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Autore: Adeia Di Elferas    04/10/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Se non è un castigo divino questo...!” esclamò Piero Medici, annuendo compiaciuto alla notizia che Domenico Ghirlandaio era morto quell'11 gennaio 1494 all'età di quarantacinque anni per misteriose 'febbri pestilenziali'.

“Ma che state dicendo?” chiese Alfonsina Orsini, guardando il marito con orrore.

Piero agitò una delle mani inanellate e spiegò, con leggerezza: “Stava o non stava lavorando a dei lavori commissionari da Siena e da Pisa?”

Alfonsina annuì, senza capire dove l'uomo volesse arrivare con quella domanda fuori luogo.

Piero allargò le braccia trionfante e concluse: “Ebbene, Siena è nostra nemica e si è dimostrata simpatizzante della Lega, dunque questo è solo un castigo divino!”

Con un colpetto di tosse, il cancelliere del signore di Firenze mosse un passo in avanti e Piero lo guardò stranito, come se non fosse accorto di lui fino a quel momento.

Cautamente, l'uomo provò a dire: “Mio signore, il Ghirlandaio non è l'unico nel fiorentino che s'è ammalato di febbri pestifere... Forse sarebbe prudente chiamare dei monatti e...”

“Assurdità!” fece subito il Fatuo: “Savonarola dice che non ci saranno pestilenze, fino a che lui sarà in città.”

Il cancelliere guardò per un lungo istante il suo signore, chiedendosi come potesse credere davvero a una simile cose, soprattutto dato che la profezia era stata emessa da un uomo che tramava apertamente per rovesciarlo.

“Piuttosto, piuttosto...” Piero fece segno alla moglie di andarsene dalla stanza e si avvicinò al cancelliere, ignorando lo sbuffare di Alfonsina che, prendendosi le gonne con le mani, era uscita di buon passo, battendo i piedi a terra con più furia del necessario: “I resoconti sulle nostre truppe?”

Il cancelliere fece un'espressione dolente e si apprestò a illustrare la tragica situazione di Firenze, patria ormai più di disertori, che non di ferventi soldati.

 

Da quando la lettera di Isabella d'Aragona aveva scosso fin nelle fondamenta la corte di Ferrante, Napoli stava ribollendo come un calderone. L'ultimatum per il Moro era già stato redatto e spedito da tempo e l'attesa di una sua risposta seria permeava ogni stanza del palazzo reale.

Dalle campagne alla città non si parlava d'altro che di guerra. Tutti si stavano preparando al peggio e l'esercito stava ingrossando le sue fila con ogni mezzo. Le armi si ammassavano nei quartieri militari e in ogni strada e via si trovavano soldati intenti a reclutare giovani uomini pronti a difendere il re.

Per conto suo, intanto, Ferrante cercava di rispolverare il maggior numero di amicizie e vecchie alleanze, ben sapendo che l'esercito di Carlo non sarebbe stato una misera accozzaglia di saccomanni e poveracci. La Francia avrebbe di certo impiegato al meglio le truppe più specializzate del mondo, avrebbe chiamato al suo soldo gli svizzeri e magari anche i tedeschi e se a loro si fossero davvero uniti anche i milanesi, con le loro armature moderne e il loro stile di combattimento ordinato e letale, non ci sarebbe più stata storia.

Ferrante scrisse l'ultima frase della lettera, in cui assicurava che lui, i suoi figli e i suoi nipoti avrebbero combattuto fino alla fine con ogni forza e ogni mezzo contro i Francesi e che avrebbero avuto ragione di loro, giacché i combattenti italiani erano per natura superiori a quelli stranieri.

Il suo fisico, un tempo muscoloso e possente, si era fatto asciutto, coperto da pelle grinzosa e i suoi capelli, tenuti in gioventù sempre molto corti e curati per poter indossare l'elmo e la corona con maggior disinvoltura, cadevano ora morbidi e bianchi fin sulle spalle.

Eppure Ferrante non si sentiva vecchio. Sessantatré anni non erano pochi, per un uomo, ma egli sentiva di dover resistere ancora.

Aveva fatto sì che i suoi figli potessero essere pronti, in caso di sua morte, a fronteggiare la guerra che sarebbe di certo scoppiata a breve. Aveva dato a Federico il comando della flotta, che contava ben cinquanta galee, e Alfonso poteva contare su un manipolo di tremila uomini che avrebbe dovuto comandare in prima persona.

I soldi non erano stati un problema: i banchieri catalani avevano fatto a gara per prestare i soldi al venerato re di Napoli e avevano piegato il capo a tassi di interesse quasi irrisori.

Solo che...

Ferrante fermò a mezz'aria una delle mani tremanti e una scintilla d'ira accese i suoi occhi. Com'era accaduto? Com'era diventato tanto vecchio? Quando era successo?

Con fare sbrigativo, il vecchio re chiuse la missiva che aveva appena finito di scrivere, fece colare la ceralacca e poi spense la candela che illuminava il suo lavoro con un soffio.

In capo a una settimana, re Ferrante esalò il suo ultimo respiro.

 

La notizia della morte di re Ferrante arrivò subito a Forlì e in un lampo metà degli ambasciatori e dei diplomatici che erano in città per parlamentare con Caterina Sforza ritornarono a Napoli per assistere ai funerali del vecchio re e rendere omaggio al nuovo sovrano: Alfonso.

La Contessa sentiva che l'inevitabile sarebbe a breve accaduto. Passato il funerale e un breve periodo di lutto, l'irrequieto Alfonso d'Aragona non avrebbe più assecondato i temporaggiamenti di Ludovico Sforza e avrebbe mosso guerra a Milano senza attendere oltre.

I tempi erano maturi e Caterina doveva mettere a punto gli ultimi preparativi per la sua difesa. Se aveva potuto sperare di tamponare la crisi impedendo sia a Napoli sia a Milano di passare dalle sue terre, ora che Alfonso guidava i partenopei, era certa che il napoletano avrebbe invaso le sue terre con la forza, piuttosto che lasciare la via Emilia al Moro.

Il Consiglio ristretto della Contessa era stato convocato in grande urgenza, non appena era giunta la nuova della morte di re Ferrante e, dopo un primo momento di generale sgomento, tutti i presenti si erano dati da fare per trovare le migliori soluzioni del caso.

Si era deciso, innanzitutto, di aumentare la riscossione in termini di generi alimentari, in modo tale da poter avere, già quella primavera, le scorte necessarie per resistere a un lungo eventuale assedio.

Dopodiché la fazione dei Marcobelli aveva fatto sì che la Contessa concedesse di togliere il rastello sulla via Emilia, per favorire gli ultimi liberi scambi commerciali e per evitare le continue ritorsioni degli stranieri che, dovendo pagare il pedaggio, spesso poi si rivalevano sui contadini che abitavano appena fuori città, derubandoli o facendo loro qualche torto di varia natura.

Infine si era deciso di investire oltre la metà dei ricavati dalle tasse per l'acquisto di armi di nuova generazione e per l'ingaggio di alcuni costruttori, che sarebbero stati fondamentali nel caso in cui ci fossero stati seri danni alle rocche o alle mura delle città.

Luffo Numai, durante tutta la riunione, scrisse minuziosamente ogni cosa su un foglio di pergamena che poi avrebbe inviato a Tommaso Feo, il Governatore di Imola, affinché si adeguasse alle nuove richieste della sua signora.

Teoricamente, anche lui avrebbe dovuto presenziare a quella riunione, ma Caterina aveva usato il pretesto della fretta per non avvertirlo per tempo, evitando così di costringere lui e Giacomo a stare nella stesse stanza in sua presenza.

Quando il Consiglio venne sciolto, Luffo Numai attese studiatamente che tutti fossero usciti, Ottaviano compreso. Restava ancora il Governatore Generale, ma ormai il Consigliere aveva capito che quell'uomo era un male necessario e che riuscire a parlare con la Contessa senza l'orecchio del Feo in ascolto era pressoché un'utopia.

Così, fingendo che Giacomo non esistesse, Luffo si appropinquò a Caterina e disse: “Mia signora, non vorrei sollevare più questa questione, ma ora che il re di Napoli è Alfonso d'Aragona, capite bene che dobbiamo cercare più sicurezza per il vostro Stato.”

La Contessa, che era ancora seduta al tavolone delle trattative, non accennò ad alzarsi, così il Consigliere prese posto accanto a lei, mentre il Governatore Generale, abituato ad atteggiarsi disinteressato a certe cose, stava raccogliendo i fogli lasciati in ordine sparso sul piano dall'Oliva e da uno degli Orcioli.

“Capisco che per il Conte Ottaviano non abbiate ancora trovato una sposa adeguata e sono d'accordo con voi nel dire che per lui è ancora presto...” iniziò Numai, camminando sulle uova, mentre le sopracciglia della Contessa creavano una riga unica sopra i suoi occhi: “Ma credo sia giunto il momento di prendere una decisione per Bianca. Ora più che mai credo che prometterla ad Astorre Manfredi sarebbe la scelta più assennata. Uniremmo i due Stati e in più ci assicureremmo indirettamente ancora di più la protezione di Firenze e quindi di Napoli.”

Caterina non disse nulla, abbassando lo sguardo, come se stesse valutando alcune variabili che il Consigliere non riusciva a vedere. Giacomo Feo, intanto, si era fatto più nervoso. Luffo era pronto a giurare che quell'argomento fosse stato al centro dei loro discorsi, se non proprio quel giorno, almeno di recente e che la Contessa non fosse stata molto contenta di parlarne.

“Astorre Manfredi è un bambino molto a modo, mi dicono. Ha solo nove anni, ma si sta già dimostrando abile con le armi e incline allo studio.” provò Luffo, pensando che fosse proprio il lato umano, quello che bloccava Caterina: “Vostra figlia compirà quattordici anni quest'anno, la differenza d'età è non indifferente. Passeranno anni, prima che il matrimonio possa essere davvero celebrato. Sarebbe solo un compromesso...”

Alzandosi di scatto, come se qualcosa l'avesse fatta arrabbiare improvvisamente, Caterina esclamò a denti stretti: “E sia, Numai, come dite voi! Scrivete a Niccolò Castagnino, il tutore di Astorre, e proponetegli un accordo matrimoniale che sia accettabile per entrambi.”

Il Consigliere non poteva credere alle sue orecchie. Dopo tanto lavorare per ottenere quel risultato, era quasi sconvolto da quella improvvisa autorizzazione a iniziare le trattative.

Dopo aver ringraziato la sua signora e averle assicurato che quella era un'ottima scelta, l'uomo prese la sua cartelletta, i suoi documenti e corse al suo studiolo per mettersi subito all'opera.

Rimasta sola con il marito, Caterina si permise di mostrare per un attimo un cedimento. Si accasciò di nuovo sulla sedia e si prese la testa tra le mani.

Aveva sperato che il re di Napoli rimanesse in salute ancora a lungo, così come a suo tempo era stata fiduciosa circa la salute del Magnifico. Tutti i garanti della pace se n'erano andati, ormai, e restavano solo guerrafondai ovunque.

“Come stai?” chiese accoratamente Giacomo, accucciandosi accanto alla moglie e cercando di guardarle il viso nascosto tra le mani.

Da quando era stata malata, ogni volta che appariva particolarmente affaticata o sofferente, il giovane non poteva che precipitare nell'ansia di vederla di nuovo cadere in terra priva di sensi.

“Ma non lo vedi?” fece Caterina, in risposta, lasciando cadere le braccia sul tavolo: “All'interno della mia stessa casa c'è guerra. Mio zio contro mio fratello. Mio marito contro mio figlio...”

Giacomo si affrettò a prendere le distanze da quella affermazione, negando subito: “Non c'è nessuna guerra, tra me e Ottaviano.” ma il suo nervosismo restava palpabile e Caterina sapeva che stava mentendo spudoratamente solo per calmarla.

Decisa a non litigare almeno con lui, la Contessa cambiò discorso: “Devo andare a parlare con mia figlia. Non voglio che una cosa del genere venga decisa a sua insaputa.”.

Giacomo si rimise in piedi e annuì: “Hai ragione. Si dovrebbe sempre sapere cosa ci aspetta in futuro. A maggior ragione se il nostro destino è segnato da decisioni prese da altri.”

Il giovane indossava quel giorno un giubbone di velluto con le rifiniture di cuoio grasso e sulle spalle aveva fissato i lembi del mantello che usava per difendersi dalle intemperie di quell'inverno.

Sembrava uscito da una ballata da guitto. Alto, giovane e forte, ben vestito e con un viso dai lineamenti armoniosi da sembrare dipinti.

Caterina non voleva addossargli altre preoccupazione, ma sapeva che quello era il momento di parlare e le ultime frasi che il marito le aveva rivolto le avevano tolto ogni dubbio.

Così fece un profondo sospiro e, restando seduta, per far capire a Giacomo che la questione era seria, prese a dire: “Ormai è da un po' che ci penso e ho deciso che, se mi dovesse accadere qualcosa...”

“E perché mai dovrebbe accaderti qualcosa?” la interruppe Giacomo, che non sopportava quel genere di discorsi, andando a guardare fuori dalla finestra increspata di ghiaccio.

“Prima di tutto perché il mio medico non è certo che la malattia mi abbia lasciata del tutto – spiegò la Contessa, confessando per la prima volta al marito quel sospetto che il dottore aveva avanzato proprio nelle ultime settimane, ascoltandole i polmoni – e poi perché ci sarà una guerra e noi verremo travolti senza dubbio negli scontri, che lo vogliamo o no.”

Giacomo si voltò molto lentamente e nel suo sguardo si poteva leggere un insieme confuso di accusa e incredulità: “E tu pensi bene di metterti in prima linea, vero?”

Caterina rimase in silenzio, colta di sorpresa da quella reazione.

“Guarda che non devi nemmeno pensare di andare a rischiare la vita. Sei la signora di questo Stato, tutti ti devono obbedienza. Se ci sarà da menar le mani, che vadano i tuoi soldati a morire, sono poveracci, no? Carne da cannone. Che facciano la fine per cui sono nati.” fece Giacomo, sforzandosi di apparire meno aggressivo.

“L'hai detto tu: sono la signora di questo Stato.” lo contraddisse subito la Contessa, tormentandosi il bordo della manica con indice e pollice: “Questa è la mia terra, quelli che tu chiami così disinvoltamente 'carne da cannone' sono i miei soldati e spetta a me e a mio figlio Ottaviano guidarli, in caso di guerra.”

Giacomo afferrò con irruenza una sedia, trascinandola con un rumore fastidiosissimo, e si sedette di fronte alla donna: “Allora verrò anche io. Starò anche io in prima fila, al tuo fianco.”

“Nemmeno per sogno.” rispose in automatica Caterina, guardando altrove per sottrarsi a quella che le sembrava una provocazione.

“E perché?” la incalzò Giacomo che in quel momento si sentiva tanto infiammato da credersi pronto a brandire lancia e spada e ammazzare centinaia di nemici in un sol colpo.

“Perché è pericoloso.” fece notare la Contessa, un po' spenta.

“Per te non lo è, forse?” sbottò Giacomo, incrociando le braccia sul petto.

“Per Dio, Giacomo...!” lo riprese la moglie, battendo un pugno contro il tavolo e facendo sobbalzare il giovane: “Tu non hai la minima attitudine alla vita militare! Ti ammazzerebbero subito! Non saresti in grado di uccidere nessuno! Non arriveresti vivo alla prima sera!”

Giacomo si pietrificò. Si lasciò cadere sullo schienale di legno scuro e fissò la moglie senza aprir bocca. I suoi occhi, un tempo così dolci e limpidi, erano oscurati da una foschia sinistra che Caterina avrebbe voluto poter cancellare.

“Hai ragione. Non sono come te.” fece all'improvviso Giacomo, alzandosi lentamente e voltandole le spalle.

Il ricordo della moglie che faceva rinchiudere i congiurati di Tossignano e ancora di più il rendersi conto che Caterina aveva condannato a morte più di una persona avevano improvvisamente fatto breccia nella mente di Giacomo. Subito dopo si ricordò anche di come sua moglie non fosse in realtà estranea alle cose della guerra e che a volte gli aveva raccontato di quando era scesa in battaglia, accanto agli Orsini. Non gli aveva mai detto apertamente di aver ucciso dei nemici, ma secondo Giacomo era implicito. E poi, più forte di ogni altra cosa, al Governatore Generale ricomparve come in un lampo l'immagine vivida degli occhi trionfanti della sua donna, quando uccideva qualche preda mentre era a caccia.

Senza ragionarci troppo, il giovane concluse: “Tu sei un'assassina assetata di sangue, per te è facile. Io non ce la farei, forse, a essere come te.”

Caterina sentì una stretta al cuore. Suo marito le aveva dato dell'assassina assetata di sangue e l'aveva fatto con la leggerezza con cui avrebbe potuto notare che era bionda o che aveva gli occhi verdi.

Era così ferita e avvilita da non riuscire nemmeno a reagire. La confusione che aveva provato costantemente in quei giorni si era acuita e quasi le dava la nausea.

Con calma, come se non fosse accaduto nulla, anche lei si alzò e si avvicinò al marito.

Esattamente come se il discorso non si fosse mai spostato dal suo principio, Caterina riprese, con voce pacata e atona: “Se mi dovesse accadere qualcosa, sappi che voglio legalizzare la tua posizione una volta per tutte. Se io morissi, tutto andrebbe a te e a Bernardino. Saresti il reggente di nostro figlio fino alla sua maggiore età e lui un giorno diverrebbe il signore di Imola e Forlì.”

Caterina passò accanto al marito, che era rimasto fulminato da quell'ultima rivelazione, e, sfiorandogli appena la mano con la sua, si congedò dicendo: “Vado a parlare con mia figlia.”

 

Bianca guardava sua madre in silenzio, chiedendosi cosa mai l'avesse portata a chiederle quell'incontro così privato. Era stata scelta una delle stanze più ritirate e i suoi fratelli e le sue balie erano stati tenuti a debita distanza.

Caterina ricambiava le occhiate della figlia con attenzione, cercando il momento migliore per iniziare il suo discorso. Solo quando si rese conto che un momento migliore semplicemente non c'era, fece un sospiro e la invitò a sedersi.

Si appollaiarono entrambe vicino alla finestra, illuminate dalla pallida luce dell'inverno. Il freddo che gelava il forlivese cercava di oltrepassare anche il vetro e per un istante la Contessa si sentì rabbrividire fin nelle ossa.

“Ho discusso con i miei Consiglieri.” cominciò Caterina, con tono formale, come se stesse parlamentando con qualche dignitario straniero: “E abbiamo deciso che è tempo di stipulare una promessa di matrimonio tra te e Astorre Manfredi.”

Le iridi chiare di Bianca tremarono per un momento e il suo viso perse colore. La profezia che Ottaviano continuava a ripetere – ovvero che alla fine Giacomo Feo avrebbe convinto la loro madre a cacciarli da Forlì uno per uno – sembrava essere a un passo dall'avverarsi.

Caterina avvertì la paura della figlia, le cui sottili mani si erano strette l'una nell'altra per non tremare, così si affrettò a rassicurarla, accorgendosi della mancanza di tatto che aveva avuto: “Non vi sposerete subito. Astorre ha solo nove anni. Ne passeranno almeno altri cinque, forse sei, prima che si possa celebrare il matrimonio, quindi di questo non devi preoccuparti.”

Bianca annuì piano, con una fierezza che stava spezzando il cuore di sua madre. Caterina ricordò di aver promesso a se stessa di non permettere mai che sua figlia passasse le sue stesse sciagure e si era giurata di non costringerla mai, per nessun motivo, a un matrimonio imposto. Poteva anche essere un'assassina, come diceva Giacomo, ma non avrebbe mai venduto sua figlia come suo padre aveva fatto con lei.

“In sei anni possono accadere molte cose – aggiunse la donna, le braccia strette al petto, anche invece sapeva che sarebbe stato più utile un abbraccio a Bianca – e magari Astorre crescendo diventerà un brav'uomo e te ne innamorerai.”

Dinnanzi a quella rosea speranza, il volto di Bianca riprese un po' di luce e la ragazzina abbozzò un sorriso stentato. Caterina lo ricambiò e la incoraggiò con uno sbuffo sulla guancia.

“E... Se non mi piacesse mai?” sussurrò Bianca, quando capì che sua madre stava per congedarla.

La donna si morse il labbro e rispose: “Se, quando sarà il momento, proprio non ti dovesse piacere, ne troveremo uno migliore.”

Solo a quel punto Bianca si aprì in un vero e proprio sorriso e, prima che Caterina potesse anticipare in qualche modo le sue mosse, la ragazzina si gettò al collo della madre e la strinse a sé con riconoscenza.

 
   
 
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