Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    09/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Niente, Gonzaga non ha accettato nemmeno mezza proposta!” Ludovico Sforza sfogliava febbrilmente i resoconti delle sue spie, davanti agli occhi annoiati di suo nipote Ermes e quelli tesi di Bartolomeo Calco.

“Perone da Baschi, l'Aubigny, Briçonnet, nemmeno suo cognato, il Montepensier, nessuno di loro è riuscito a convincerlo!” con una delle grandi mani, Ludovico afferrò una delle lettere cifrate e la agitò in aria, come se volesse percuotere chi l'aveva scritta: “I francesi gli promettono nuove terre, cento uomini, il titolo di Capitano Generale e lui che fa?! Manda tutto alle ortiche!”

“Calmatevi, mio signore...” provò a dire Calco, ma venne subito interrotto dal rombo di tuono della voce di Ludovico.

“Come faccio a calmarmi?! Il papa continua a mandare ambasciatori in Francia per convincere Carlo a non intraprendere la sua campagna e quel bifolco zoticone d'un francese ancora non ha dato risposta alle mie lettere in cui gli metto su un piatto d'argento il piano d'attacco migliore del mondo!”

Ermes, che pur non era un uomo d'armi, sapeva bene quanto il piano del Moro fosse tutto fuorché il migliore del mondo, tuttavia cercò di placare suo zio, a beneficio delle sue povere orecchie che ormai rimbombavano per le grida: “Non temete, Carlo alla fine darà retta a voi. Piuttosto, teniamo d'occhio Francesco Gonzaga. Ha mandato in Francia i suoi ambasciatori più fidati, ma ha anche inviato suo fratello Giovanni a Napoli, a militare per re Alfonso. Finché non ci vedremo chiaro, è meglio non coinvolgerlo troppo nelle nostre pianificazioni.”

Ludovico annuì convinto e poi guardò Calco e lo rimbrottò: “Visto? Mio nipote sa sempre cosa è meglio fare! Se non mi fosse tanto utile come ambasciatore, lo farei mio cancelliere all'istante!”

Ermes sollevò placidamente le sopracciglia che sormontavano i suoi occhi pesti e guardò il cancelliere con un mezzo sorriso che Calco lesse come aperto scherno.

Se non avesse conosciuto il Moro abbastanza a fondo da sapere che l'avrebbe fatto sparire in caso di sue dimissioni, per evitare che andasse in giro a sparlare dei suoi affari privati, Bartolomeo Calco avrebbe rinunciato al suo gravoso e ingrato incarico quel giorno stesso.

Tuttavia, il suo attaccamento alla propria vita era sufficiente a fargli dire: “Cercherò di farmi venire idee migliori, in seguito.”

 

Isabella d'Aragona si era rintanata nella sua stanza fin dal primo pomeriggio. La lettera che suo padre le aveva fatto scrivere da uno dei segretari non le lasciava troppe speranze.

Carlo VIII, spiegava il diplomatico, sembrava aver trovato maggior vigore che mai dalla defezione del potente Cardinale Della Rovere, passato improvvisamente al partito milanese e francese a scapito di quello napoletano. Sembrava infatti che il giovane sovrano avesse visto in questa facilità di cambiare fazione, una tendenza del tutto italiana, che avrebbe portato alla Francia una vittoria facile e veloce.

Anche se Alfonso d'Aragona era fiducioso, scriveva ancora il segretario, bisognava attendersi un attacco poderoso da parte dei francesi e a tal merito Napoli si preparava più a difendersi, almeno in un primo tempo, piuttosto che a intraprendere una risalita verso Milano per liberarla da Ludovico Sforza.

Pavia era immersa in un maggio che era ai suoi inizi e a Isabella pareva che la primavera non sarebbe arrivata più.

Gian Galeazzo alternava giornate discrete a giornate pessime, in cui oltre alla cattiva salute, lo perseguitava il cattivo umore. Solo i suoi cani, ormai, parevano in grado di sopportarlo.

Isabella avrebbe voluto ritrovare in lui il giovane uomo che aveva conosciuto qualche tempo dopo il loro matrimonio, quando finalmente sembrava che la loro sorte si sarebbe raddrizzata, e invece non faceva che scontrarsi con uno sconosciuto.

Se prima era stata lei a inseguirlo nelle lunghe notti bianche che avevano seguito la loro prima notte di nozze, durante la quale lo sposo si era fatto negare, nascondendosi chissà dove, ora era Isabella a cercare la fuga dal marito, ma raramente riusciva a sottrarvisi.

Gian Galeazzo era diventato con lei rozzo e, nei giorni in cui le forze non gli venivano meno, violento, come se volesse sfogare sulla moglie tutte le sue ire e frustrazioni, incapace di capire che la donna che aveva al fianco era l'unica che ancora cercasse di vedere in lui qualcosa di buono.

E così anche quella sera, mentre Isabella stava davanti al camino, asciugandosi qualche lacrima silenziosa, Gian Galeazzo arrivò nella camera della moglie, umido di pioggia e con addosso il tanfo delle prede uccise quel giorno a caccia. Senza nemmeno aspettarsi da lei un moto di desiderio, la prese di peso, e si prese quello che voleva senza farsi problemi.

 

“Prepara due cavalli. Voglio andare a caccia con te.” disse piano Caterina, passando accanto a Giacomo mentre usciva dalla sala delle udienze.

Il Governatore Generale avrebbe voluto rifiutare, tanto per dimostrare alla moglie che non era suo dovere ottemperare senza proteste a ogni sua richiesta, ma la luce promettente che le aveva visto guizzare negli occhi fece in fretta cadere il suo guizzo di ribellione.

Da un paio di giorni Forlì era benedetta da un'aria tiepida che profumava quasi d'estate ed era comprensibile la voglie di passare un po' di tempo all'aria aperta. Le ambascerie, passato il lutto per Ferrante, erano tornate più serrate che mai e tanto la Contessa quanto suo marito agognavano qualche attimo di pace lontano dal lezzo della politica.

Non era un'ora adatta alla caccia grossa. Il sole era alto, di poco passato lo zenit, e nel silenzio immobile dei boschi ogni più piccolo movimento dei cavalli di Caterina e Giacomo sembrava fare un rumore assordante.

Avevano portato armi leggere: un arco, una lancia corta e le spade. In tutta sincerità, il Governatore Generale si era convinto che la moglie lo avesse condotto fuori città solo per poter restare un po' da soli, scansando le tediose questioni di Stato almeno fino al giorno seguente.

“Leghiamo i cavalli qui.” fece la donna, smontando di sella quando raggiunsero una piccola radura circondata da alti alberi.

La scelta della posta era molto strana, per cacciare, e quindi nella mente di Giacomo l'idea di partenza si rafforzò ancora di più e legò il suo destriero baio al tronco più vicino con una certa baldanza.

Rimase un po' stupito quando la moglie prese dai lacci laterali della sella le due spade che aveva scelto con grande cura.

Senza dire nulla, ne porse una a Giacomo, che ne afferrò l'elsa senza capire, agendo automaticamente. Prima che il giovane potesse chiedere spiegazioni – dato che dubitava che la moglie volesse convincerlo a cacciare lì e con quell'arma – Caterina si mise in posizione d'attacco e lo fece indietreggiare di qualche passo con un assalto.

“Ma che...?” farfugliò Giacomo, confuso.

La Contessa si mise in difesa e spiegò: “Ci ho pensato, sai? Hai detto tu che vorresti scendere con me in prima linea, se ce ne fosse bisogno. Io non voglio che accada, ma la guerra non guarda in faccia a nessuno. Se mai i nemici dovessero arrivare fino a te, voglio che ti sappia difendere.”

Giacomo cercò di parare malamente un secondo attacco, sferrato, se ne rese conto con un po' di vergogna, con meno della metà della forza con cui Caterina di norma eseguiva le sue mosse.

“Ma allora perché non hai preso le spade da allenamento?” chiese il Governatore Generale, con il fiato già corto, mentre più che combattere tentava la fuga, continuando a fare passi a ritroso sempre più rapidi.

“Perché né i francesi né i napoletani avranno spade spuntate e senza filo.” fu l'unica risposta della donna.

Così Giacomo piegò il capo a quella prova improvvisa e cercò di fare del suo meglio. Per ben più di un paio di volte rischiò di farsi male seriamente, ma, per quanto alla fine ci stesse provando davvero, non riusciva mai a far breccia nella difesa della moglie, che rispondeva a ogni fendente con una facilità disarmante.

Mentre il sole volgeva alla sera, Giacomo si trovò sul punto di implorare pietà e chiudere quell'estenuante addestramento, ma non ne trovava il coraggio. Non voleva deludere Caterina, non voleva vedere i suoi occhi spegnersi in un'espressione di rammarico che purtroppo già conosceva per averla vista anche troppo spesso quando lo coglieva in fallo durante le riunioni del Consiglio o quando ispezionavano il quartiere militare.

Per fortuna, dopo un assalto particolarmente violento, fu la Contessa a voler chiudere la sessione d'allenamento.

La sua lama era arrivata tanto vicino al collo scoperto di Giacomo da far rabbrividire il giovane e Caterina riuscì a fermare il colpo appena in tempo, evitando di arrecargli davvero danno.

I loro volti erano vicini e a separarli c'era solo il freddo metallo della spada. L'arma di Giacomo era finita in terra, in seguito a un colpo al polso con cui Caterina l'aveva disarmato.

Abbassando lentamente la sua spada, la Contessa si alzò in punta di piedi, per colmare la differenza di statura, e diede un breve bacio a Giacomo. Erano entrambi fradici di sudore e stanchissimi.

“Per oggi basta così.” disse la donna e si chinò a raccogliere la spada del marito per andare ad assicurarla con la sua alla sella del cavallo.

Giacomo, cercando di riprendere fiato, si appoggiò le mani sulle ginocchia e si piegò un po', osservando la moglie con la coda dell'occhio. Anche se con lei preferiva affrontare un altro genere di battaglie, doveva confessare con se stesso che quello scontro lo aveva calmato e gli aveva fatto bene. Anzi, dal sorriso soddisfatto che increspava le labbra di Caterina, poteva ben dire che aveva fatto bene a entrambi.

 

“Ma cosa dovevamo aspettarci da uno che fa fare una statua di neve al maestro Buonarroti solo per il suo diletto?!” sbottò Lorenzo Medici, stringendo il capello di velluto tra le mani con tanta forza da farne una palla informe: “L'esilio, che sia dannato... L'esilio! Noi due, e i nostri cugini, Francesco e Cosimo!”

Giovanni, meno incline alle esternazioni di rabbia a cui invece il fratello si lasciava andare spesso e volentieri, stava cercando di ragionare lucidamente.

Il Fatuo aveva messo in atto l'ultimo colpo di scena che aveva in repertorio. Esiliando con quella scusa infame lui, suo fratello Lorenzo e i loro cugini Cosimo Ruccellai e Francesco Solderini, Piero credeva di averli eliminati una volta per tutte dal panorama politico di Firenze.

“È già tanto che vi ha liberati.” disse Semiramide, prendendo il marito per un braccio, per farlo calmare: “L'esilio è nulla. Io temevo che vi facesse giustiziare il mese scorso, non appena vi ha rinchiusi nelle celle del palazzo...!”

Giovanni sospirò profondamente, guardando le spade che stavano in bella mostra accanto al camino acceso. La sala delle armi era fredda e non capiva perché mai avevano scelto proprio quella stanza per mettersi a discutere.

Il Fatuo aveva sfruttato l'accoglienza che i Popolani avevano offerto a Briçonnet, accusandoli subito di essere alla base di un'organizzazione improbabile il cui unico intento era rovesciare il suo governo e congiurare alle sue spalle per portarlo alla morte.

Quando erano stati arrestati all'improvviso, Giovanni aveva dovuto fare i salti mortali per tenere a freno la lingua lunga del fratello maggiore, che sembrava deciso a mettersi da solo un cappio al collo con le sue frasi lapidarie e sibilline.

“Adesso ci resta un solo modo per riprenderci quello che ci spetta.” disse piano Giovanni, gli occhi dal particolarissimo verde chiaro ancora fissi sulle spade.

“No, no!” si oppose Semiramide, presagendo quello che il cognata stava per dire.

“Prenderci Firenze con la forza.” l'anticipò Lorenzo, ridistendendo il cappello e annuendo con entusiasmo: “Organizziamo tutto e questa volta, al primo passo falso di Piero, attacchiamo.”

“Potrebbe volerci molto tempo...” tamponò Semiramide, che non voleva un marito in guerra, tantomeno per conquistare una città che ai suoi occhi era un'accozzaglia informe di ipocrisie e teste calde.

Giovanni scosse il capo e, senza traccia di gioia, in contrasto con lo sguardo esaltato di Lorenzo, la contraddisse mestamente: “Se continua così, Piero commetterà un errore fatale prima ancora che si faccia in tempo a dare le armi ai contadini.”

Ancora aggrappata alla manica del marito, Semiramide emise un gemito strozzato e assistette impotente alla stretta di mano tra i due fratelli, che si impegnavano in quel gesto solenne a non tradire il silenzioso patto stretto in quell'algida sala delle armi.

 

Rodrigo Borja era certo che dietro alla fuga di Giuliano Della Rovere ci fosse Ascanio Sforza. Non ne aveva ancora le prove, ma quell'infido milanese non gliela contava giusta.

In un altro momento, avrebbe cacciato il Cardinale Sforza con qualche scusa, sollevandolo immediatamente da tutte le sue cariche, e avrebbe sciolto immediatamente il matrimonio tra Giovanni Sforza e Lucrecia. In un altro momento, appunto.

Carlo VIII aveva apertamente rifiutato le preghiere del papa, che aveva spedito regali e mandato ambasciatori di ogni sorta per cercare di far retrocedere il francese dalle sue posizioni. Il modo in cui aveva risposto con l'ultima missiva, in cui si vantava della facilità con cui avrebbe conquistato l'intera penisola, aveva agghiacciato Alessandro VI, che ancora si rivedeva davanti le parole precise usate da Carlo di Francia. Aveva scritto che avrebbe alloggiato 'domesticamente' in Vaticano.

Né più né meno della dichiarazione peggiore di tutte: la volontà di invadere Roma e di assoggettarla al proprio potere.

“Nemmeno un minimo di rispetto per la santissima cattedra di Pietro!” bofonchiava Rodrigo, ogni volta che ripensava alla sfacciataggine del suo rivale.

Proprio per queste minacce così sfrontate e numerose, il papa non poteva sciogliere il matrimonio di sua figlia con il signore di Pesaro. Se Giovanni Sforza aveva un pregio, infatti, esso era il suo piccolo Stato.

Mentre la primavera si dimostrava stentata e prometteva di essere molto breve, le donne di Rodrigo si stavano apparecchiando per partire alla volta di Pesaro, al fine ufficiale di accompagnare Lucrecia nella dimora del coniuge. In più, Rodrigo aveva colto al balzo la scusa delle pestilenze che si stavano concentrando intorno al Vaticano e così sembrava che il suo interesse fosse solo preservare le sue donne dal contagio.

Alessandro VI aveva pensato a lungo a come fare, per mettere al riparo la sua gemma più preziosa, e alla fine aveva deciso che spedirla a Pesaro, lontano da Roma, sarebbe stata la scelta più accorta.

Carlo VIII, con tutta la giovanile bellicosità dei suoi ventiquattro anni, non avrebbe comunque commesso l'errore di dissipare forze e soldati per spingersi tanto a est senza motivo, lasciando la via Emilia e allontanandosi da Roma e Napoli, suoi obiettivi principali.

L'ultimo giorno di maggio, sotto il sole tiepido che preludeva all'ennesima estate breve, ma rovente, Alessandro VI dovette salutare sua figlia Lucrecia, la totipotente Adriana Mila e la sua protetta, la bella Giulia.

 

“Quando tendi l'arco – spiegò Caterina, mimando l'azione a beneficio di Galeazzo che, a soli nove anni, faceva del suo meglio per destreggiarsi con un'arma tanto complessa – devi stare attento a non perdere la mira.”

Il bambino la guardava concentrato, cercando di capire meglio come dovesse fare per riuscire a colpire il bersaglio almeno di striscio.

Accanto a lui stavano anche gli altri fratelli, escluso Cesare, che in quelle ore era al Duomo con i suoi precettori a studiare teologia come sempre.

Bianca aveva provato a fare un paio di tiri, con scarsi risultati, ma riuscendo onorevolmente a piantare almeno un paio di frecce nella paglia. Il decenne Livio aveva fatto molta fatica a tendere la corda, ma aveva dimostrato una buona mira e si era guadagnato un'accorata sfilza di complimenti da parte della madre. Sforzino, invece, coi suoi sette anni non ancora compiuti, aveva tirato stando più vicino degli altri al bersaglio e malgrado ciò solo una freccia era andata a segno.

Alcuni soldati della rocca si erano assiepati nel cortile d'addestramento per assistere a quello spettacolo improvvisato e Galeazzo sentiva i loro occhi puntati addosso e tanto gli bastava per sentire le gambe tremare e il cuore battere all'impazzata.

Tra il pubblico c'erano anche Giacomo Feo, vestito di blu scuro e rosso, in un angolo fresco, riparato dal sole, e Ottaviano, che non aveva voluto partecipare a quella lezione estemporanea di tiro con l'arco e aveva finito per ribollire di gelosia vedendo come la madre si stesse dedicando ai suoi fratelli con un'attenzione che per lui non aveva mai avuto.

Per mostrargli ancor meglio la tecnica da usare, Caterina prese il suo arco, molto più grande di quello usato da figlio, e con la prima freccia colpì subito il cuore del bersaglio di paglia che stava dall'altro lato del cortile.

Gli armigeri applaudirono e qualcuno si lasciò andare a qualche esclamazione cameratesca, mentre Galeazzo stringeva le piccole spalle, intimidito dalla superiorità della madre.

Quando fu di nuovo il turno del bambino di provare, Caterina lo incoraggiò ricordandogli che nelle sue vene scorreva il sangue del più grande condottiero mai vissuto, Francesco Sforza.

“Come mai non avete partecipato anche voi?” chiese a bassa voce Giacomo Feo, notando come Ottaviano avesse raggiunto il punto d'ombra in cui stava lui.

Il Conte si pentì subito di aver cercato riparo dalla luce fastidiosa del sole e stava per allontanarsi di nuovo, quando il Governatore Generale lo pungolò con una certa malizia: “Forse avete fatto bene.”

“Che intendete dire?” chiese Giacomo, mentre i soldati applaudivano il primo centro di Galeazzo.

Giacomo si strinse nelle spalle e disse, sempre a voce abbastanza bassa, per evitare che qualcun altro oltre a Ottaviano sentisse: “Per un Conte sfigurare davanti a dei bambini non sarebbe certo stata una cosa facile da digerire.”

Il ragazzino guardò l'amante della madre per un lungo istante, non sapendo cosa lo irritasse di più, se il tono di scherno dello stalliere o la sua incapacità di reagire a quella provocazione.

Avrebbe potuto fare un grande fracasso, con tutti quei testimoni. Avrebbe potuto indurlo a litigare tanto apertamente da risvegliare anche sua madre e mostrarle finalmente chi si era tirata in casa.

E invece, mentre Galeazzo centrava per la terza volta di fila il bersaglio imbottito di paglia, accompagnato dagli applausi euforici del pubblico, Ottaviano voltò le spalle a Giacomo Feo e rientrò nelle viscere della rocca, rimuginando tra sé, vedendo una sola possibile fine per quella situazione paradossale.

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas