c'era senza dubbio quella di risultare ospite gradito alla suocera. Lucrezia era tra le pochissime persone a sapere per certo quale fosse il legame tra lui e Caterina e tanto gli bastava per renderlo cauto. L'ultima volta che avevano soggiornato sotto lo stesso tetto si era lasciato molto proteggere dalla moglie, ma ora che era da solo spettava unicamente a lui comportarsi in modo corretto.

La donna, dopo avergli chiesto come fosse stato il viaggio e averlo invitato a lasciare il destriero agli stallieri, lo scortò fino alla presenza di Gian Piero, che lo accolse a braccia aperte con un sorriso gioviale.

Giacomo, per accattivarsi subito l'uomo, gli porse le boccette con le preparazioni di Caterina per gli occhi e Gian Piero lo premiò subito invitandolo a entrare e a sistemarsi come si doveva nelle stanze che avevano preparato per lui.

“Ci sarà tempo per parlare di cose importanti.” aveva detto Landriani, strizzando l'occhio al giovane: “Ora riposatevi un po' e poi ci daremo da fare!”

Così Giacomo aveva subito approfittato dell'ospitalità e si era ritirato nella stessa camera che gli era stata concessa anche nel corso della sua passata visita a Imola. In realtà quella volta non ci aveva mai passato più del tempo necessario per vestirsi per la cena, dato che aveva trascorso tutto il resto del tempo nella camera della moglie.

 

La fiumana di ambasciatori non accennava a diminuire, a Forlì e Caterina cominciava a farsi insofferente a ogni incontro.

Anche se aveva promesso a Giacomo di rinviare le riunioni tanto coi messi napoletani, quanto con quelli milanesi, in realtà non aveva potuto rifiutare tutte le richieste che le erano pervenute.

Senza il marito al fianco, lasciava che fosse Ottaviano a presenziare agli incontri e in breve aveva notato come, in assenza del rivale, il figlio apparisse più a suo agio con lei e più rilassato. Non sempre parlava a proposito e le poche volte che avrebbe dovuto farlo stava zitto, ma era pur sempre meno in difficoltà che non quando nella sala c'era anche Giacomo.

In quei giorni Ottaviano, fiero nei suoi quattordici anni, appariva più sicuro di sé e più a suo agio con gli ambasciatori stranieri di quanto non fosse stato mai in precedenza.

Tuttavia, malgrado il suo atteggiamento forzatamente maturo davanti agli estranei, il Conte si alterava immediatamente non appena arrivava a corte una lettera del Governatore Generale Feo, scritta per mano di qualche scribacchino di Imola, con cui l'uomo informava la Contessa circa i suoi progressi.

Caterina aspettava con ansia quelle missive, sia per sapere come stava andando il piano di rafforzo a Imola, sia per avere la parvenza della vicinanza del marito.

Le sere e le notti senza di lui stavano diventando in fretta una tortura e presto la donna sentì la tentazione di richiamarlo a sé. Non cedette, però, dicendosi che doveva lasciargli ultimare il suo compito, a maggior ragione visto che se la stava cavando discretamente bene.

Per distrarsi dalla solitudine che l'aveva presa, Caterina aveva ricominciato a intrattenersi fino a tardi coi figli, a presenziare alle piccole recite canore di Bianca e a raccontare le storie della sua famiglia per far addormentare i più piccoli.

Un giorno, pur di sfuggire a Luffo Numai che sembrava essersi svegliato con il chiodo fisso di far sposare Bianca ad Astorre Manfredi, Caterina era uscita dalla rocca per fare un giro in città.

Da quando era assillata dagli ambasciatori stranieri, la Contessa si era fatta vedere molto raramente per le strade di Forlì.

Mentre nella sua testa rimbombavano le parole del suo consigliere, che le ricordavano con insistenza l'età di Bianca e il fatto che Faenza era una creatura di Firenze e che se ci si fosse alleati con Firenze un matrimonio sarebbe stato il coronamento perfetto dell'alleanza, Caterina imboccò senza accorgersene la strada che portava alla casa che ospitava Bernardino.

Si bloccò subito. Moriva dalla voglia di rivederlo e avrebbe dato un occhio pur di poterlo abbracciare per qualche istante, ma aveva troppa paura di insospettire la famiglia che aveva pagato per tenerlo al sicuro.

Con aria circospetta, mosse ancora qualche passo giù per la stradina, che sembrava deserta, eccezion fatta per un decrepito mercante che spingeva una carretta.

A un certo punto sentì la voce di una donna che le parve proprio quella della forlivese che le aveva assicurato che avrebbe curato Bernardino come fosse un figlio suo.

Seguì la vocetta ribelle di un bambino e Caterina sentì il cuore batterle più forte contro le coste, mentre dalla porta di una casa usciva il piccolo, seguito a breve distanza dalla donna che ripeteva: “Devi mangiarla tutta, o tuo padre si arrabbierà!”

Per un fugace istante gli occhi grandi e chiari del bambino si puntarono su Caterina che, ancora lontana, era rimasta ferma sui due piedi.

Bernardino la riconobbe subito e allungò le corte braccia verso di lei, cominciando una buffa corsa in sua direzione. Caterina aveva visto che la popolana non l'aveva notata e portava tra le mani una ciotola fumante, tutta concentrata nell'avvicinarsi a Bernardino per farlo mangiare.

Prima che la donna potesse vederla e riconoscerla e chiedersi come mai Bernardino stesse facendo del suo meglio per raggiungerla con le sue gambotte impacciate, Caterina si tirò sulla testa il cappuccio del mantello autunnale e voltò i tacchi, imboccando una stradina laterale e tornando a passo veloce verso la rocca.

 

Giacomo non poteva più evitare di incontrare Tommaso. Ormai aveva portato a termine tutti i compiti che la moglie gli aveva affidato e gli rimaneva solo di dare istruzioni al Governatore di Imola.

Non era stato facile e, soprattutto per le direttive riguardanti la rocca di Imola, Giacomo aveva dovuto fare affidamento sull'accomodante presenza di Gian Piero Landriani, che l'aveva trattato con bonarietà fino all'ultimo, cercando di non fargli pesare le sue carenze e tentando di insegnargli dentro per dentro anche qualcosa.

Era stato più difficile avere a che fare con il bargello cittadino e con il Consiglio degli Anziani. In entrambi i casi Giacomo si era trovato di fronte persone capaci di ribattere a tono e che non si facevano problemi a fargli notare le sue leggerezze e i suoi errori.

Solo sottolineando più volte come fosse lì a nome della Contessa era alla fine riuscito a farsi ubbidire da tutti.

Quando si trovò ad attendere il permesso di entrare nel palazzotto in cui vivevano Tommaso e sua moglie Bianca, Giacomo si sentiva morire.

Quando lui e suo fratello si erano lasciati tre anni addietro, Giacomo era stato certo che si trattasse di un addio e non si era fatto problemi a parlare in modo sfacciato e atto a offendere.

La guardia gli fece segno di passare e appena oltre il portone due servi lo affiancarono e lo scortarono al piano superiore.

Tommaso lo stava aspettando in uno dei salotti, evitando ogni tipo di formalità. Quando il fratello minore entrò, lo trovò di spalle, intento a guardare oltre una delle grandi finestre, apparentemente assorto in qualche pensiero molto profondo.

Una volta spariti i servi, Giacomo si sentì in dovere di palesarsi con un colpetto di tosse. Con una lentezza esasperante, Tommaso si voltò verso di lui.

Rimase per un attimo molto colpito dall'aspetto che aveva il fratello più piccolo. Lo aveva lasciato poco più che ragazzino, lo ritrovava uomo. Ne osservò gli abiti di velluto e seta blu e verde scuro, due colori adatti ai nobili e non ai funzionari di uno Stato. Osservò con attenzione la linea morbida dei suoi capelli, un taglio curato e di certo opera di un acconciatore abile. Gli parve più alto e più in carne, in sostanza, più adulto. Tuttavia nei suoi occhi riconobbe l'antica incertezza, la stessa che aveva da bambino quando era preoccupato per qualcosa.

“Alla fine non si è stancata di te.” commentò piano Tommaso, senza muovere un piede, la mani allacciate dietro la schiena e un'espressione impassibile.

Quel modo pacato con cui aveva richiamato alla memoria di entrambi la loro ultima conversazione raggelò Giacomo, che fece del suo meglio per apparire sicuro di sé.

Gonfiando il petto, il Feo più giovane fece qualche passo e annuì con gravità: “Infatti.”

“Spero che non debba mai pentirsi della sua scelta.” fece Tommaso, guardando di sotto in su il fratello.

Giacomo stava per controbattere, ma l'altro scosse il capo e lo pregò: “Parliamo di affari di Stato e chiudiamo in fretta questa cosa, per favore.”

Solo in quel momento Giacomo riuscì ad apprezzare a fondo i segni che il tempo aveva scavato nel volto di Tommaso. Pur non essendo passata un'eternità dall'ultima volta che l'aveva visto, gli pareva davvero invecchiato.

Estraendo i fogli scritti di proprio pugno dalla Contessa, Giacomo si sentì un po' in colpa, credendo che le rughe sulla fronte e sulle guance e i fili d'argento tra i capelli scuri di Tommaso fossero soprattutto dovute al suo tormento interiore. E se Tommaso era stato tanto male, in parte era a causa sua. Era certo che se Caterina avesse scelto un altro uomo, uno qualunque, che non fosse proprio lui, Tommaso sarebbe guarito molto più in fretta dal suo male di vivere.

Una volta che i progetti per migliorare le difese cittadine furono aperti sul tavolone vicino al caminetto, Tommaso riprese il suo solito atteggiamento marziale e professionale e trattò Giacomo come avrebbe trattato un qualunque collaboratore.

Seguì con attenzione tutto quello che il fratello diceva e poneva domande solo raramente, per avere delucidazioni pratiche. Da buon soldato, non esponeva mai il suo diretto pensiero, limitandosi a rispettare gli ordini.

Quando ebbero finito di discutere i piani della Contessa, Tommaso disse semplicemente: “Porterò a termine tutti i progetti, nessun problema. Buon viaggio di ritorno.” e indicò con lo sguardo la porta.

 

L'aria settembrina era frizzante, tanto da far quasi rabbrividire Ottaviano, mentre passeggiava distrattamente sul camminamento di ronda.

I soldati che erano di guardia lo ignoravano, scansandosi appena quando passava loro accanto e facendogli appena un cenno del capo a mo' di saluto.

Il ragazzino scrutava l'orizzonte, impaziente di veder tornare lo stalliere ripulito che si vantava del titolo di Governatore Generale. La sera prima era arrivata una sua breve lettera in cui annunciava che sarebbe stato a Forlì nel giro di poche ore.

Era una curiosità perversa, quella che aveva spinto Ottaviano fino alle merlature della rocca di Ravaldino. Voleva vedere se sua madre avrebbe avuto il coraggio di passare il ponte e andare incontro al suo amante o se lo avrebbe lasciato entrare nella rocca, prima di gettarsi fra le sue braccia.

Giusto il giorno prima, il Conte e l'ambasciatore milanese Sfrondati avevano avuto uno scambio di battute abbastanza acceso in merito. Ottaviano, che in quei giorni si era beato della vicinanza della madre, per quando la Contessa paresse a tratti infastidita da quell'evenienza, aveva cercato pallidamente di difendere anche il Feo, in uno slancio di remissivo amore filiale.

Sfrondati, ovviamente, gli aveva subito riaperto gli occhi e aveva anche insinuato che il fatto che lo stalliere fosse andato a Imola per conto suo era solo l'ennesimo segno del suo potere sempre più sconfinato.

“Sarebbe toccato a voi – aveva detto Sfrondati, corrucciandosi – in qualità di Conte andare presso il Governatore di Imola a parlamentare. Ma è evidente che vostra madre sia convinta che il cavalier Feo sia più meritevole della sua stima e della sua fiducia rispetto a voi...”

A quel punto Ottaviano aveva sentito il sangue ribollire nelle vene e l'odio per Giacomo Feo era tornato più forte di prima.

Quando il sole era ormai alto, il vociare dei forlivesi e lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli fece capire a Ottaviano che lo stalliere doveva essere tornato.

Si sporse dalle merlature, e nel fare ciò, mentre i suoi occhi mettevano a fuoco l'immagine pomposa del Governatore Generale che avanzava tronfio alla testa della sua scorta, si ricordò di quando sua madre era stata lì, in quel medesimo punto e aveva alzato la veste a beneficio degli Orsi, facendosi beffe delle loro minacce.

Cercando di distogliere il pensiero da quei ricordi, Ottaviano seguì il Feo con lo sguardo, mentre passava sul ponte. Dunque sua madre non aveva avuto la faccia tosta di mettersi tanto in mostra dall'uscire dalla rocca per salutare il suo mantenuto.

Ottaviano corse giù dalle strette scale dei camminamenti e andò all'ingresso, ma trovò solo gli uomini della scorta.

“Dov'è il Governatore Generale?” chiese, senza riuscire a trattenersi.

Era certo di aver fatto in fretta, possibile che Giacomo Feo fosse già da qualche altra parte? E dove?

“Non saprei...” disse uno dei soldati, rivolgendo l'attenzione di nuovo alle borse appese alla sella del proprio cavallo.

Il Conte guardò anche gli altri, ma nessuno sembrava desideroso di parlare con lui, così strinse i pugni e provò ad andare verso lo studiolo del castellano.

Quando si rese conto, origliando, che in quella stanza c'erano solo Cesare Feo e Luffo Numai che parlavano di granaglie e fieno, Ottaviano prese a vagare per la rocca in cerca della madre e del Feo, perché sapeva che li avrebbe trovati assieme.

Mentre passava per un corridoio che si affacciava sul cortile d'addestramento, incrociò l'ambasciare Sfrondati, che, dopo un breve abboccamento con il castellano, aveva approfittato della momentanea assenza della Contessa per ficcanasare un po' in giro.

“State cercando vostra madre?” chiese l'uomo con un sorrisetto serafico, di quelli che usava quando voleva far intendere di saperne più di chiunque altro.

Ottaviano non rispose, ma rimase in attesa, ben sapendo che il milanese gli avrebbe detto quel che voleva sapere anche senza il bisogno di domande esplicite.

Infatti Sfrondati, con enorme soddisfazione, gli disse: “Credo che la troverete al Paradiso. È là che l'ho vista correre.” poi si chinò appena verso il ragazzino e, a voce bassa, con fare confidenziale, soggiunse: “E non era da sola.”

Non era una sorpresa, per il giovane Conte, ma sentirselo dire così apertamente da Sfrondati era per lui un affronto inconcepibile.

“Quante libertà, nevvero, che si prende, questo cavaliere?” soppesò Sfrondati, con un sospiro falsissimo.

“Voglio staccargli la testa dal collo.” sibilò Ottaviano, senza controllarsi più.

“Ogni cosa a suo tempo, son cose che van fatte con il sangue freddo e la mente lucida, anche se van fatte, a difesa vostra e del vostro titolo, sia ben inteso – lo rintuzzò il milanese, ogni segno di facezia sparito dal suo tono e dal suo volto – e non dovrete essere voi a sporcarvi le mani.”

 
   
 
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