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Autore: Adeia Di Elferas    28/09/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Isabella Este era grossa di oltre otto mesi in quel novembre mantovano ricco di neve e propenso alle gelate serali.

La signora di Mantova avrebbe voluto che suo marito Francesco Gonzaga avesse più tempo per lei e fosse meno impegnato coi preparativi bellici in cui si era buttato a capofitto.

I venti di guerra che soffiavano da nord e da sud sembravano spazzare anche il loro piccolo Stato ed entrambi sapevano che in quel momento nulla era più importante che restare uniti e cercare di restare a galla. Da quando aspettavano il loro primo erede, poi, Francesco e Isabella si erano impegnati ancora di più in politica e nella gestione del governo, sperando di poter un giorno lasciare alla prole un Marchesato stabile e agiato.

I movimenti di Ludovico il Moro, a cui la loro sorte sembrava legata ogni giorno di più, si stavano facendo sempre più difficili da interpretare. Dall'essere un 'servo fedele' del re di Francia, lo Sforza era passato a dire che se proprio il re Carlo VIII avesse voluto passare per Milano, lui non lo avrebbe ostacolato, ma nulla di più.

L'unica cosa che pareva certa era la sua determinazione a far sposare la nipote Bianca Maria a Massimiliano, l'Imperatore. Se con gli stranieri e i nobili milanesi scusava la cosa dicendo che lo faceva solo per onorare un patto stretto tempo prima, in molti sapevano che il prezzo per quella sposa e per la sua ingentissima dote sarebbe stato il Ducato.

“Quando l'Imperatore riconoscerà al Moro il titolo di Duca – aveva sentenziato un giorno Francesco, mentre lui e la moglie ragionavano di politica – mi gioco la testa che il povero Gian Galeazzo all'improvviso si aggraverà e ci lascerà le penne.”

Isabella non voleva dare ascolto alle parole del marito. Non poteva pensare che sua sorella Beatrice fosse la diabolica sposa di un uomo del genere. Né che ne fosse la complice, dato che era risaputo quanto il Moro tenesse al parere e ai consigli della moglie, benché ultimamente fosse stato visto fare qualche moina di troppo a certe dame di compagnia della stessa Beatrice.

Isabella stava guardando la neve che cadeva sottile oltre una delle finestre del palazzo quando un servo le portò una lettera, annunciando: “Arriva da Ferrara.”

La donna prese subito il biglietto e capì immediatamente che portava con sé notizie luttuose.

 

Beatrice Este stava ancora piangendo a dirotto, davanti alla lettera dal sigillo spezzato scritta dal pugno incurante e aspro di suo fratello Alfonso.

'Con questa mia vi informo – aveva scritto – che nostra madre è morta oggi, con la consolazione dell'ultima confessione.'

E poi aveva chiuso con un saluto freddo e breve, che sarebbe stato accettabile forse da parte di un cancelliere, ma non di un fratello.

Beatrice, poi, era arrabbiata, oltre che triste, perché sua madre era stata sempre tra le sue massime detrattrici, eppure ora non poteva fare altro che piangerla. Avrebbe voluto avere la forza di ricevere quella notizia in un altro modo. Nella sua mente, a volte, nei momenti in cui il rancore verso sua madre era molto forte, si era vista fare una specie di sorrisetto compunto e ridare la lettera al messaggero dicendogli che non erano affari suoi.

Sua madre, Eleonora d'Aragona, la fiera donna che rimpiangeva Napoli e che non aveva mai del tutto digerito il fatto di avere avuto due femmine una dopo l'altra prima di dare alla luce un vero erede, era morta. E Beatrice non riusciva a fare altro che piangere.

Ludovico non aveva trovato modo di consolare la moglie per la morte di Eleonora d'Aragona, così l'aveva lasciata sola con le sue dame di compagnia e si era subito ritirato con Bartolomeo Calco per scrivere una lettera di condoglianze al suocero Ercole.

Quella novità proprio non ci voleva. Il Moro non aveva bisogno di una moglie affranta e confusa, ma della solita Beatrice. Quella morte di certo le avrebbe occupato la mente per ben più di un giorno e quello era un bel dilemma, ora che le nozze tra Bianca Maria e l'Imperatore si avvicinavano.

Mentre ascoltava Calco che gli spiegava cosa avrebbe scritto a Ercole, Ludovico si distrasse, pensando alle notizie arrivate qualche settimana prima dal sud. A Roma il papa aveva fatto Cardinale suo figlio Cesare e un sacco di altri giovani, tra cui Alessandro Farnese, fratello della bella Giulia.

Sempre in settembre, Juan Borja, un altro figlio del papa, era andato in sposa alla vedova del fratello in Spagna e i pettegolezzi lo volevano ai ferri corti con la famiglia della sposa per via della sua tendenza a prendersi eccessive libertà, soprattutto nella sfera amorosa.

Tutti quei maneggi avevano fatto passare un ottobre e ormai anche un novembre pessimi a Ludovico, che era corroso dall'invidia, al pensiero che dopo Bianca Maria non aveva altri nipoti da usare per la sua ascesa politica.

Certo, restava Caterina, in Romagna, che ufficialmente era vedova. Anche se ormai il figlio Ottaviano aveva l'età di essere promesso, sua madre era ancora molto più importante e potente di lui e rappresentava un partito più consistente. Tuttavia il Moro doveva ammettere in tutta franchezza che la nipote Contessa di Imola e Forlì era fuori dai giochi per due motivi. Innanzitutto non si sarebbe mai piegata al suo volere: non l'aveva fatto quando era una fresca vedova di venticinque anni sola e accerchiata dagli assassini di suo marito, quindi non l'avrebbe fatto di certo a trent'anni suonati con l'esercito del suo Stato che pendeva dalle sue labbra. E secondariamente, il Moro si era fatto persuaso che fosse davvero sposata in segreto con il suo dannatissimo e inutile amante.

 

“Mi spiace che Eleonora d'Aragona sia morta – aveva constatato Caterina, quando aveva ricevuto una lettera della sorella Anna Maria, che le aveva annunciato il decesso della suocera – è stata una donna molto importante, per Ferrara.”

Era da poco passata l'alba, ma la consegna di quel messaggio aveva fatto svegliare tanto la Contessa, quanto suo marito e così entrambi si stavano preparando per la giornata.

Il Paradiso era freddo e le finestre erano appannate. Il fuoco che scoppiettava nel camino riusciva solo in parte a vincere il gelo di quell'ora antelucana e Giacomo continuava a rabbrividire, mentre si faceva aiutare da Caterina a legare i laccetti delle maniche del suo giubbone imbottito.

“Ercole sarà ancora più disperato di suo figlio – continuava a dire la donna, tirando gli spaghini con forza – pare che fossero anche innamorati e che il loro collaborare nelle questioni di Stato fosse legato proprio al sentimento che li univa.”

Giacomo ascoltava con scarso interesse, convinto che le vicende degli Este non li toccassero più di tanto. Tuttavia era palese che sua moglie avesse voglia di parlarne, perciò non la interruppe.

Quando ebbe finito di agghindare il marito, Caterina, che aveva già indossato uno dei suoi vestiti più pesanti, andò alla scrivania a recuperare la missiva della sorella.

La ripiegò con cura e la rimise in una delle tasche nascoste della veste e sospirò: “Secondo Anna Maria, Alfonso è rimasto molto provato dalla morte della madre. Dice che per lui era l'unica donna che avesse un qualche valore.”

“Strano, a vederlo mi sembrava che Alfonso Este avesse a cuore ben altre donne, che non sua madre.” commentò acido Giacomo.

Si guadagnò un'occhiataccia da parte della Contessa, ma nulla di più. La mente di Caterina continuava a correre ad Anna Maria, costretta a un matrimonio che la rendeva palesemente infelice e non c'era nulla che si potesse fare per aiutarla.

“Cosa diremo oggi all'ambasciatore napoletano?” chiese Giacomo, all'improvviso, piegandosi per infilarsi gli stivali di cuoio grasso, imbattibili contro la neve.

Caterina scosse subito il capo, togliendosi da davanti l'immagine – ormai sbiadita dal tempo – del viso di sua sorella Anna Maria e rispose: “Nulla, come niente.”

“Ma tu cosa ne pensi? Insomma, ho capito che vuoi restare neutrale e che gli accordi che hai preso con Alfonso d'Aragona sono solo chiacchiere, ma...” cominciò il giovane, alzando appena gli occhi per vedere come reagiva la moglie.

La Contessa, in tutta risposta, alzò le sottane per sistemarsi il pugnale contro la gamba e sospirò: “Cosa vuoi che ne pensi? È ovvio, ormai, che è Milano a essere nel torto. Mio zio vuole scatenare una guerra solo per indebolire l'unico altro Stato valido rimasto in Italia.” con un fruscio le gonne della donna tornarono giù: “Napoli è una vittima, in questo caso. Ludovico ha fatto di tutto per indurli a scatenare il conflitto, passando così dalla parte del torto. Ha aizzato il re di Francia a scendere a Napoli per riprendersi un trono che forse sarebbe spettato a lui, ha rubato il Ducato a mio fratello e quindi a Isabella, ha rapito il loro primo figlio...”

“Rapito? Non l'ha portato a corte per dargli un'istruzione migliore?” la interruppe Giacomo, aggrottando la fronte, convinto di aver sentito proprio quelle stesse parole ripetute dai chiacchieroni di Forlì.

Caterina strinse gli occhi, come sempre incredula di fronte all'ingenuità del marito che, a sprazzi, ritornava a mostrarsi in tutta la sua abissalità.

“L'ha rapito. E avrebbe rapito anche la piccola Ippolita, se solo fosse stata un altro maschio.” precisò.

Giacomo allora sollevò il sopracciglio e concluse: “Ecco, vedi, un altro motivo in più per schierarci con Napoli!”

Caterina si fece pensierosa e più ci ragionava più arrivava a dar ragione a Giacomo. Eppure il pensiero di schierarsi apertamente l'agitava. Sapeva che nel momento stesso in cui avesse lasciato intendere a una delle parte che alla fine si era decisa, la guerra sarebbe iniziata subito.

Sollevò un angolo della bocca, quasi divertita nel capire come nessuno di loro, nemmeno il papa, avesse per ora osato farle nulla per forzarle la mano solo in riguardo al suo cognome. Suo padre, in fondo, era stato proprio lungimirante, a volerla riconoscere.

Aveva pagato più volte il prezzo che essere una Sforza comportava, ma finalmente poteva godere anche dei consistenti vantaggi della sua discendenza.

 

Giovanni Sforza aveva affrontato il vento gelido che spazzava Roma e il nevischio che si infilava sotto al suo cappuccio solo per onor di bandiera.

Voleva mettere al sicuro il suo status e per quanto la cosa lo mettesse in difficoltà, aveva accettato di entrare a Roma in pompa magna, come suggerito con fare perentorio da Alessandro VI, affinché tutti sapessero che era arrivato in Vaticano a consumare il matrimonio.

Il papa avrebbe dovuto finalmente versargli i trentamila ducati della dote e nessuno avrebbe più potuto mettere in dubbio nulla.

In realtà Giovanni aveva attesa più del dovuto. Mentre passava per le vie di Roma, osservato con curiosità dai volti che si affacciavano alle finestre delle alte case che fiancheggiavano la strada, l'uomo non poteva che chiedersi come il papa avesse in realtà preso il suo tentennamento.

Quando Alessandro VI gli aveva scritto una breve franchissima e fin troppo esplicita in cui gli diceva che era tempo di tornare a Roma a fare il suo dovere e incassare i suoi soldi, Giovanni non aveva risposto subito, come invece il papa lo aveva pregato di fare.

Aveva atteso oltre un mese e solo in novembre si era deciso a partire.

Cosa lo avesse portato a ritardare tanto il ritorno dalla moglie non lo sapeva nemmeno lui. Era un insieme di sentimenti.

Prima di tutto, non sopportava l'idea di dover consumare il matrimonio davanti a testimoni. Con la prima moglie era stato tutto diverso, tutto più informale, e si era seguita la buona norma di casa Sforza per cui, in linea di massima, salvo casi particolari, si lasciava un minimo di privatezza agli sposi, fidandosi della loro stessa testimonianza.

Secondariamente, la giovanissima Lucrecia lo metteva a disagio. Era troppo bella e sembrava troppo sveglia, per la sua tenera età. Giovanni si sentiva in difficoltà, quando l'aveva davanti a sé. Solo un pazzo non l'avrebbe desiderata, ma l'emozione, quando è molto forte, può fare brutti scherzi.

Infine, Giovanni aveva paura dei fratelli della sua sposa.

Se aveva deciso di andare a Roma in novembre era in parte perché sapeva che almeno Juan Borja non ci sarebbe stato, giacché ancora in Spagna.

Quando finalmente la sua peregrinazione in giro per Roma ebbe fine, Giovanni venne accolto dal papa in persona che, con sguardo freddo malgrado il radioso sorriso sulle labbra, lo abbracciò come un figlio e lo incoraggiò circa la sua prova, facendo ridere di gusto tutti i presenti e facendo vergognare il genero come un verme.

 

Il Consiglio di governo di Forlì si era riunito di buona mattina per discutere una questione che stava mettendo gli uni contro gli altri i piccoli nobili della città.

L'inverno era arrivato con la stessa furia degli anni passati, anzi, si diceva che fosse ancor peggio, visto che non solo Firenze era rimasta paralizzata da una nevicata senza precedenti che non accennava a terminare, ma addirittura era ormai risaputo che il porto di Genova si era gelato, e le acque del suo mare avevano intrappolato molte navi, impedendo ogni partenza e ogni arrivo.

In quel clima apocalittico, la Contessa era chiamata a decidere sul razionamento delle risorse alimentari. L'estate era stata secca e avara, aveva lasciato la metà dei campi aridi e molti contadini avevano avuto malori per il caldo e avevano trascurato quei pochi campi in grado di dare frutti.

“Non possiamo intaccare più di tanto le scorte che abbiamo messo da parte.” fece notare Caterina, che presiedeva il consiglio, affiancata dal suo cancelliere Cardella e da Luffo Numai.

“Se non lo farete – controbatté subito Ettore Ercolani – a chi saranno destinate quelle granaglie e quella carne sotto sale? Ve lo dico io! A dei morti! Non sopravvivremo all'inverno, se non redistribuirete subito il cibo.”

“Potremmo comprarne da qualche città vicina...” provò a inserirsi Giacomo Feo, che sedeva più o meno a metà tavolo per sua stessa decisione.

Da quando era tornato da Imola, aveva dimostrato la volontà di assecondare l'idea della moglie: voleva rendersi più attivo e presente e per farlo aveva iniziato a prendere la parola anche quando non era interpellato e a esprimere le proprie teorie.

Fintanto che non si intrometteva su temi politici, a Caterina stava bene.

“Non abbiamo soldi per comprare cibo da altre città.” fece notare, con un filo di noia, Bartolomeo Codiferro: “Seriamente, Governatore Generale, non avete presente lo stato in cui vertono le nostre casse?”

Giacomo arrossì violentemente, colto in fallo e stava per ribattere con voce tonante, senonché Francesco Numai parlò prima di lui: “Mia signora – disse, rivolgendosi direttamente alla Contessa – comprendo bene che vogliate essere pronta in caso di guerra, ma se il popolo avrà troppa fame, scoppieranno rivolte in ogni dove e a quel punto la guerra l'avremo davvero in casa.”

“Possiamo ridistribuire solo una piccola parte di grano e di altri generi di sostentamento, ma non posso certo svuotare le dispense.” si ostinò Caterina: “In caso di attacco nemico, siamo imprendibili, ma senza cibo la nostra difesa sarà la nostra tomba.”

“La vostra rocca forse lo è, imprendibile.” prese la parola Alberigo Denti, con veemenza: “Con la torre che avete fatto ribassare, i nuovi rivellini e l'artiglieria appena comprata, ma le case dei poveracci crolleranno al primo colpo di bombarda!”

“Alberigo ha ragione – ammise Giorgio Castellini, alzandosi per parlare – Contessa, a Forlì serve una difesa più ampia e per averla dobbiamo accettare l'aiuto di Napoli o di Milano.”

“Siamo dell'idea che Napoli sia la scelta migliore.” fece Giacomo, che non aspettava occasione migliore per gettare l'amo: “Se ne parlava qualche giorno fa e troviamo che Napoli sia nel giusto, in questo conflitto, dato che Milano non sta facendo altro che cercare di rubare il trono agli Aragona.”

“Forlì resterà neutrale, invece. Chi ha torto o ragione non è affar nostro!” intervenne Caterina, con al fianco Luffo Numai che annuiva.

Giacomo capì di aver fatto un passo troppo falso e attese che la riunione finisse nel timore di essere ripreso apertamente dalla moglie.

La Contessa, invece, lasciò che il Consiglio continuasse con le proprie rimostranze, placando ogni diatriba nel modo più indolore possibile e solo quando tutti i consiglieri lasciarono il salone, dopo che si ebbe deciso che quota di cereali redistribuire tra i forlivesi, solo allora prese da parte Giacomo.

“Te l'avevo già detto, ma evidentemente non capisci. Non devi permetterti mai più.” gli disse, tenendolo per un braccio, cercando di apparire più minacciosa di quanto non riuscisse a essere con lui.

“Credevo che ormai tu fossi d'accordo... Insomma, ne avevamo parlato, ti eri detta d'accordo con me...” farfugliò il giovane, in estremo tentativo di difendersi.

“Quello che dico quando siamo soli nella nostra camera non deve uscire dalle pareti del Paradiso! Mai mettere a parte gli altri di quello che diciamo e facciamo in privato! Cristo Santo, Giacomo! Questa è la prima regola!” lo rimbrottò la moglie, strattonandolo appena, facendo seguire una sfilza di improperi che non spolverava da quando aveva dovuto fronteggiare qualche castellano ribelle.

L'uomo, infastidito da tutte quelle bestemmie, si divincolò dalla presa della moglie e, facendosi molto serio, disse: “Parli come l'ultimo dei saccomanni.”

“Meglio parlare come l'ultimo dei saccomanni, piuttosto che aprire la bocca senza prima consultare il cervello.” rimbeccò la donna e si allontanò dal marito senza dargli tempo di replicare.

 

La vestaglia ricamata che avevano messo a Giovanni Sforza gli pizzicava sulle spalle e attorno al collo. La trovava eccessiva e troppo femminile. Non si sarebbe sorpreso se gli avessero detto che era stata scelta da uno dei fratelli di Lucrecia solo per prenderlo in giro e metterlo a disagio.

La notte era fredda ed era scesa in fretta sul Vaticano, avvicinandolo inesorabilmente a una notte che aveva allo stesso tempo atteso e temuto.

Due servi lo avevano accompagnato fino all'imboccatura delle scale, dicendogli poi di continuare da solo, visto che nel corridoio avrebbe trovato altre persone che gli avrebbero indicato la stanza della moglie.

Giovanni aveva fatto i gradini con una lentezza esasperante, forse sperando che qualcuno lo chiamasse proprio all'ultimo minuto, magari con un messaggio urgente da Pesaro, qualcosa che lo avrebbe costretto a prendere immediatamente armi e bagagli e partire.

Quanto avrebbe voluto una scusa qualsiasi per scappare e lasciare i Borja al loro destino. Che sciocco che era stato a lasciarsi raggirare a quel modo da quel branco di serpi...

Giunto alla fine delle scale, cercò di mettere a fuoco il corridoio poco illuminato e vide subito una figura che conosceva bene attenderlo nel mezzo del cammino.

Cesare Borja allungò un braccio verso di lui, mentre l'altro restava sinistramente nascosto tra le pieghe dell'abito talare.

Giovanni fu certo, per un tremendo attimo, che il giovane cognato stesse nascondendo sotto le vesti un coltellaccio con cui gli avrebbe tagliato la gola non appena fosse stato abbastanza vicino.

Invece quando lo raggiunse con il suo passo cadenzato e tremante, si sentì afferrare per una spalla e quasi trascinare verso una delle porte chiuse.

“Ecco, è giunto il momento che facciate il vostro dovere.” sussurrò a denti stretti il figlio del papa: “State molto attento, Sforza.” lo redarguì, con una luce sinistra negli occhi che fiammeggiavano alla luce delle torce.

Giovanni deglutì e lasciò che Cesare, dopo aver spalancato la porta, quasi lo spingesse nella camera in cui Lucrecia l'attendeva.

La giovane era stesa nel centro del letto, fasciata da una sottilissima vestaglia da notte di pizzo e seta, tanto trasparente da non lasciare nulla all'immaginazione. I suoi capelli biondi e finemente arricciati erano sparsi sui cuscini e le incoronavano il viso come un'aureola. Il suo petto si sollevava e si abbassava preda dell'agitazione, ma i suoi occhi indugiavano sul suo sposo senza mostrare alcun tipo di timore.

L'attenzione di Giovanni, però, fu catturata dalle sedie schierate attorno al talamo, alcune delle quali già occupate.

Quando Cesare prese posto su quella centrale, il signore di Pesaro si sentì mancare, ma comprese all'istante che non gli avrebbero perdonato nessun tipo di mancanza, quella notte.

Perciò, cercando di estraniare la mente dall'assurda situazione in cui si trovava, raggiunse Lucrecia sotto al baldacchino e fece il suo dovere.

 
   
 
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