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Autore: Red_Coat    27/09/2016    3 recensioni
Genesis.
La mia vita, per te.
Infinita rapsodia d'amore
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DAL TESTO:
Un bagliore accecante invase la grotta, ed io capì che l'avevo raggiunta appena in tempo. Alzai gli occhi, e vidi uno splendido angelo con una sola ala, immensa, nera e maestosa, planare dolcemente su una roccia. Rimasi incantata, con gli occhi pieni di lacrime, a fissare la sua sagoma, fino a che non mi accorsi che i suoi occhi verdi come l'acqua di un oceano di dolore e speranza seguitavano a fissarmi, sorpresi e tristi.
Fissavano me, me sola, ed in quel momento mi sentii morire dal sollievo e dalla gioia
" Genesis! " mormorai, poi ripetei il suo nome correndogli incontro
C'incontrammo, ci abbracciammo. Mi baciò.
Ed io, per la prima volta dopo tanto tempo, piansi stretta a lui.
Genere: Avventura, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genesis Rhapsodos, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Vincent Valentine, Zack Fair
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Triangolo | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Capitolo IX


 
Non mi sono mai piaciute le favole, le ho sempre trovate poco realistiche, e quasi mai veritiere.
Ricordo che ce n'era una, in particolare, che mi faceva addirittura rabbrividire di paura: Alice nel paese delle meraviglie.
Un giorno, ad esempio, io e mia sorella ci ritrovammo a parlare di questa specie di fiaba, e mano a mano che ne parlavamo io sentii crescere in me un’agitazione assurda, incredibile. Così alla fine decisi di dire la mia
 
-Alice non mi piace. – dissi, seria – Non è una fiaba per bambini, è un horror camuffato da cartone animato! –
 
Mia sorella Stephanie ci rifletté su un attimo, quindi annuì con un mezzo sorriso, sorpresa
 
-In effetti è vero. – disse – Non ci aveva mai pensato! – ridacchiando
 
Ma per me non c’era proprio nulla da ridere.
 
-Si. – continuai – Se ci pensi bene, questa povera ragazza cade in un buco e si ritrova in un mondo dove tutto scombussola la logica coerente del nostro pensiero! S’imbatte nei personaggi più strampalati, alcuni veramente inquietanti e pericolosi, con cui non sa come comunicare, perché dice una cosa e loro ne capiscono un’altra! E alla fine rischia pure di morire! – mi fermai, perché l’argomento mi aveva davvero preso
 
Quindi trassi un respiro e ripresi, gesticolando con sempre più foga
 
-Quello che mi spaventa di più, però, è il fatto che lei non sappia più come uscirne! Non è un sogno, è un incubo terrificante! –
 
Mia sorella non aveva potuto fare a meno di darmi ragione.
E adesso, nel preciso istante in cui riaprii gli occhi dopo aver sognato Ifrit che mi divorava con le sue spaventose e potenti zanne infuocate, tutta sudata e tremante mi accartocciai su me stessa mettendomi seduta, stringendo le braccia attorno alle gambe e sprofondando il viso bagnato di lacrime nella calda coperta, mi resi conto di una cosa: Ero io alice.
Caduta da un buco invisibile dritta giù, fino a toccare il fondo di un mondo stranissimo che non era il mio, dove “ciò che non è, è, e ciò che è, non è”. Dove il filo logico di ogni ragionamento umano viene stravolto dalla fantasia e dove ogni cosa è possibile, in una confusione assurda di azioni insensate e impossibili eppure estremamente ragionevoli, parole scomposte eppure perfettamente coordinate tra di loro, e luoghi inesistenti eppure così vivi, reali!
Mi … mancò il fiato.
Così liberandomi dalle coperte rizzai a sedere sul bordo del letto, toccandomi con una mano il cuore che batteva all’impazzata dentro il mio petto.
Ero bagnata fradicia di sudore, io che in vita mia non ho mai sudato così tanto neanche sotto al sole cocente di agosto, e i capelli scompigliati mi si erano appiccicati alla fronte.
Gli occhi mi dolevano ancora, il respiro sembrava essersi fatto ancor più pesante, ed i muscoli non ne volevano sapere di riattivarsi. Somigliavano molto a sacchi pestanti pieni d’aria, pronti a sgonfiarsi appena mi sarei azzardata a muovere anche solo un mezzo passo.
Mi guardai intorno.
Ero ancora a casa di Tseng, ma non potevo sapere tra quanto tempo quelli del laboratorio scientifico sarebbero venuti a prendermi, se tra qualche minuto, tra qualche ora o se l’attesa sarebbe durata giorni o addirittura settimane.
Non sapevo nulla, nulla di nulla. “Niente di Niente!”.
Perché in quel mondo inesistente la mia logica mentale costruita sulle solide eppure instabili basi della realtà non valeva più neanche un Guil! Non serviva ragionare, bisognava soltanto sognare, e … per me ... che i sogni li avevo lasciati tutti in quella piccola fattoria del Texas in cui sono nata, e un po’ li avevo dati a quell’angelo che adesso giaceva in una squallida bara in un cimitero di New York, sperando invano che questo servisse e bastasse per riportarla da me … non era affatto una cosa facile, tornare a sognare.
Non … non sapevo più farlo. O meglio, non volevo più.
Perché non volevo più schiantarmi a terra, provare quel dolore, quella fitta atroce al cuore che ci metteva sempre un’eternità a passare, e m’impediva di esistere.
Non volevo più.
Per questo, credo, la mia mente si rifiutava di obbedirmi, e l’unica cosa che riuscivo a pensare era che dovevo andarmene al più presto da lì, prima che il sogno si fosse trasformato in incubo.
Sapevo … io sapevo che stava per succedere, anche se non sapevo quando. Il mio istinto mi diceva che qualcuno stava ridendo, dietro l’angolo, con quella sua risata spaventosamente stridula mentre si sfregava gli arti scheletrici impaziente di studiarmi, di dissezionarmi viva per capire solo lui sapeva cosa.
Dovevo scappare! Ma … dove?
Così, successe.
Mentre cercavo di pensare ad una soluzione ottimale che non avrebbe comportato farmi ricatturare nuovamente o magari ritrovarmi senza un tetto per strada al freddo e al buio, un rumore mi distrasse.
Rivolsi immediatamente lo sguardo sgranato alla porta, irrigidendomi terrorizzata, e la vidi chiaramente aprirsi piano senza che apparentemente nessuno la stesse toccando. “Forse” pensai “Sarà stato il vento”.
O magari qualcuno che voleva darmi un amichevole consiglio.
In quel momento pensai a Mia, la mia migliore amica che mi aveva lasciato da solo proprio quando avrei avuto più bisogno di lei. E un’illuminazione attraversò i miei pensieri, ridonandomi speranza per mezzo di un solo nome: Zack.
Ma certo, che stupida! Potevo andarmene da lui … se solo avessi saputo dove abitava.
Immaginavo che tutti i SOLDIER “stranieri”, per logica, alloggiassero in una qualche specie di dormitorio, ma non potevo sapere né se fosse realmente così né dove questo potesse trovarsi. Ora però la cosa più importante era scappare, poi in qualche modo sarei riuscita a ritrovarlo.
Non so bene … perché pensai a lui.
So solo che … ragionai che forse poteva esser stato lui, la persona scelta dal caso per svolgere questo ruolo, di protettore e amico fidato. Il mio bianconiglio.
Così, nella disperazione afferrai la mia consolle e mi precipitai alla porta, aprendola piano e affacciandomi al salotto, cercando di fare meno rumore possibile. Mi guardai intorno.
Non c’era nessuno, e Tseng dormiva sulla poltrona. Doveva essere un orario tardo, visto che sembrava essere abbastanza assorto nel suo sonno.
Mi presi qualche istante per osservarlo con attenzione.
Aveva un’espressione grave, e preoccupata, quasi quanto la mia. Sul tavolo vidi una bottiglia di quello che doveva essere un qualche tipo di liquore, consumata a metà.
Beveva? No … impossibile! O almeno … non così tanto da lui. Anzi, per come avevo imparato a conoscerlo io, non era affatto da lui darsi all’alcool, perciò sulle prime rimasi turbata da come lo lasciai, mentre con passo felpato e ai piedi solo i miei calzettoni di lana avanzai verso l’uscita, muovendomi lentamente.
Una volta afferrata la maniglia della porta però, i muscoli delle gambe e la palpebra dell’occhio destro sembrarono risvegliarsi all’improvviso, prendendo a pulsare. Finalmente in forze uscii, scesi le scale di corsa e, chiusa la porta alle mie spalle, scappai.
Più in fretta che potevo, e il più lontano possibile da lì.
 
\\\
 
Tseng riaprì gli occhi non appena fu sicuro che lei gli avesse voltato le spalle, e la guardò sgattaiolare oltre la soglia con un’espressione cupa in volto.
Poi, quando sentì il portone sbattere, all’improvviso un senso di colpa opprimente prese velocemente a crescere dentro di lui, sul suo cuore, fino a pesare quasi quanto un macigno.
“Perché glielo sto lasciando fare?” si chiese, senza trovare una risposta.
C’era stato qualcosa in quella ragazza, che lo aveva spinto ad agire in quel modo. 
Una forza magnetica e misteriosa che gli aveva imposto come comportarsi senza che lui avesse potuto almeno provare a disobbedire.
Per un attimo, un interminabile attimo, il senso di colpa si fece ancora più pesante e difficile da sopportare, e infine la rabbia esplose, fuori e dentro di lui.
S’alzò, brandendo una delle sue due pistole, e si diresse alla porta deciso a rincorrere e riacciuffare la ragazza, ma di nuovo esitò.
No.
Solo questo riuscì a pensare.
Non … non riusciva a farlo! Sentiva di … doveva lasciarla andare! Ma perché!? 
Ancora una volta non trovò una risposta, e quella domanda, come una goccia che batte ripetutamente in un silenzio assordante, continuò a ripetersi all’infinito fino a che lui, che mai e poi mai si era abbandonato a impeti di quel tipo, rinfoderò la sua arma e se la prese con il tavolo in legno del salone, scaraventandolo contro il muro con tutto ciò che c’era di sopra per poi gettarsi senza forse sulla poltrona, a riflettere.
Cos’era stata, quella forza che lo aveva praticamente obbligato a disobbedire? Coscienza? O qualche altra pericolosa stregoneria?
 
\\\
 
Corsi per le strade di Midgar, senza preoccuparmi dei SOLDIER e dei fanti che incontravo, e che per il momento sembravano totalmente disinteressati a me.
Ne fui rassicurata, ma non abbastanza.
Continuai a correre, più veloce che potevo e senza sapere bene dove andare, anche quando sentii le mie gambe cedere, il respiro mozzarsi dolorosamente nei fianchi e in gola, e il petto dolermi per il troppo sforzo.
Corsi fino a che l’aria nei polmoni non si gelò e il sudore sul mio corpo non si asciugò totalmente.
Mi sembrava di averlo fatto per secoli, eoni. Eppure probabilmente fu solo per qualche minuto.
E quando alzai gli occhi mi accorsi di esser tornata proprio lì, dove tutto era iniziato. Su viale Loveless, nel settore 8, sotto al cartellone che pubblicizzava lo spettacolo teatrale tratto da qual poema che tu amavi e ami così tanto.
Cosa?” mi chiesi, cadendo in ginocchio esausta. “Perché … perché sono venuta qui? ”.
Bastò un attimo, allora. Solo un altro, insignificante attimo.
All’improvviso tutto si spense, mi accasciai a terra priva di sensi, e la magia che mi aveva portato in questo mondo dal mio avvenne di nuovo.
 
\\\
 
-Valery … -
 
Zack.
La sua voce, dolce e famigliare, arrivò a riscuotermi prudente dal buio in cui ero assopita.
Poi, dopo appena qualche secondo, un leggerissimo scossone, quasi impercettibile, mi fece ondeggiare, e quella voce bellissima tornò a chiamarmi
 
-Valery, sveglia … mi senti? –
 
Sorrisi, e inizia a svegliarmi.
 
-Z-zack …? – bofonchiai, la voce impastata dal sonno, prima di riaprire gli occhi.
 
La prima cosa che vidi, fu il suo sguardo preoccupato eppure sorridente su di me. Sospirò sollevato quando mi vide riaffacciarmi alla vita.
Mi resi conto di essere distesa nella stessa posizione in cui ero caduta, ma sul pavimento in legno di un piccolo e quasi completamente spoglio mini appartamento a cui mancavano soggiorno, corridoio e cucina.
E, per quanto fossi contenta di essere riuscita chissà come a raggiungerlo, la mia gioia fu sopraffatta totalmente da un’angoscia inspiegabile che non avevo mai provato prima: volevo che quel sogno finisse, e invece continuava a trattenermi.
Ripiombai nel buio chiudendo gli occhi stanchi e carichi di lacrime, anche se stavolta i miei sensi rimasero accesi.
Lo sentii quando mi sollevò, posando la mia schiena sulle sue possenti braccia da SOLDIER, e potei chiaramente udire il battito vivace del suo cuore mentre adagiava la mia testa sul suo petto, la mia fronte appena sotto gli spallacci della tuta da 2nd class.
Scossi piano la testa, stringendomi a lui e supplicando in silenzio. “Basta!” pensai “Basta, basta, basta! Non può essere. Ti prego, non può essere vero! Voglio tornare a casa …
Grossi e bollenti lacrimoni cominciarono a rigare le mie guance, bollenti, e il tocco dolce della mano di Zack che me le asciugava mi provocò una fitta di sollievo al cuore.
 
-Valery – mi chiese, adagiandomi piano su quello che doveva essere il suo letto, e aiutandomi a distendere le gambe – riesci a dirmi cosa ti è successo? –
 
Rialzai la schiena, e mentre mi appoggiava una coperta sulle spalle e il lenzuolo sulle gambe scossi la testa, ingoiando un po’ di saliva. La gola secca sembrò scartarsi, dolorosamente. Tossii forte, più volte, piegandomi su me stessa. Dovevo essermi presa un bel malanno, pensai.
Zack mi strinse a sé accarezzandomi la schiena, quindi attese qualche minuto così, sussurrandomi con voce rassicurante e serena di stare calma.
Calma? E come potevo? Ero appena scappata dai turks, e mi ritrovavo nella sua stanza senza neanche sapere come c’ero arrivata! Questo sogno … stava iniziando davvero a complicarsi.
 
-Non ti chiedo come hai fatto a trovarmi. – sdrammatizzò scherzoso lui a proposito, non appena mi riuscii di calmarmi un po’
 
Sorrisi, senza dir nulla. “Non saprei risponderti” pensai, appoggiandomi alla parete che faceva da testiera, mentre lui si accertava che il cuscino mi sostenesse bene la schiena. “Quello … quello che mi ha portato qui è successo di nuovo.
Poi lo vidi allontanarsi verso la parete di fianco per destreggiarsi con la piccola cucina da campo appoggiata su un mobiletto bianco, probabilmente in legno, dentro al quale teneva un paio di pentolini, qualche tazza e dei bicchieri di vetro. Prese dell’acqua da una bottiglia in plastica posta nel piccolo frigo lì di fianco, e la mise a scaldare su un fornello dentro ad un pentolino in acciaio col lungo manico in plastica nera.
Mentre aspettava che bollisse e poi che lo strano intruglio di erbe finisse la sua infusione, mi spiegò che di solito la Shinra provvedeva giornalmente al sostentamento di ogni recluta o SOLDIER, e che chi non voleva mangiare in mensa poteva anche comprare da mangiare fuori. Ma lui, almeno per un bicchiere d’acqua e qualche “spuntino extra” prima di recarsi a lavoro o durante la notte (poteva capitare che, soprattutto durante il primo periodo delle iniezioni si sentisse un certo … dolorino allo stomaco), aveva preferito aggiungere al suo alloggio quei due oggetti e qualche stoviglia. Ascoltai tranquilla, senza interrompere. Tremai, quando accennò a quello che tutte le reclute dovevano passare per diventare forti come un SOLDIER. Ma … non seppi dire se di freddo o di paura, perché mi sentivo strana. Ad un certo punto, quando lui si avvicinò di nuovo a me con la tazza piena e si sedette accanto a me, ai piedi del letto, iniziai davvero a pensare di essermi beccata un qualche tipo di malanno, magari un raffreddamento, o anche l’influenza. “Per quanto tempo sono stata svenuta in mezzo alla strada?” mi chiesi in automatico.
Presi la tazza di ceramica dalle mani di Zack, e nonostante l’odore abbastanza … forte, trattenni il fiato e inizia a sorseggiarla. Era calda, e dissetante. Sapeva di menta, solo un po’ più balsamica. Tossii di nuovo, rischiando di rovesciarmela addosso se lui non avesse prontamente recuperato la tazza dalle mie mani, adagiandola sul comodino di fianco al letto per poi aiutarmi a distendermi completamente sul materasso, la testa comodamente sprofondata nel cuscino.
Chiusi gli occhi, improvvisamente esausta.
 
-D’accordo. – disse, mentre appoggiava la stoviglia sul piccolo mobile – aspettiamo che s’intiepidisca. –
 
Quindi andò a bagnare un vecchio strofinaccio scovato sempre dal solito mobile e iniziò a tamponarmi con esso la fronte, scoccandomi un occhiolino e sorridendo
 
-Questo ti servirà per riprenderti. –
 
Avrei dovuto sentirmi bene. Ero con Zack, il mio fratellino, il mio migliore amico e il mio bianconiglio, colui che sapevo mi avrebbe protetta fino alla fine. Ma era proprio quella parola e farmi stare male ogni volta che lo guardavo, a guastare la nostra allegria e rovinare tutto proprio quando la felicità raggiungeva l’apice. Così riaprì gli occhi, per evitare di vedere quell’immagine orrenda che all’improvviso mi era balenata davanti, e il suo sorriso mi colpì come avrebbe potuto fare la lama affilata di un pugnale in pieno petto
 
-Visto? – fece, facendomi sentire al sicuro
 
E in colpa. “Basta!” pensai “Non ce la faccio più a stare zitta!
 
-Zack … - iniziai quindi, ma … di nuovo mi bloccai, e lui sorridendo ingenuamente rispose con un semplice
-Che c’è? –
 
… piccolo … brutto mascalzone!
Ci provai a continuare, ma lui seguitava a guardarmi con quel sorriso dolce, con quell’aria da bimbo indifeso, ed io … per l’ennesima volta tacqui, gettandogli le braccia al collo e iniziando a piangere senza alcun apparente motivo, almeno per lui.
Ma fu proprio merito suo se riuscii uno per scusarmi, quando stringendomi mormorò inaspettatamente 
 
-Ho saputo quello ch’è successo con Genesis. –
 
Mi gelai, immediatamente, e riavendomi lo guardai stupita. Spegnendo un po' il suo sorriso e intenerendosi, lui seguitò a fissarmi in silenzio negli occhi, complice.
Scossi la testa, sperando che questo bastasse a fargli capire che non era questo ad agitarmi così tanto, a rovinare questo ennesimo momento di gioia insieme, e aprii la bocca per parlare.
Ma lui me lo impedì di nuovo, ponendomi un dito sulle labbra e sorridendomi rassicurante
 
-Non voglio sapere nulla … - sussurrò – non adesso. –
 
Confermando i miei sospetti. Non si stava più riferendo a ciò che era successo tra me e te, ma al mio segreto. Lo fissai, trattenendo il fiato
 
-Ma io … - provai quindi a protestare – Tu devi sapere, Zack! – quasi urlando
 
Ancora una volta lui sorrise, e riprendendo la tazza dal comodino me la mise in mano, concludendo allegro
 
-Me lo dirai quando starai meglio. Ora pensa a riprenderti –
 
E io, stanca, spaventata e terribilmente in colpa, obbedii continuando a piangere e singhiozzare in silenzio mentre lui mi guardava bere tenendomi compagnia con le sue battute scherzose, i suoi aneddoti e i suoi modi dolci da fratellino di calmarmi.
Fino a che il sonno non ci vinse entrambi, e ci addormentammo sereni stretti l’una nelle braccia dell’altro.


 
   
 
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