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Autore: MZakhar    28/09/2016    1 recensioni
A chi non è mai capitato di affogare la propria delusione nell'alcol?
Sicuramente è successo a Vittoria – 23 anni, operatrice di un call-center – quando il suo, cosa? capo? fidanzato? amante?, ha deciso di darle buca proprio la sera in cui lei si aspettava di ricevere il tanto agognato anello... Ma si sa che l’alcol porta solo guai, soprattutto se brindando hai indossato vestiti firmati e affascinato ogni uomo del pub. Per questo al suo risveglio, non ricordandosi gran parte della serata, Vittoria sente di aver fatto qualcosa di sbagliato. Qualcosa che ha il volto di un uomo affascinante di cui non sa nemmeno il nome. Eppure... cosa sarà vero e cosa farà parte dell’immaginazione? A Vittoria non resterà che scoprirlo a proprie spese e per la prima volta, forse, riuscirà finalmente a vedere la sua vita dalla giusta prospettiva...
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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16
L A   F I N E   D I   U N ' E R A



A volte è difficile ammettere che sbagliamo, finché i nostri sbagli non diventano talmente evidenti da metterci in imbarazzo. Ma non con gli altri, piuttosto con noi stessi.
Fu per questo che, quando accostai lungo una delle innumerevoli stradine sterrate in mezzo ai campi e osservai Carlo precipitarsi fuori per rigurgitare una buona parte di alcol che il suo corpo non era in grado di contenere, mi sentii una completa idiota. Mentre lo ascoltavo dare di stomaco (non avevo trovato abbastanza forza di volontà per uscire a sostenerlo) nella mia testa, per la prima volta, si formò una domanda: era davvero questo l'uomo per cui credevo valesse la pena di mettersi nei guai? Ma più di tutto, era davvero ciò che volevo? Dopotutto non mi ero disperata così tanto per la nostra rottura. Certo, ci ero rimasta innegabilmente male, mi ero affezionata alle cose che avevamo fatto insieme, al pensiero di avere una spalla su cui piangere, qualcuno che poteva ricambiare i miei baci, ma diciamoci la verità: una donna innamorata per davvero non si sarebbe mai chiesta se combattere per il proprio uomo fosse la cosa migliore. Inoltre, se Carlo mi avesse davvero amato a sua volta, adesso non saremmo in questa situazione. Giusto?
Sbirciai nello specchietto retrovisore con questa nuova, inaspettata consapevolezza e scorsi la schiena inarcata di Carlo scuotersi a ogni ondata di nausea. Forse non era il caso di lasciarlo da solo dopotutto. Quindi scesi dall'auto e stringendomi in un abbraccio – il sole stava calando e con esso anche la temperatura – raggiunsi lo straccio che era diventato l'uomo che un tempo mi sembrava di conoscere alla perfezione.
«Stai bene?» m'interessai, consapevole del fatto che fosse una domanda piuttosto sciocca e con una risposta altrettanto ovvia. Tuttavia Carlo non diede segno di esserne scocciato; cercò invece di rimettersi dritto e pulendosi la bocca con la manica della giacca si appoggiò contro il bagagliaio dell'auto. Poi scosse la testa, fissando il terreno sotto i nostri piedi.
«Ti serve qualcosa?» insistei e finalmente lui mi guardò e abbozzando un sorriso rispose: «No. Mi basta sapere che non mi hai abbandonato.»
Poi cadde il silenzio. Un filo d'aria mosse l'orlo del mio vestito; questa frase era esattamente una di quelle cose che solo qualche settimana prima mi avrebbero spinto tra le sue braccia, incondizionatamente. Gli avrei perdonato ogni cosa, giurandogli che gli sarei rimasta accanto finché l'avesse voluto. Stavolta, però, non sentii questa necessità; solo una lieve pressione al torace che terminò in un battito di ciglia. Distolsi lo sguardo da lui e mi voltai per ammirare il tramonto.
«Bello, vero?» domandai come se avesse importanza per la nostra conversazione. Lui rimase in silenzio e avrei potuto scommettere qualunque cosa che, adesso che era tornato un pizzico più lucido, si fosse stretto nelle spalle con indifferenza. Non riuscii a trattenere un sorriso: Carlo non era mai stato un tipo molto romantico, solo qualche sporadico episodio che aveva concesso a me, a Lisa e magari anche alla misteriosa terza donna. Ma se ci fosse stato Nick qui con me... bloccai quel pensiero sul nascere: che cosa poteva importarmene?
«Io e Lisa ci siamo lasciati» d'un tratto Carlo interruppe le mie elucubrazioni, strascicando le parole. «Definitivamente.»
«Ah.»
«Ah...e nient'altro?» si sorprese.
«Mi dispiace. È stata colpa mia» mi sentii in dovere di precisare. Adesso che cominciavo a vedere le cose da una nuova prospettiva, ero sinceramente pentita ma non sapevo che altro aggiungere. Tutto questa storia sembrava in qualche modo sbagliata. E anche Carlo doveva averlo notato perché improvvisamente si irritò ed emise uno sbuffo.
«Una reazione piuttosto strana da parte di qualcuno che non vedeva l'ora che accadesse» osservò pungente.
A quel punto fui ancora più in difficoltà, perché sapevo che aveva ragione. Il problema era che non me ne importava come prima e non riuscivo proprio ad obbligarmi a sentire il contrario. Che cos'era accaduto in quei giorni da stravolgere ogni mio sentimento? Non ne avevo idea. Ciononostante tornai a guardare Carlo dritto negli occhi (arrossati) che, complice l'alcol, ricambiò con un espressione frustrata.
«È per colpa sua, non è vero?» esclamò d'un tratto. «L'ha fatto di nuovo. Prima Jessica, adesso tu...» continuò con aria più tormentata, passandosi una mano tra i folti ricci che al tramonto avevano assunto un luminoso color rame. «Come diavolo ci riesce?!» si rivolse poi a me, accigliandosi quasi si aspettasse davvero una risposta. Increspai la fronte tentando di districarmi nel groviglio di quelle accuse ma non riuscii a venirne a capo.
Finché...
D'un tratto mi si accese una lampadina.
«Jessica?» domandai mentre davanti agli occhi mi appariva chiaro il CD e la dedica scarabocchiata sopra: ''A Nicky, dalla tua libraia preferita. Spero che penserai a me e al nostro viaggio a Firenze ogni volta che lo ascolterai!'', firmato ''J. '', e pensai che forse quella J. era proprio lei, Jessica. Il mio stomaco si chiuse. Quindi era stata così importante, e chissà, magari lo era ancora. Per entrambi. Beh, avrei dovuto collegare le cose molto prima, ancora dopo quello che aveva detto Carlo in albergo: «non sarà mai Jessica...».
Ma anche Nick la pensava così? Per l'ennesima volta mi ricordai che non c'era motivo per cui me ne dovessi preoccupare. Io e Nick non eravamo altro che amici, o al massimo due complici colpevoli delle innumerevoli bugie raccontate in giro. Allora perché all'improvviso mi sentivo tanto inquieta?
«Oh» disse inespressivo Carlo. «Credevo che ormai te l'avesse raccontato.»
Non risposi, non scossi nemmeno la testa consapevole del fatto che stesse solo cercando di provocarmi. Tuttavia un dubbio malevolo si insinuò lo stesso: e se Nick mi ritenesse poco più di un cane da compagnia? Un passatempo nei giorni meno buoni? D'altronde da queste parti non c'erano molti divertimenti. No, non potevo credere una cosa del genere. Non di lui.
Finalmente sul viso di Carlo apparve un bagliore di buonumore. «Dunque non siete poi così in confidenza» osservò, ma sembrò più un'affermazione che una domanda.
«Carlo» sospirai esausta, «Almeno per stavolta possiamo evitare certi giochetti?»
«La verità rende liberi» citò lui biascicando. «Ma non a tutti piace.»
«Carlo...»
«E va bene» Carlo alzò appena le mani in segno di resa. «Come ti pare. Continua pure ad aspettare che il tuo principe azzurro si decida, ma nel frattempo spera di non fare la stessa fine di Jessica» concluse e sul suo viso guizzò chiaramente una smorfia. Con chi ce l'avesse di preciso però, non l'avrei saputo dire. Una cosa però era certa: era consapevole di aver stuzzicato la mia curiosità. Anzi, probabilmente ne era pure contento, ma preferii non dargli corda, in fin dei conti non era lucido.
«Ti riporto a casa» gli dissi e senza attendere di sentire le sue proteste tornai in auto e aspettai che si facesse passare le bizze da bambino indispettito e facesse altrettanto.
Gli ci vollero dieci minuti buoni, ma alla fine salì e riuscì persino a mettersi la cintura.
 
Ci volle quasi un'ora per tornare a San Lombardo e per tutto il tragitto Carlo era rimasto in silenzio, lasciandomi da sola con i miei pensieri. Gliene fui grata, anche se dubitavo che l'avesse fatto per me. Il suo volto era slavato e leggermente verdognolo quando mi fermai al parcheggio di un Motel che mi aveva indicato, e sperai che non dovesse dare nuovamente di stomaco.
«Casa dolce casa!» esordì sardonico Carlo sbattendo la portiera alle sue spalle. Squadrai la topaia davanti a me – con le sue finestre piccole e lunghe e le tende color fumo – e non potei far a meno di domandarmi se adesso fosse davvero questa la sua nuova casa. «Lisa è stata spietata, mi ha sbattuto fuori non appena siamo tornati dal nostro ricevimento» ridacchiò istupidito lui, incamminandosi verso l'edificio.
«Carlo, io...» cercai di dire qualcosa, ma subito strinsi le labbra e studiai di nuovo la bassa struttura rettangolare a cui ci stavamo dirigendo, non sapendo come proseguire. Avevo preteso la vendetta senza soffermarmi, neanche per un attimo, sulle conseguenze delle mie azioni. Era tipico di me, e adesso mi toccava fare i conti con quello che avevo seminato.
Carlo si strinse svogliatamente nelle spalle e afferrò il corrimano della scala che portava al corridoio di porte. Nella fretta però barcollò pericolosamente all'indietro e mi toccò afferrarlo per le spalle prima che potesse cadere. In ringraziamento ottenni un brontolio indistinto che ignorai, spingendolo a salire i gradini. In quel momento sembrava un pupazzo privo di volontà: si trascinò fino al numero sette e si frugò nelle tasche per estrarne una schedina magnetica. Con non poca fatica lo aiutai a infilarla nell'apposita apertura e lui spalancò la porta. Poi mosse pochi passi in avanti e si gettò sul letto matrimoniale ancora disfatto, lamentandosi dei capogiri. Rimasi incerta sulla soglia, studiando l'ambiente spartano e all'apparenza scomodo della stanza.
«Stai aspettando un invito?» ghignò Carlo mettendosi, traballante, su un fianco. «Non ricordavo che te ne servisse uno per gettarti su un letto accanto a me.»
Feci di nuovo finta di non sentirlo e mi morsi le labbra.
«Andiamo» sbuffò allora lui. «Possiamo finalmente smettere di nasconderci! Non era ciò che volevi? Posso essere tuo... anche per tutta la notte se lo vorrai» sorrise lascivo e il mio cuore sussultò.
Sì, era quello che avevo sognato praticamente ogni giorno da due anni a questa parte. L'avevo anelato con tutta me stessa, finché questo momento non era finalmente arrivato e io... io non riuscivo a godermelo perché non mi attraeva più come prima. Provai un senso di smarrimento misto a un pizzico di avversione.
Carlo sbuffò per la seconda volta e si alzò. «Ho bisogno di una doccia fredda» annunciò e non potei essere più d'accordo, anche se una parte di me metteva in dubbio la sua capacità di riuscire a restare dritto in piedi.
«Pensi di farcela e non scivolare?» domandai seria.
«Perché, altrimenti verresti a darmi una mano?» sbuffò un sorrisetto lui e senza attendere la risposta raggiunse una porta attigua e ci si chiuse dentro. Un istante dopo iniziò a scrosciare l'acqua. Mi augurai che si ricordasse di togliersi i vestiti prima di entrare nella cabina e finalmente mi decisi a superare la soglia della porta. Più per necessità di assicurarmi che non si sarebbe ammazzato accidentalmente una volta che me ne sarei andata che per curiosità.
La stanza si rivelò proprio spoglia; accanto al letto, sventrate, c'erano due valigie con le cose di Carlo, su un comodino c'era una sua foto mentre stringeva la mano a un tizio dai folti baffi neri. La sollevai per osservare meglio la bandiera colorata che spiccava alle loro spalle e qualcosa scivolò da dietro la cornice, precipitando sulla superficie sfregiata del mobile. Era un pezzo di foglio bianco, piegato in più parti. Me lo rigirai tra le dita e mordendomi il labbro inferiore, lo dispiegai. Dentro c'era stampato un breve scambio di SMS datati a qualche giorno prima e uno dei numeri mi sembrò famigliare, anche se sul momento non mi veniva in mente a chi potesse appartenere. I messaggi dicevano:
 
+39347******9
[15.44]
Come avevi previsto, si sono incontrati. Non so chi sia il ragazzo. Ho provato a parlargli ma non è stato collaborativo.
 
+39388******0
[16.32]
Grazie, ti restituirò il favore alla prima occasione.
Sei riuscito a vedere lo stemma?
 
+39347******9
[16.39]
No, non aveva anelli. Ma penso che non sia così stupido da andare in giro a sfoggiare una cosa del genere.
 
+39388******0
[16.48]
La mia opinione è che non ce l'abbia più. Sospetto che qualcuno gli abbia suggerito di sbarazzarsene, almeno per il momento. Ma sono sicuro che sia il nostro uomo.
 
+39347******9
[17.00]
Non puoi permetterti un altro sbaglio, Nick. Tuo padre sta perdendo la pazienza. Ha bisogno di risposte, ha bisogno di capire perch...
 
Improvvisamente la doccia cessò di scrosciare e mi resi conto che Carlo stava per uscire. Non avrei saputo dire cosa mi spinse a farlo (forse il nome di Nick stampato nero su bianco o il fatto stesso che questo foglio sembrasse importante per Carlo oppure anche solo perché desideravo finire di leggere la misteriosa conversazione) fatto stava che prima che lui potesse aprire la porta e tornare in salotto cacciai fuori dalla scollatura il mio smartphone e scattai delle foto al foglio. Dopodiché lo ripiegai e cercando di non agitarmi troppo lo infilai indietro sotto la cornice della foto. La rimisi sul comodino appena in tempo per sentire Carlo che apriva la porta del bagno.
«Allora non ti serve un invito!» esclamò vedendomi. Trasalii, e mi accorsi solo in quel momento che mi ero seduta sul ciglio del letto. Scattai immediatamente in piedi perché non volevo che si facesse idee sbagliate. E questo che fu strano: io, Vittoria Bianchi, non desideravo che Carlo mi si avvicinasse, e se non era ulteriore motivo per mettere in dubbio quello che provavo per lui, non avrei saputo cos'altro avrebbe potuto esserlo.
«Devo andare» dissi in fretta, cercando di non lasciarmi distrarre dal suo torso nudo su cui scintillavano minuscole gocce d'acqua. Stava decisamente meglio adesso, per cui non ebbi rimorsi a precipitarmi fuori dalla porta d'ingresso lasciandolo sbalordito in mezzo alla stanza.
 
Non avevo idea di dove sarei andata. Guardai alla mia destra, poi alla mia sinistra e infine mi lasciai sfuggire un sospiro: alle mie spalle c'era il Motel a cui non avevo intenzione di tornare, davanti c'erano solo file e file di villette nuove sotto un cielo aperto, perfettamente terso, e una lunga superstrada a separarci. Feci velocemente mente locale e guardai di nuovo a destra; se seguivo la stradina che affiancava la superstrada, una volta attraversato il ponte mi sarei trovata a pochi metri dall'appartamento di Giorgia. Da quando aveva lasciato la casa dei suoi non c'era più il pericolo di incappare in sua madre, per quanto mi fossi sforzata, quella donna non mi aveva mai preso in simpatia. Inoltre sembrava passata una vita dall'ultima volta che io e Giorgia avevamo passato una serata da sole. Quindi, raccogliendo lo strascico del vestito in una mano, m'incamminai in quella direzione.
Arrivata al semaforo un cretino prese a strombazzare e a urlare qualcosa sfrecciandomi accanto. Non dissi niente, ma alzai gli occhi al cielo un po' indispettita: possibile che fossi continuamente vestita e pettinata in modo inappropriato per la situazione? Ma poi un'altra auto mi sfrecciò davanti e ripeté il gesto del primo e stavolta mi trattenni a stento dall'alzargli il dito medio in risposta. E quando finalmente il semaforo diventò verde per me e fui a metà delle strisce pedonali, una moto mi passò a razzo a un centimetro di distanza, obbligandomi così a bloccarmi dov'ero. Il mio cuore si fermò per un secondo; l'uomo che la cavalcava non indossava il casco e, nonostante la velocità, non ebbi alcun dubbio su chi egli fosse: Coin. Il suo viso spigoloso era impresso nella mia memoria in modo nitido e avrei potuto scommettere qualsiasi cosa che fosse appena stato da Giorgia.
Ecco che un terzo clacson mi risuonò nei timpani, ma stavolta fu una signora a schiacciarlo perché mi ero imbambolata in mezzo alla strada e il semaforo era già tornato rosso. Scusandomi, mi affrettai a raggiungere l'altra sponda del marciapiede e nonostante il dolore ai piedi per colpa delle scarpe scomode, non mi fermai finché non fui davanti al palazzo in cui abitava Giorgia. Trovai in un attimo il suo campanello e lo premetti a lungo, finché la voce della mia amica non uscì dalla cassa sottostante.
«Coin?» domandò lasciando trasparire un sorriso nella voce.
«Apri» risposi. Forse nel mio tono ci fu la giusta dose di urgenza perché Giorgia obbedì subito, senza fare domande, e mentre raggiungevo l'ascensore sentii una porta aprirsi al quarto piano.
Salii nella trappola mortale – come la chiamavano i condomini perché l'ascensore aveva la brutta abitudine di guastarsi circa una volta a settimana – e mentre le porte della cabina si chiudevano il mio cellulare vibrò nella mia scollatura. Lo tirai fuori e mi accorsi che sullo schermo lampeggiavano due chiamate perse e la notifica di un messaggio non letto. Aprii quest'ultimo e buttai giù un groppo in gola; era Nick. ''Dove sei? Devo parlarti'' diceva, il problema era che io non ero pronta a farlo. Ero così confusa da quello che avevo provato per Carlo e imbarazzata da quello che era successo al ricevimento da non sentire alcun bisogno di ascoltare i suoi rimproveri o qualsiasi altra questione seria avesse urgenza di discutere con me. Perciò buttai giù un messaggio piuttosto breve e sostenuto, in cui lo informavo che stavo bene e che avremmo parlato quando sarei tornata, dopodiché spensi l'apparecchio.
In quella le porte dell'ascensore si aprirono.
«Vi! Come sei elegante!» mi salutò Giorgia dalla soglia della porta, forzando un sorriso. Era avvolta in un accappatoio con i capelli bagnati sparsi sulle spalle e a giudicare dall'odore di sigarette e alcol che proveniva dall'interno dell'appartamento non ebbi bisogno di altre prove per essere certa che Coin fosse stato davvero lì.
E a proposito di quest'ultimo: «chi è Coin?» la buttai lì, fingendo di non saperne niente.
Giorgia assunse lo stesso colore dei miei capelli e sfuggendo accuratamente il mio sguardo mi lasciò entrare. «Coin?» mi fece eco. «Chi?»
«Al citofono, credevi che fossi Coin» chiarii, gettando un'occhiata alle tende tirate sulle grandi finestre.
Giorgia si affrettò a riaprirle e ad aprire anche le ante, per far circolare l'aria. Io attesi in silenzio, piazzandomi sulla poltrona a gambe accavallate. Ma poi il mio sguardo catturò una maglietta buttata lì accanto, di un colore nero ormai sbiadito, e tornando a guardare Giorgia inarcai interrogativa le sopracciglia. Naturalmente lei si affrettò a farla sparire; la gettò nel cesto dei panni sporchi e mi liquidò con una spiegazione piuttosto banale (almeno quanto poco credibile): «è roba che porto in casa» disse e forzò un altro sorriso. «Non mi aspettavo visite, altrimenti avrei dato una pulita. Beh? Dove sei stata? Stai una favola!» aggiunse e fu chiaro che cercava di sviare il discorso. Per un attimo presi in considerazione l'idea di insistere, ma mi morsi la lingua; avevo paura che così facendo l'avrei obbligata solo a rintanarsi ancora di più nel suo guscio e di cavolate ne avevo già fatte abbastanza. Per questo presi un profondo respiro e sforzandomi per riuscire a fare finta di nulla le raccontai della festa di beneficenza, della fashion squad di Nick e della sorpresa che ci aveva fatto Carlo, irrompendo ubriaco nel giardino.
Giorgia ascoltò senza interrompere, spalancando sempre di più la bocca a mano a mano che proseguivo nella storia e quando ebbi finito, lei emise un verso incredulo. «Che faccia tosta!» esclamò. «E l'hai pure riaccompagnato a casa?!»
«Al Motel» la corressi, ma lei mi ignorò.
«Nick non può avercela con te!» protestò incrociando le braccia al petto. «Non potevi sapere che quel verme avrebbe annegato gli ultimi neuroni in una bottiglia!»
Da che pulpito. Ma ancora una volta mi trattenni e preferii liquidare la cosa con una stretta di spalle. «Non puoi negare che sia in parte colpa mia. Mi sono comportata in modo infantile ed ecco i risultati.»
«Infantile un accidente!» sbuffò Giorgia. «Se lo meritava! Cielo, sono così contenta che tu non debba più lavorare per lui!»
«Non è del tutto esatto.» dissi, spostando lo sguardo sul vestito.
«Come sarebbe a dire?» si accigliò Giorgia.
«Beh» esitai. «Il colloquio che ho fatto... in realtà si è rivelato un invito a spiare Carlo da vicino.»
«Cosa?!» Giorgia si raddrizzò e mi guardò allucinata. «E tu hai accettato?!»
Annuii con un movimento rigido del capo.
«Perchè?! Stavo già tifando per Nick! Perché vuoi rovinarti la vita?!» gesticolò disperata la mia amica, lasciandosi cadere sul divano.
La guardai di traverso: il bue che dava del cornuto all'asino! Quanto avrei voluto scandirlo ad alta voce... E invece abbandonai la testa contro lo schienale e grugnii. «La mia vita è ufficialmente un inferno! Non a caso il monolocale è bruciato...» mi autocommiserai.
Giorgia sospirò e assunse un'espressione sinceramente dispiaciuta: «Stai da Nick quindi?»
Annuii.
«Sapevi che potevi chiamarmi, vero?»
Annuii di nuovo.
Giorgia volse lo sguardo al soffitto e per qualche secondo si perse nei motivi floreali che aveva fatto dipingere lì sopra con i pastelli. Poi scattò improvvisamente in piedi e decretò: «qui c'è bisogno della tequila!» e con ciò sparì nei meandri della cucina, riemergendone fuori con una grossa bottiglia in una mano e due bicchierini nell'altra. Appoggiò quest'ultimi sul tavolino da caffè e stappò la bottiglia. Io la guardai armeggiare con il tappo storcendo il naso; non ero per niente sicura che fosse una buona idea, i casini che combinavamo dopo aver bevuto non erano un mistero per nessuno. Ma quando il liquido ambrato scivolò nel pregiato cristallo ogni esitazione iniziò a svanire. Al diavolo tutto! Ne avevo bisogno!
«Uno» contò Giorgia, passandomi uno dei bicchierini. «Due» si portò il suo alle labbra. «Tre!» ed entrambe buttammo giù la Tequila alla goccia.
La gola mi bruciò immediatamente, feci una smorfia e corsi in cucina in cerca del sale e delle fettine di limone. Non avrei retto il liquore liscio di nuovo. O meglio, il mio stomaco vuoto non l'avrebbe retto. Quindi tornai con l'occorrente in salotto e ripetemmo il rituale ancora, ancora e ancora una volta, finché il mondo non cominciò a sembrarmi un posto migliore. Presto tutto si fece più sfocato e la testa iniziò a girarmi. Avrei fatto meglio a fermarmi, ma la sensazione di leggerezza era così inebriante e confortevole che semplicemente non ci riuscii.
Due ore dopo, mentre il resto della città si apprestava a sedersi normalmente a tavola per l'ora di cena, io e Giorgia ci strafogavamo di popcorn fatti in casa, unti e salati, e piangevamo, senza ritegno, per il finale di Titanic.
«Quella culona di Rose!» tirò su col naso Giorgia. «Dovrebbero rigirare il finale! Jack non si meritava una fine del genere. Che cosa pensavano di insegnare alle donne con questo film? Che l'amore finisce sempre da schifo?» protestò infervorandosi.
Io mi soffiai il naso e sbattei un paio di volte le palpebre per scacciare via le lacrime – del trucco che mi avevano fatto con tanta cura rimaneva ormai solo un vago ricordo. «No, penso che con questo intendevano che non potrai mai stare con la persona destinata a te. O se proprio ci tenete, dovreste prima crepare entrambi!» esclamai contrariata, al che Giorgia annuì – o forse era più preciso dire che fece ciondolare la testa – ed entrambe prendemmo dei fiocchi di pop-corn e iniziammo a tirarli contro lo schermo della TV. Ci divertimmo così per quasi tre minuti, finché non cominciò a girarmi la testa. Fui costretta a smettere e a portarmi una mano alla bocca. Osservandomi anche a Giorgia passò la voglia di agitarsi ancora e improvvisamente lei scattò in piedi e corse in bagno a vomitare. Come una cretina scoppiai a ridere: in quel momento non differivo affatto da Carlo né dalla mia versione infantile, mi comportavo ancora una volta da ragazzina stupida, patetica e meritevole di quello che le stava accadendo e questo cambiò drasticamente il mio umore in peggio; in un attimo scoppiai a piangere e mi accasciai sul divano, singhiozzando come una bambina. Non avrei saputo dire quanto tempo avessi passato in quella posizione, fatto stava che a un certo punto le mie palpebre mi erano sembrate troppo pesanti per restare aperte e con il mondo che ancora mi girava attorno, mi ero addormentata.
Quando mi svegliai mi ritrovai coperta da un plaid, con le scarpe ordinatamente appoggiate da una parte. Dovevano essere appena passate le sei a giudicare dalla luce che filtrava attraverso le fessure ai lati delle tende tirate e mi sentivo come se un elefante mi avesse ballato la salsa sullo stomaco per tutta la notte. Ma peggio di tutto fu la sensazione di disidratazione che mi portò a mettermi seduta, ignorando i forti capogiri, e a guardarmi lentamente attorno in cerca dell'acqua. Purtroppo in salotto non ce n'era, quindi mi alzai e, scalza, mi trascinai in cucina, odiandomi, come accadeva dopo ogni sbronza, per essermi lasciata tentare dal richiamo della tequila.
Quando entrai nella stanza storsi il naso per il forte odore di bacon e strizzai gli occhi per l'improvvisa ondata di luce che mi investì. Lo stupore più grande fu però trovare Giorgia ai fornelli, fresca come una rosa e persino vivace, mentre si destreggiava tra il frigo e le padelle.
«Buongiorno, raggio di sole!» mi prese in giro, afferrando un piatto dove buttò delle uova strapazzate e le fettine di carne croccanti. «Questo è per me» precisò notando la mia smorfia disgustata. «Per te invece abbiamo questo» proseguì e batté sul tavolino da pranzo, in sequenza, una tazza piena di caffè, una bottiglietta d'acqua da un litro e un bicchiere che conteneva un liquido torbido, non meglio identificato. «È salamoia» mi spiegò allora. «Chiamali pure vecchi rimedi della nonna!»
In tutta risposta storsi il naso, ma non protestai; mi lasciai cadere sulla sedia e stappai la bottiglia dell'acqua, tracannandola quasi fino in fondo. Giorgia rimase ad osservarmi pensierosa, giocando con la collanina, finché il ciondolo a forma di ruota non si staccò e rotolò fino ai miei piedi.
«Maledizione!» imprecò lei «È già la terza volta che si stacca!»
«Non preoccuparti, ci penso io» le dissi con voce incredibilmente roca. Me la schiarii e lentamente mi chinai giù per raccogliere il gingillo. Non appena lo raccolsi, mi cadde dalla scollatura il telefono che si aprì in due. Quindi fu il mio turno di imprecare e Giorgia fu comunque costretta ad avvicinarsi per darmi una mano; lei prese il suo ciondolo e le due metà del mio cellulare e appoggiò quest'ultime sul tavolo.
«Grazie» le dissi, lei scosse il capo con un sorrisetto, come a dire ''figurati, imbranata'', poi mi avvertì, riferendosi alla collana: «vado a riagganciare questo affare» e si allontanò fuori dalla stanza. Io presi distrattamente il caffè e rimisi insieme il telefono, accendendolo per assicurarmi che funzionasse ancora. Per fortuna si accese normalmente e stavo giusto per tirare un sospiro di sollievo quando lo schermo si illuminò avvertendomi che c'erano state diverse chiamate perse e almeno una decina di sms in arrivo, tutti da parte di Nick. Preoccupata che fosse successo qualcosa aprii immediatamente la casella dei messaggi e cliccai sul suo nome. Ma quando lessi quello che aveva da dirmi mi si strinse lo stomaco e distratta rovesciai un po' di caffè sulla tovaglia.
 
AVREI VOLUTO DIRTELO PERSONALMENTE, MA CONTINUI A RISULTARE NON RAGGIUNGIBILE...
DOMATTINA PRENDERÒ IL PRIMO VOLO PER L'AMERICA.
SPERO CHE TU STIA DAVVERO BENE.
 
NICK



---------------------------------- MOMENTO AUTRICE ----------------------------------


Salve a tutti! Lo so, ho dovuto mettere in pausa questa storia per quella che è sembrata un’eternità.. Purtroppo non sono riuscita a fare prima neanche stavolta e mi dispiace ammetterlo, ma penso che neanche in futuro riuscirò a essere veloce nell’aggiornare. Comunque sia, ho intenzione di portarla alla fine e sto già scrivendo il prossimo capitolo. Grazie a tutti quelli che sono rimasti ancora con le vicende di Vittoria e Nick ♥, non avete idea di quanto apprezzi! E naturalmente, un grazie anche ai nuovi lettori!!

M.Z.

   
 
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