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Autore: Adeia Di Elferas    07/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il 2 febbraio alla corte di Pavia era nata, nell'indifferenza quasi totale del padre, la terza figlia del Duca di Milano.

Isabella d'Aragona, assistita da una anziana levatrice quasi cieca e dalla suocera, aveva subito dichiarato l'intenzione di chiamare al piccola Bona e Gian Galeazzo non ebbe nulla da obiettare, commentando a denti stretti che una figlia femmina in quel momento era utile quanto un mulo azzoppato.

Disperata per la sua condizione, Isabella scrisse ancora una volta a suo padre, ora re, implorandolo di fare qualcosa. Se suo marito Gian Galeazzo era diventato così, secondo lei, la colpa era solo di Ludovico Sforza e non c'erano soluzioni, se non restituire il Ducato a chi di dovere, per uscire da quella terribile situazione.

Gian Galeazzo, dal canto suo, quando seppe che la moglie aveva fatto partire una lettera piena di recriminazioni e suppliche alla volta di Napoli, altro non fece se non farsi portare ancora del vino, ubriacandosi fino a perdere i sensi.

A Milano la notizia della nascita della piccola Bona arrivò ovattata e cadde nel vuoto. La corte del Moro era del tutto presa dalle nozze di Bianca Maria Sforza e Massimiliano d'Asburgo. Anche se la cerimonia ufficiale si sarebbe tenuta nell'Impero, tutti quanti erano in vena di festa e attendevano i resoconti dettagliati degli ambasciatori e dei corrispondenti per sapere con esattezza tutto quello che era stato detto e fatto, come fossero gli abiti indossati dai vari ospiti e come si fossero accolti l'un l'altra i due sposi.

Ludovico era l'unico per cui il matrimonio della nipote aveva già perso interesse. Carlo Barbiano, il suo ambasciatore in Francia, gli scriveva da qualche tempo missive di difficile interpretazione.

Il re Carlo VIII aveva sempre in animo di perseguire il suo intento e strappare la corona di Napoli agli Aragona, ma pareva che il non essere certo di avere una discesa agevole fino al sud Italia lo stesse frenando.

La Romagna era quasi tutta assoggettata al Moro, volente o nolente, e anche le città più caotiche, come Cesena, che era ancora dilaniata dalla guerra civile tra madre e figlio, sembravano inclini ad assecondare i francesi, a patto di non essere rase al suolo.

Solo Imola, Forlì e Faenza sembravano inclini a seguire la fazione partenopea, ma tanto bastava a Carlo di Francia per avere riserve circa la propria riuscita.

Ludovico, un pomeriggio di gran neve, si chiuse nello studiolo assieme al suo ambasciatore Calco e a qualcuno dei suoi migliori generali e studiò un piano da consegnare a Carlo VIII in modo da convincerlo una volta per tutte. Non voleva perdere altro tempo: morto Ferrante, Alfonso si era subito messo a riordinare il suo esercito e in pochi mesi avrebbe avuto un'armata tanto valida da poter mettere in discussione anche i migliori soldati francesi e milanesi e a quel punto la guerra sarebbe stata la fine per Milano e non un nuovo inizio.

“E sia – concluse il Moro, quando anche Calco si disse pienamente d'accordo con la strategia messa a punto assieme ai generali presenti alla riunione – che si consigli a Carlo VIII si passare per l'altra costa. Gli basterà partire prima, sfruttare i mesi più favorevoli e a quel punto la via Emilia non gli servirà più.”

“C'è solo un inconveniente...” soggiunse Calco, non riuscendo proprio a trattenersi, malgrado l'entusiasmo di Ludovico.

“E sarebbe?” chiese il Moro, con gli occhi che lampeggiavano dal disappunto.

“Che la costa adriatica è più prodiga di cibo, mentre la costa occidentale è stata devastata molto più duramente da questo clima inclemente. Re Carlo potrebbe non accettare, se sapesse a quali problemi andrebbe incontro...” fece notare il cancelliere.

“Bazzecole...” minimizzò il Moro: “Si porterà il cibo che gli servirà e per il resto saccheggerà le città che si troverà davanti, come fanno tutti.”

Calco alzò un sopracciglio, incerto, ma alla fine si disse d'accordo e la lettera per Barbiano venne redatta, firmata e spedita.

 

Come l'incessante gocciolare dell'acqua può scavare anche la pietra più dura, così le parole di Caterina stavano aprendo un varco nella mente del ventitreenne Giacomo.

Dalla morte di Ferrante i preparativi in visti della guerra si erano fatti molto più seri e la Contessa trascinava con sé il marito e il figlio maggiore a ogni sorta di riunione, prima con gli Anziani, poi con gli ambasciatori stranieri e infine con i generali del suo esercito.

Tuttavia, malgrado ci fossero discorsi molto pregnanti a cui prestare orecchio e attenzione, Giacomo non riusciva a pensare ad altro che non fosse la strana idea che la sua stessa moglie gli aveva messo in testa.

Se fosse accaduta una qualche fatalità alla Tigre di Forlì, la sua eredità sarebbe stata raccolta da lui e dal loro unico figlio, Bernardino.

Ovviamente Giacomo non voleva il male di Caterina e temeva anche solo l'idea di doversi privare di lei, ma quella prospettiva, così diversa dalla fuga ipotizzata fino a qualche tempo prima, gli stava aprendo nuovi orizzonti.

Per sicurezza, aveva condotto le sue brevi indagini e aveva scoperto che la moglie aveva davvero preparato degli incartamenti che l'avrebbero reso totipotente e reggente di Bernardino, in caso di necessità. Non c'erano dubbi in merito.

In ragione proprio di quella decisione, Caterina lo stava tenendo d'occhio, ne studiava il comportamento durante le riunioni importanti e lo spronava a prendere iniziative, soprattutto per quanto riguardava l'organizzazione delle truppe.

Giacomo se n'era accorto e faceva del suo meglio, per quanto la sua attenzione scarseggiasse e il suo carisma coi soldati fosse pressoché inesistente. Se qualche uomo d'arme, infatti, gli dava retta, era solo perché Caterina era sempre presente e quindi nessuno osava farle uno sgarbo indiretto.

Solo molto raramente la Contessa lasciava solo il marito coi soldati e in quelle occasioni non era infrequente vedere di sfuggita Ottaviano che ridacchiava alle spalle del Governatore Generale che sbraitava per farsi ascoltare da un manipolo di soldati che tutto faceva fuorché dargli retta.

Un mattino di metà marzo, mentre Caterina era intenta a ricevere alcuni alchimisti con cui doveva parlare di pozioni e erbe curative, Giacomo era stato mandato a condurre un'ispezione al quartiere militare.

Ottaviano, come un'ombra, sobillato da Sfrondati che lo teneva informato su ogni movimento del Governatore Generale, l'aveva seguito.

Solo quando i soldati si furono in piccola parte radunati nella strada centrale per sottoporsi all'ispezione, il Conte si palesò. Giacomo finse di non notarlo, ma quando lo sentì ridere alle sua spalle, mentre uno dei soldati fingeva di non capire i comandi del Governatore, l'uomo si voltò con rabbia verso il ragazzino.

Ottaviano, che non era certo un cuor di leone, ebbe improvvisamente paura. Per quanto fosse certo che un'azione nefanda dell'amante di sua madre sarebbe stata punita, sapeva anche che se l'uomo gli avesse fatto davvero del male, nessuna punizione lo avrebbe guarito o – nella peggiore delle ipotesi – riportato in vita.

“Ridete, ridete pure...” gli sibilò Giacomo, quando gli fu abbastanza vicino: “Divertitevi alle mie spalle, almeno finché potete!”

Ottaviano non gli diede il tempo di dire altro e cominciò a correre a perdifiato in direzione della rocca.

Quando si trovò di nuovo tra le spesse mura di Ravaldino, il Conte fece cercare da un servo l'ambasciatore milanese, che aveva ben pensato di restare nelle vicinanze, e gli riferì pedissequamente le parole di Giacomo Feo.

Sfrondati si accigliò, giungendo le mani in vita e facendo un'espressione contrita disse mesto: “Ho paura, mio signor Conte, che l'amante di vostra madre si stia preparando a qualche gesto inconsulto... Dobbiamo cominciare a cercare qualcuno che vi protegga e che ci aiuti a liberarci di questo impostore...”

Ottaviano si disse d'accordo, ma, memore del fallimento di Tossignano, pregò Sfrondati di attendere ancora qualche tempo: “Almeno fino a che non saprò davvero di chi fidarmi in questa città.” soggiunse il Conte.

 

“Milano sta fondendo tutto il bronzo che può – disse Isabella Este, leggendo una lettera scritta da Cecilia Gallerani – addirittura il maestro Leonardo ha dovuto rinunciare a non so bene che progetto che voleva mettere a punto con una grande quantità di bronzo, un nuovo colosso, forse, perché il Moro glielo ha impedito.”

Francesco Gonzaga ascoltava la moglie con grande preoccupazione. Ovviamente non gliene importava assolutamente nulla dei sogni di gloria infranti del maestro Leonardo. Era molto più interessato al fatto che il Moro stesse cercando ancora del bronzo per forgiare nuove armi.

Quel marzo era stato per i Marchesi di Mantova un tormento continuo. Il freddo non demordeva e Napoli stava per abbandonare il lutto osservato in rispetto al defunto re Ferrante.

I veneziani avevano fatto pressioni sempre maggiori su Francesco, affinché declinasse una volta per tutte la proposta fattagli dagli Aragonesi, che lo volevano al loro soldo per contrastare efficacemente i francesi.

Vedendosi minacciato apertamente da Venezia, il Gonzaga non aveva potuto fare altro che rifiutare le moine napoletane e cedere così alla paura di essere annientato dagli astuti veneziani.

Isabella non gliene aveva fatta una colpa, anche se era rimasta un po' delusa da quella presa di posizione del marito.

“A che serve – aveva detto – continuare a spedire salumi e formaggi in dono alle donne del papa, se poi ti rifiuti di allearti ai suoi alleati?”

E Francesco aveva risposto, debolmente: “Nemmeno il papa sa dire quali siano i suoi alleati.”

 

Prospero Colonna si passò una mano sulla pelata incipiente. Portava i capelli rimasti, castani e lisci, lunghi fino alle spalle, per supplire la loro carenza sulla cima della testa, ma in quel momento avrebbe voluto essere completamente calvo per poter resistere meglio alla tentazione di strapparseli tutti fino all'ultima ciocca.

Gli sembrava che la dimora del cugino Fabrizio fosse stata spostata. Gli sembrava di non arrivare più. La strada pareva essersi allungata di centinaia di chilometri e ogni passo gli costava fatica.

Non sapeva nemmeno lui cosa quella notizia avrebbe portato. Confidava nel cugino e nella sua esperienza.

Quando finalmente arrivò al portone del palazzo in cui viveva Fabrizio, si fece annunciare da una delle guardie e attese paziente il momento di entrare.

Stava sudando a profusione, malgrado l'aprile iniziato da poco fosse freddo almeno quanto lo era stato marzo. Arricciando il naso, si ripromise di lavarsi con acqua e limone. Da quando aveva ricominciato a indossare l'armatura, seppur in versione alleggerita, quasi tutti i giorni, come quando era stato in guerra con gli Orsini, non sopportava più l'odore del sudore che colava copioso sotto a tutta quella ferraglia.

Fabrizio lo salutò con una stretta poderosa di mano e, arricciandosi i grandi baffi, gli chiese senza panegirici che mai fosse capitato per presentarsi da lui a quell'ora così particolare.

Prospero si schiarì a lungo la voce, prima di trovare le parole: “Il Cardinale Giuliano Della Rovere è fuggito.”

“Come?” chiese Fabrizio, certo di aver capito male.

“Giuliano Della Rovere – ribadì Prospero, gli occhi fissi al pavimento e una mano appoggiata all'elsa della spada che portava al fianco – è fuggito. Si è imbarcato la scorsa notte su una nave diretta in Francia.”

Fabrizio smise immediatamente di tormentarsi i baffi e si sedette pesantemente su uno degli sgabelli da campo che stavano accanto alla finestra.

“In Francia?” fece eco, senza aspettarsi un'altra conferma.

“In Francia.” ripeté Prospero, in modo che proprio non vi fossero dubbi in merito.

“Quel maledetto figlio di...” le parole si persero tra i denti stretti di Fabrizio, che strinse i pugni e se li batté contro le ginocchia, colto dall'ira a scoppio ritardato.

Giuliano Della Rovere, il camaleontico Cardinale che li aveva convinti a scendere a patti con gli Orsini pur di mettere in difficoltà il papa e difendere Napoli dall'arrivo di Carlo VIII... Proprio lui, ora era scappato e aveva cercato rifugio in Francia, presso colui che, da come ne aveva parlato fino al giorno prima, era un nemico.

“E ora cosa facciamo?” chiese Prospero, che sperava di trovare nel cugino un buon consiglio.

Fabrizio lasciò lo sgabello e piantò i piedi in terra, tenendo le gambe larghe e le braccia conserte.

Mosse avanti e indietro le labbra, pensieroso e alla fine decretò: “Cerchiamo di capire perché Della Rovere è andato in Francia. Se converrà anche a noi, lo convinceremo a prenderci come alleati e al diavolo i patti con gli Orsini, con Napoli e con tutti questi dannati morti di fame. Se non ci fosse qualcosa da guadagnare a stare coi francesi, stai pur certo che quella carogna non se ne sarebbe andato. Quando una nave affonda, i topi sono gli unici a sapere dove scappare, ricordatelo sempre, cugino!”

 

“Non le voglio, le sue pozioni!” disse ostinatamente Bianca alla madre, scansando con un gesto secco della mano le boccettine appena arrivate da Forlì.

“Non essere sciocca, bambina mia...” fece Lucrezia, tentando di fare accettare in seconda battuta quel regalo arrivato da Caterina: “Tua sorella ha contattato alcuni dei migliori alchimisti viventi, pur di procurarteli...”

Bianca alzò il mento con fare bellicoso e non rispose. Già aveva rifiutato in modo categorico i ricostituenti che Caterina le aveva mandato qualche tempo prima, e quindi non aveva alcuna intenzione di accettare quegli intrugli diabolici che avrebbero dovuto renderla più fertile.

Temeva che in quelle erbe pestate e in quegli olii maleodoranti si celasse qualche maleficio che l'avrebbe portata alla tomba.

“Io e Tommaso non abbiamo bisogno di questa cose.” concluse freddamente Bianca, allacciando le mani dietro la schiena per fare in modo che sua madre non potesse metterle tra le braccia le bottigline dai colori sgargianti.

Lucrezia allora riappoggiò il tutto sul tavolo e provò con una tattica che fino a quel momento aveva preferito evitare: “Va bene, fai come vuoi. Sappi che se morirai dissanguata, la prossima volta, la colpa sarà solo tua e non te lo perdonerò mai.”

Detto ciò, la donna uscì e lasciò sola Bianca assieme alle strane pozioni dalle origini sconosciute.

La giovane, dopo qualche minuto, sentì l'astio sfumare, come se stesse sbollendo pian piano e si trovò a guardare con una certa curiosità i doni della sorella.

Le parole di sua madre l'avevano messa davanti a uno scenario che non aveva mai preso seriamente in considerazione. Lei voleva dare un figlio a Tommaso e basta. La loro vita coniugale non aveva altro senso, ormai, e Bianca voleva poter dare al marito almeno un motivo per essere contento di tornare da lei alla sera. Non voleva più solo un uomo gentile e servizievole, voleva un uomo che l'amasse, e se per farlo doveva diventare madre e dargli una famiglia come Dio comandava, allora avrebbe fatto tutto il necessario per accontentarlo.

Occhieggiando attorno a sé come un ladro, Bianca afferrò una delle boccette con il promettente nome in latino vergato in inchiostro rosso appena sotto al tappo e se lo infilò in uno dei tasconi del mantello da viaggio.

 

Andrea Bernardi stava affilando con pazienza la lama del suo rasoio, godendosi la pace della porta dalla barberia chiusa e il tepore del camino ancora acceso.

La Contessa era arrivata quando era ormai ora di chiudere i battenti, ma sembrava desiderosa di scambiare due chiacchiere in santa pace e così il Novacula l'aveva subito invitata a bere un sorso di vino.

“Non sarà buono come quello che servono alla rocca, ma vi prego di accettare.” aveva detto l'uomo, con un sorriso speranzoso.

Caterina aveva accettato e così si era messa subito comoda e aveva versato da bere per entrambi.

“Se Giuliano è andato in Francia, significa che sa che Napoli non potrà mai aver ragione di Carlo VIII.” constatò Caterina, che era rimasta incredula davanti a una simile notizia.

Bernardi alzò appena un sopracciglio

La fuga del Cardinale Delle Rovere era rimasta sotto silenzio per parecchi giorni, ma alla fine le indiscrezioni avevano fatto il loro corso e la novità era giunta anche alle orecchie della Contessa Sforza Riario, per mezzo di una lettera di Raffaele Sansoni Riario.

Ottaviano era rimasto sgomento nel sentire come il cugino di secondo grado di cui tanto aveva sentito parlare aveva fatto fagotto e si era imbarcato di nascosto in piena notte per cercare salvezza in Francia.

Caterina, invece, aveva subito pensato che Giuliano era stato scaltro come sempre. Anche quando aveva vissuto a Roma, aveva imparato a diffidare di quell'uomo mellifluo e infido. Lui, più di ogni altro nipote di Sisto IV, era quello da temere e da prendere con le pinze. Tuttavia, la sua capacità di giudizio e il suo spirito di autoconservazione, lo rendevano un ottimo faro nella nebbia, da seguire in caso di dubbio.

Il Novacula non fece domande, per non dare l'impressione di voler ficcare il naso più del dovuto. In più, anche se per le sue cronache quei dettagli sarebbero stati molto preziosi, sapeva che i pettegolezzi che interessavano di più ai forlivesi erano di ben altra natura.

Caterina apprezzò il silenzio di Bernardi e ne approfittò per sfogarsi un po'. Parlò tanto dell'incertezza e della confusione che albergavano nel suo cuore, sia delle difficoltà in cui sarebbe incorso lo Stato. Solo alla fine si permise di fare un breve commento su Giacomo.

“Vorrei che fosse nato in una famiglia nobile – disse con la voce un po' arrochita dal vino forte e aspro offerto dal Novacula – perché almeno avrebbe imparato per tempo a vivere tra i ratti e serpenti.”

 
   
 
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