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Autore: Adeia Di Elferas    01/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Suo malgrado, Francesco Gonzaga era stato costretto a chiedere l'aiuto di Giovanni Sforza. Anche se non aveva ancora superato il fatto che il signore di Pesaro avesse rimpiazzato la prima moglie, Maddalena, sorella del Marchese di Mantova, e che per di più l'avesse fatto scegliendosi come sposa la figlia illegittima del papa, sapeva che doveva tentare di tutto.

Sua moglie Isabella stava per partorire, e in quelle settimane era stata tormentata dalle lacrime e dal rimorso di non essere stata accanto alla madre quando era morta. Per consolarla, Francesco le aveva promesso che se il figlio che portava in grembo fosse stato una femmina, l'avrebbero chiamato Eleonora.

L'imminente nascita dell'erede e la momentanea incapacità della moglie di affiancarlo nelle decisioni di Stato avevano fatto sì che Francesco fosse sempre meno sicuro di quello che sarebbe accaduto una volta che la guerra fosse cominciata.

Così non aveva perso più tempo e aveva mandato a Roma il suo ambasciatore, Giorgio Brognolo, affinché accettasse la mano che Giovanni aveva teso loro. Quale che fosse la parte scelta dal papa, il Marchese voleva essere da quel lato dello schieramento.

Aveva imposto a Brognolo la massima discrezione. Non voleva che si sapesse in giro dei suoi maneggi. Soprattutto, e su questo punto anche lo Sforza era stato tassativo, non doveva arrivare nemmeno mezza parola all'orecchio del Cardinale Ascanio.

A spaventare più di ogni altra cosa Francesco era la smodata fame di potere del Moro, che ormai non nascondeva più le sue mire.

Quel primo dicembre, a Milano, si erano tenute le nozze per procura tra Bianca Maria Sforza e Massimiliano d'Asburgo, rappresentato in loco dal Vescovo di Brixen e la città era stata decorata in un modo più che sfarzoso.

Ma la cosa che aveva fatto rabbrividire il Gonzaga era stato sapere che Beatrice Este aveva voluto salire sul carro assieme a Bianca Maria, mettendosi in mostra come a volerle rubare la scena e prendersi gli applausi e le grida di gioia che il popolo stava invece inviando alla futura sposa.

“Con la sua camora in velluto morello con decori in oro massiccio – aveva riferito l'ambasciatore mantovano a Milano – la Duchessa di Bari ha adombrato in pieno la povera Bianca Maria, futura Imperatrice, benché ella indossasse un finissimo abito di raso cremisi ricamato a raggi d'oro!”

In più, a preoccupare Francesco c'era un altro dettaglio della condotta di Ludovico il Moro: la sua cieca fede negli astri.

Il reggente del Duca di Milano aveva infatti lasciato partire la nipote alla volta dell'Impero il 3 di dicembre, sotto una neve copiosa, mettendo la sua salute e la sua stessa vita in pericolo, malgrado farla giungere dal marito incolume fosse anche per il Moro di massima importanza.

Per tutta questa serie di motivi, il signore di Mantova era arrivato al punto di non aver più alcuna fiducia nella capacità di giudizio dello Sforza e dunque non gli restava altro che affidarsi a qualcuno di più potente.

 

Quell'anno il Natale a Forlì fu particolarmente mesto. Le intemperie avevano reso difficile pianificare la redistribuzione del cibo e in molti stavano già patendo la fame.

La Contessa aveva deciso di non indulgere in feste, né private, né pubbliche, limitandosi ad accettare di partecipare alle messe solenni che le chiese di Forlì avevano organizzato per supplire alla mancanza di altre cerimonie.

Ovviamente a quella che si tenne in Duomo, Caterina mandò solo i figli e Giacomo Feo, che si presentò vestito di blu e rosso, un grande cappello di velluto intessuto in oro e una grande spilla bordata di pietre preziose. Quella sola apparizione venne letta come uno schiaffo alla povertà della gente comune.

L'anno scivolò via prima che gli abitanti della rocca di Ravaldino se ne potessero avvedere e la notte dell'ultimo giorno di quel 1493 Caterina si permise una cena appena più ricca del solito, in onore della madre, che era arrivata a sorpresa a farle visita.

“Ottaviano mi sembra molto distante – disse Lucrezia, con tono preoccupato, mentre la figlia le versava da bere – lo trovo estremamente taciturno.”

La Contessa, che preferiva il figlio quando stava in silenzio, piuttosto che quando apriva bocca per dire cattiverie, fece spallucce: “Si vede che non ha voglia di compagnia.”

La sala da pranzo era calda e piena di voci e risate. Il pasto consumato in compagnia dei cacciatori e dei servi della rocca era stata una bella idea e aveva dato modo a Caterina di chiacchierare con la madre con una ragionevole riservatezza senza doversi ritirare in qualche stanza solitaria.

Non sapeva dire bene perché, ma in quei giorni si sentiva già abbastanza sola e non avrebbe sopportato il pensiero dei suoi conoscenti che facevano festa mentre lei se ne stava in una camera silenziosa, seppur in compagnia di sua madre, quando invece solo qualche mese prima, non avrebbe sperato nulla di meglio...

Benché avesse risposto con noncuranza a Lucrezia, Caterina cercò Ottaviano tra le gente che scherzava e brindava e lo trovò, in effetti, solo in un angolo con le braccia allacciate sul petto.

Perfino Cesare, che da quando si era immerso appieno nei suoi studi teologici era diventato un ragazzino tutto serietà e paroloni latini, si stava divertendo come un pazzo, discutendo animatamente con alcuni dei soldati che avevano deciso di partecipare al banchetto.

Lucrezia aveva ripreso a parlare, ma Caterina non l'ascoltava, troppo presa dall'osservazione silenziosa e lontana di Ottaviano. Difficilmente aveva occasione di spiarlo così apertamante in una situazione sociale senza che lui se ne accorgesse. Ne analizzò il profilo lungo e dritto del naso, i capelli castani portati lunghi fino alle spalle, inanellati esattamente come lo erano stati quelli di Girolamo.

Aveva sempre lasciato che le circostanze della sua nascita e la sua ineluttabile somiglianza fisica col padre pregiudicassero il suo affetto per lui e la sua oggettività nel valutarlo. Tuttavia, quella notte, mentre cercava di osservarlo solo ed esclusivamente per quello che era lui e non per quanto assomigliasse a un fantasma, non poteva evitare di convincersi sempre di più che Ottaviano non fosse adatto a reggere il peso di uno Stato.

Forse lo sarebbe stato, se fosse stato educato in modo differente o se avesse potuto contare su una figura paterna migliore. 'O su una figura materna più presente' le suggerì malignamente il suo subconscio.

Cesare non avrebbe mai accettato di diventare Conte, sia per rispetto verso il fratello maggiore, sia perché già avviato a una carriera che sembrava apprezzare.

Livio, che quella sera continuava a tirar su col naso, subito provato dal freddo del cuore dell'inverno, non aveva la salute necessaria a diventare un capo di governo solido e stabile.

Galeazzo Maria e Sforzino erano ancora troppo piccoli per lasciar intendere che tipo di uomini sarebbero diventati.

Poi gli occhi di Caterina caddero su Giacomo che, come ogni volta in cui c'era un ballo a una festa, si era lanciato nelle danze, saltando e dimenandosi come un folletto. I suoi capelli soffici si alzavano e si abbassavano a ritmo con la musica e, anche se lui sembrava troppo assorto nel movimento per accorgersene, gli occhi delle poche donne presenti – le serve e qualche moglie dei soldati – erano puntati su di lui.

Proprio mentre Caterina stava giungendo alla dolorosa conclusione che forse avrebbe dovuto far in modo di scavalcare Ottaviano, nominando suo erede Bernardino e quindi eventuale reggente Giacomo, una frase uscita dalle labbra di sua madre Lucrezia la distrasse.

“Anche qualche giorno fa... Improvvisamente è svenuta, facendoci spaventare tutti e quando il medico l'ha visitata ha confermato che ha avuto un'altra gravidanza che non ha portato ad alcun frutto.”

“Come?” domandò Caterina, che davvero non aveva sentito l'inizio del discorso, ma aveva intuito qualche potesse essere il soggetto.

“Bianca, tua sorella.” ribadì Lucrezia, pensando che quell'esclamazione della figlia fosse solo legata all'entità della rivelazione: “Lei non vorrebbe che te ne parlassi, ma dato che sembra intenzionata a continuare a provare a concepire un figlio, vorrei almeno cercare di farla rischiare il meno possibile.”

La Contessa si sistemò un po' sulla sedia, trovando improvvisamente fuori luogo tutte quelle risate di sottofondo.

“Mi chiedevo se tra le tue pozioni ci fosse qualcosa che possa esserle utile.” concluse Lucrezia, con gli occhi un po' lucidi e le mani chiuse l'una nell'altra.

La donna, che stava entrando nel suo cinquantaquattresimo anno di vita, sembrò a Caterina assai più fragile e anziana, in quel momento. Mentre parlava accoratamente di Bianca, la Contessa la vide per la prima volta fragile.

“Non ho nulla del genere nel mio repertorio.” disse subito Caterina, pensando come in tutti quegli anni non si fosse mai nemmeno posta il problema di cercare un rimedio all'infertilità femminile, anzi, a volte aveva cercato, pur senza successo, di cercare la chiave del suo contrario.

Quando le labbra di Lucrezia ebbe un breve tremito di delusione, Caterina mentre pensava a come dovesse sentirsi Bianca e a come dovesse essere difficile anche per Tommaso che, conoscendolo, doveva di certo sentirsi in colpa, disse: “Però potremmo provare con un ricostituente molto potente che ho messo a punto qualche tempo fa. Di certo la farebbe stare in forze. Proprio non capisco perché sia così impaziente di avere un figlio, però.”

Lucrezia parve ferita da quell'inciso finale e Caterina notò il modo in cui i suoi occhi si abbassarono appena, mentre le sue spalle si facevano strette strette sotto al suo scialle di lana cruda, indossato a discapito dell'eleganza, per proteggersi dai dolori artrosici.

“Se vuoi...” cominciò titubante Caterina.

Lucrezia alzò un po' le sopracciglia, in ansiosa attesa e così la figlia concluse, un po' riluttante: “Posso provare a contattare qualche alchimista di mia conoscenza per vedere se c'è in giro di meglio, ma non assicuro nulla.”

A quel punto la madre afferrò la mano della figlia e la strinse con forza: “Grazie.”

Caterina fece per rispondere che non era il caso di ringraziare, quando Giacomo tornò al tavolo tutto accaldato, chiedendo, con un mezzo sorriso: “Non ti va di ballare?” poi parve accorgersi della vicinanza di Lucrezia e così raddrizzò il tono: “Vi andrebbe un ballo, Contessa?”

“Non fingete per me.” fece subito la donna e lasciò la figlia libera di andare a ballare con il suo uomo.

Mentre Caterina cominciava a saltellare in mezzo alla sala, con il viso ancora ombreggiato dalle preoccupazioni sollevate dal discorso di sua madre, Lucrezia finì il suo vino, beandosi della bellezza della figlia. Quando vide la nipotina, Bianca, ballare a poca distanza da lei con due giovani soldati, il suo cuore si riempì di calda tenerezza e si chiese se e quando Caterina si sarebbe resa conto della fortuna che aveva avuto nel poter partorire sette figli senza perderne nemmeno uno.

 

La corte di Mantova quell'ultimo giorno dell'anno non era presa come tutte le altre corti italiane dal festeggiare il 1494, ma bensì dall'attendere la nascita del primo figlio di Francesco Gonzaga e sua moglie Isabella Este.

Il Marchese era irrequieto e non parlava più con nessuno da ore. La sua speranza era di avere subito un erede, ma cercava di non convincersi troppo che il nascituro fosse un maschio per evitare una delusione cocente in caso contrario.

Per quel giorno in casa dei Gonzaga non si era parlato mai di guerra e anche i pensieri tormentosi del signore della città erano stati accantonati in favore di quel pensiero così ancestrale e ricco di speranza: una nuova vita.

Quando finalmente una delle levatrici uscì dalla camera della Marchesa Isabella, Francesco si bloccò sui due piedi e attese il verdetto.

La donna si asciugò il sudore della fronte con la manica del camicione, dando all'attesa una pregnanza del tutto particolare, tanto che per un attimo Francesco fu certo che stesse per riferire qualcosa di orribile, come la morte di Isabella o quella del bambino.

Invece, dopo quel gesto esasperatamente lento, la levatrice si aprì in un sorriso sollevato e annunciò: “Una bella bimba e in salute.”

Francesco non riuscì a trattenere la propria reazione di disappunto, stringendo i denti e i pugni, ma si riprese subito, mentre il suo segretario e altri uomini presenti gli facevano i complimenti.

Quando finalmente fu lasciato libero di recarsi al capezzale della moglie per vedere la bambina, Isabella lo accolse con un sorriso un po' tirato, segno che nemmeno lei era entusiasta di aver dato alla luce una femmina.

“Dunque, ecco Eleonora.” disse piano Francesco, appoggiando una delle grandi mani callose sul testolino ancora umido della piccola, che Isabella stringeva al seno come per proteggerla.

La Marchesa annuì e sospirò, e, mentre le levatrici rientravano nella camera per cominciare a sistemare tutto e portar via i teli sporchi di sangue e i mastelli d'acqua usata, il signore di Mantova soggiunse, abbozzando una risatina: “Speriamo che almeno sia bella come te.”

 

Giovanni Sforza stava rimuginando, come spesso ormai faceva, sulla sua delicata situazione. Dalla notte in cui era stato costretto a unirsi a sua moglie davanti a non sapeva nemmeno più quanti testimoni, non aveva più avuto il coraggio di restare solo con lei nemmeno per una manciata di secondi.

Anche quando erano presenti le dame di compagnia più intime di Lucrecia, cioè Giulia Farnese e Adriana Mila, Giovanni non riusciva a spiccicare parola. Solo quando si trovavano in qualche ambiente affollato il signore di Pesaro osava scambiare con lei qualche convenevole, ma le risposte disinvolte, seppur molto garbate, della moglie, avevano sempre il misterioso potere di ridurlo di nuovo al silenzio.

A sommarsi a quella spiacevole situazione, c'era l'ambasciatore di Francesco Gonzaga che non faceva altro che chiedere e farsi promettere protezione per il suo signore e dall'altra parte c'era Juan Lopez, il datario del papa, che rispondeva a ogni tentativo di intercessione di Giovanni alludendo alle difficoltà economiche dello Stato Pontificio.

“A maggior ragione – sottolineava lo spagnolo – ora che la guerra sta per cominciare...”

Così Giovanni non sapeva che pesci prendere e passava le sue giornate in bilico tra la paura di incontrare in qualche corridoio deserto il giovane e rutilante Cesare Borja e la speranza di ottenere qualcosa da quello sciagurato matrimonio.

Quella mattina di inizio gennaio, quindi, quando venne chiamato d'urgenza nelle stanze di Ascanio Sforza, non sapeva se tremare per l'ansia o se incrociare le dita e confidare in buone notizie.

“I Gonzaga!” sbottò Ascanio, non appena lui e Giovanni furono soli: “Nemici giurati della nostra casa!”

Il signore di Pesaro avrebbe voluto ricordare al Cardinale che i Gonzaga erano uniti a loro da più di un vincolo matrimoniale e chiamarli nemici era quanto meno superficiale da parte sua, ma la voce non gli uscì di bocca e così il porporato poté continuare la sua sfuriata.

“Perché avete rivolto la vostra fedeltà al vostro vecchio cognato, quando qui a Roma avete cognati migliori?! Questo, ah, questo, Giovanni, questo è il coltello nel cuore, lasciatevelo dire! Ma lo sapete che Mantova ci volterà le spalle, tanto a noi Sforza, quando a noi servi del papa?!” la voce di Ascanio si era fatta acuta e tagliente e l'uomo si era messo a camminare rapidamente per la stanza, scalciando la tunica rossa a ogni passo, come se volesse sfogarsi contro il proprio abito: “Noi Sforza siamo come bastoncini, Giovanni, uno per uno verremo spezzati, quindi dobbiamo restare uniti e per farlo dobbiamo dirci tutto e non voltarci le spalle! Non sappiamo di chi fidarci, dunque dobbiamo fidarci del nostro sangue!”

Ascanio continuò a lungo, tanto che Giovanni ebbe la netta impressione che il sole stesse raggiungendo il mezzogiorno mentre il parente ancora inveiva contro di lui, rimarcando a ogni parola quanto quel momento fosse per gli Sforza pericoloso e incerto.

“Ma dunque...” fece a un certo punto il signore di Pesaro, quando il Cardinale si fermò un momento per riprendere fiato: “Mi state dicendo che se fossimo costretti a scegliere tra il papa e il nostro parente Ludovico, noi dovremmo scegliere Ludovico?”

Ascanio si bloccò, gli occhi spalancati e la bocca secca mezza aperta. Giovanni capì di aver osato troppo e così si scusò subito, facendo mostra di aver parlato senza ragionare, e di essere cosciente del suo legame con il Santo Padre e di essere un fedele servo del papa.

“Guai a voi se parlerete del nostro incontro con chicchessia.” concluse Ascanio, un po' pentito di aver preso a male parole il signore di Pesaro.

Non aveva mai sopravvalutato Giovanni Sforza e non intendeva cominciare proprio dopo quel confronto, ma iniziava a capire che la confusione che aveva nella testa gli toglieva la lucidità necessaria. Il doppiogioco, le spiate, le astuzie, le fini mosse politiche che un tempo Ascanio sapeva gestire senza perdere nemmeno una notte di sonno, ora lo stavano stremando, denunciando una grande verità che lui non voleva vedere.

Per quanto si dibattesse e combattesse la sua guerra personale, Ascanio Sforza non sapeva più di chi fidarsi.

Giovanni, appena dopo il pranzo, pur scosso nel profondo da una grande agitazione e non certo di fare la mossa giusta, si recò da Alessandro VI.

In breve, mentre il papa lo fissava coi suoi occhi voraci e indagava quanto di vero ci fosse nelle sue parole, Giovanni ripeté quasi tutto quello che Ascanio gli aveva gridato contro e si rimise alla clemenza di Sua Santità.

Rodrigo scosse il capo e giunse le mani: “Quell'Ascanio – sospirò contrariato – è un mal uomo e tutto il mondo non lo contenterebbe.”

 
   
 
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