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Autore: Adeia Di Elferas    11/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dopo oltre una settimana di viaggio, la comitiva partita da Roma e moralmente capitanata da Adriana Mila, stava per entrare in Pesaro.

Per essere l'8 giugno, il cielo era ancora troppo preso dalle furie primaverili e Giulia Farnese espresse, prima fra tutti i presenti, la sua perplessità circa le condizioni climatiche di quel giorno.

Dopo una breve consultazione con la quattordicenne Lucrecia, che ricordò a tutti come ormai fosse impossibile ritardare il loro ingresso trionfale in città, le donne accettarono di farsi agghindare dalle proprie serve e affrontare quell'ennesimo sforzo mondano che il loro lignaggio imponeva.

Non appena varcarono le porte di Pesaro, il cielo minaccioso voltò a un grigio più scuro e si alzò il vento. Mentre la folla festante cominciava a intonare qualche motto di gioia e giubilo, lanciando i primi fiori dalle finestre, assieme a un tuono assordante, la pioggia prese a riversarsi senza alcuna pietà sulle donne di papa Alessandro VI.

Mentre le folate gelide – soprattutto per quel periodo dell'anno – spingevano la pioggia a colpire la bella Giulia, Lucrecia e Adriana, i petali che scendevano da balconi e loggette venivano abbattuti come beccacce durante la caccia, impattando con il terreno già fangoso e scivoloso, mescolandosi con la poltiglia marrone calpestata dai cavalli del corteo romano.

Le elaborate acconciature delle ospiti di Giovanni Sforza si disfecero in un lampo e i loro abiti si inzupparono a tal punto da impedire loro ogni movimento e farle rabbrividire fino all'osso.

I presenti non si perdevano d'animo, esclamando tutta la loro benevolenza con toni accesi e applausi, ma i boati della tempesta rendevano le loro parole quasi incomprensibili e i battiti di mani appena udibili.

Senza essere riuscita a vedere nulla di Pesaro, attraverso la spessa cortina d'algida pioggia che le aveva coperto gli occhi fino alla fine, Lucrecia varcò con immenso sollievo il palazzo del marito mentre qualche irriducibile pesarese ancora gridava il suo nome e cercava di scorgerne il viso.

Lucrecia lasciò una pesante scia d'acqua lungo tutto il tragitto che la portò fino alle sue stanze. Alle sue spalle, affannate e infreddolite, le inseparabili Adriana e Giulia la seguirono senza nemmeno chiedere il permesso, come se fossero parte integrante del suo bagaglio.

Chiusesi dentro la camera, fecero accendere il camino dai servi e ordinarono che i loro bauli venissero immediatamente messi a loro disposizione, affinché potessero cambiarsi.

Giovanni Sforza non vide la moglie nemmeno a cena, dato che Lucrecia aveva chiesto cortesemente alle cucine di servirle il pasto in camera, dove l'avrebbe consumato assieme con le sue due dame di compagnia predilette.

'Per questa sera – scrisse il signore di Pesaro nella lettera che avrebbe spedito subito come da accordi al suocero, Alessandro VI – non si attese ad altro che asciugarsi.'

E con un'ultima sviolinata su quanto fosse grato al papa per avergli dato l'onore di avere come ospiti anche madonna Giulia e madama Adriana, Giovanni chiuse la missiva e tirò un sospiro, chiedendosi cosa mai ne avrebbe fatto, di quelle tre spie del Vaticano, una volta passata la buriana.

 

Giacomo Feo era appena uscito dalla cappella personale della sua famiglia, eretta nella chiesa di San Girolamo, sede dei Battuti Rossi.

Caterina gli aveva concesso quella breve sosta solo perché nel frattempo doveva continuare un discorso con Bartolomeo Orcioli.

Da qualche giorno, invogliata soprattutto dalle temperature più miti portate dal giugno, la Contessa aveva cominciato a girare per la città assieme al Governatore Generale e al figlio Ottaviano, facendosi accompagnare ora da quello ora da quell'altro nobile, affinché le mostrassero quelli che secondo loro erano i punti più deboli della città.

“Certo, capisco molto bene quello che dite – stava annuendo Caterina, quando Giacomo si era riunito a loro, le mani ancora giunte all'altezza del petto, come se stesse finendo una frettolosa preghiera – ma non faremmo mai in tempo a costruire un nuovo rivellino a San Pietro prima che inizi la guerra e sostenere una simile impresa durante le ostilità sarebbe quanto meno da irresponsabili.”

Orcioli storse la bocca, ma dovette dare ragione alla sua signora. Gli occhi caldi dell'uomo corsero al Governatore Generale, che si era messo a guardarsi attorno con fare annoiato. Ottaviano, poco distante da lui, ascoltava con interesse Bartolo Marcobelli, che stava elencando chissà cosa, tenendo il conto con le dita.

“Piuttosto – riprese dopo un attimo la Contessa, chiamando a sé proprio Bartolo, che le si avvicinò all'istante – parliamo meglio di come organizzare la difesa nei vostri quartieri...”

Mentre Caterina parlava fittamente coi due nobili forlivesi, la città attorno a loro pulsava di vita in modo impressionante. Malgrado la paura di essere invasi da un momento all'altro, gli abitanti di Forlì stavano reagendo meglio del previsto e i commerci e le attività di ogni genere si erano intensificati in quelle settimane. A quanto aveva scritto Tommaso Feo, inoltre, anche a Imola si registrava un fervore non comune.

In quell'aria satura di voci e cigolii di ruote di carretti, Caterina non si avvide subito di quello che stava accadendo a pochi passi da lei. Ottaviano e Giacomo si erano messi a parlare tra loro e i toni si stavano facendo sempre più accesi e, una volta tanto, nessuno dei due sembrava intenzionato a retrocedere per primo.

“Come ti permetti?!” sbottò improvvisamente Giacomo, a voce tanto alta da zittire Bartolo Marcobelli, che stava magnificando l'abilità con la spada dei suoi uomini, e facendo voltare subito sia la Contessa, sia l'Orcioli.

Caterina si girò verso il marito e il figlio appena in tempo per vedere la mano di Giacomo guizzare in aria e colpire con forza la guancia di Ottaviano.

Il ragazzino si piegò un po' su se stesso, mentre il Governatore Generale si accorgeva improvvisamente di tutti gli occhi puntati su di loro. Quando incrociò lo sguardo della moglie, poi, si sentì sprofondare.

“Sei finito, maledetto stalliere...” sibilò Ottaviano, prima che sua madre fosse abbastanza vicina da poterlo sentire.

Giacomo deglutì, terrorizzato da quelle parole così cariche d'odio ed era tanto concentrato nel prepararsi a una sfuriata della moglie, che si avvicinava di corsa a loro, che non si accorse della reazione del giovane Conte.

Sorprendendo se stesso per primo, Ottaviano fece un balzo in avanti e protese le mani verso il suo rivale, deciso a torcergli il collo là dov'erano, davanti a tutti, sia per toglierselo dai piedi una volta per tutte, sia per lavare l'onta di essere stato picchiato da un plebeo vestito di raso.

Prima che potesse raggiungere Giacomo, però, il ragazzino sentì la presa sicura e ferma di sua madre, che l'aveva agguantato per una spalla: “Fermati subito.” gli intimò.

Ottaviano represse un grido di frustrazione, mentre la guancia colpita dallo schiaffo bruciava come una fiamma viva.

“Stai dando spettacolo – gli disse la madre, allontanandolo di peso da Giacomo – vattene alla rocca e non permetterti mai più di fare infuriare a questo modo il Governatore, soprattutto in pubblico.”

Ottaviano, reso cieco dalla rabbia, non vide lo sguardo di rimprovero e astio che Caterina aveva lanciato a Giacomo e si convinse intimamente che la madre credesse che solo lui fosse in torto e che lo stalliere fosse la vittima.

Senza farselo ripetere, Ottaviano cominciò a camminare a passo svelto, cremisi di rabbia e vergogna, alla volta di Ravaldino.

Caterina lo guardò mentre si allontanava e poi si ricordò di Orcioli e Marcobelli e di tutti i forlivesi presenti, che si erano come cristallizzati là dov'erano per poter osservare meglio quel teatrino.

“Non c'è nulla da vedere!” esclamò, guardando la folla che, temendo qualche punizione, riprese immediatamente a comportarsi normalmente.

Poi la Contessa si rivolse ai due nobili che l'accompagnavano: “Perdonatemi, mio figlio è molto nervoso in questo periodo.”

Bartolo Marcobelli le disse che non doveva affatto scusarsi, che i ragazzini a volte sono complicati, mentre Bartolomeo Orcioli guardava con insistenza Giacomo Feo, che se ne stava immobile sul posto, teso come una corda d'arco.

“Vi auguro di risolvere la questione nel modo migliore.” disse Orcioli, con un breve inchino.

“Ci aggiorniamo domani.” concluse Caterina, salutando entrambi gli uomini e dedicandosi finalmente a Giacomo.

“Andiamo alla rocca.” gli sussurrò, senza tradire alcuna emozione e questo bastò a Giacomo per avere paura.

 

Andrea Bernardi spalancò gli occhi e si sentì un po' in fallo nel pensare che avrebbe voluto vedere la scena coi propri occhi.

“Uno schiaffo?” chiese, incrociando le braccia sul petto, il rasoio in una mano, lo straccio da barba dall'altro.

Il cliente mezzo rasato che stava seduto davanti a lui occhieggiava ora verso il ragazzo che era andato a riferire, ora al Novacula, chiedendosi come gli altri clienti in attesa cosa ci fosse di vero.

“Un colpo bello secco, mondo boia!” assicurò l'informatore, che sperava di ricavare da quella rapida delazione una sommetta discreta: “E il Conte poi l'ha guardato con certi occhi che sembrava volesse ammazzarlo, de'.” concluse, con soddisfazione.

“Che diavolo, è sufficiente per metterlo alla forca!” esclamò uno dei forlivesi in coda per farsi sbarbare.

Il Novacula lo guardò di sfuggita, vedendosi costretto a pensarla esattamente allo stesso modo, per quanto la cosa lo facesse rabbrividire. Dare uno schiaffo al Conte era di certo uno di quei delitti punibili con la morte.

E d'altro canto, se la Contessa non avesse fatto nulla per punire il suo Governatore Generale, dato che c'erano così tanti testimoni, sarebbe stata ugualmente una mezza catastrofe, perché l'ascendente e il potere di Giacomo Feo sarebbero stati definitivamente innegabili.

“E la Contessa che ha fatto?” si informò Bernardi, mentre la sua mente elaborava una miriade di possibilità.

Il ragazzino alzò le spalle e riferì: “L'ha fermato e l'ha mandato alla rocca, come se lo schiaffo l'avesse tirato lui al Feo e non il Feo a lui.”

“Avrà voluto punire il figlio perché ha provocato il Governatore...” cercò di dire il Novacula, che però non se la sentiva troppo di difendere Giacomo Feo.

“Sarà come dite – fece l'informatore, appoggiandosi allo stipite della porta – ma un Governatore che prende a schiaffi un Conte davanti a tutti io non l'avevo mai visto.”

“Porco mondo, gente...” bofonchiò il cliente con la barba a metà, come a dar ragione al ragazzo.

Il Novacula chiese se ci fosse altro e il ragazzino disse di no, almeno per il momento. Così il barbiere prese qualche moneta e la lanciò al suo informatore che, saggiatane l'autenticità, le infilò in tasca e uscì promettendo di tronare se ci fossero stati nuovi sviluppi.

“E c'è gente che ancora si chiede se quello sia o meno il suo amante...” borbottò un altro cliente, accolto da cenni d'intesa ed esclamazioni di pieno accordo.

Quando tornò a rasare il suo cliente, Bernardi si accorse che le sue mani non erano ferme come al solito e così, con la scusa di dover far il filo alla lama, si prese un momento per calmarsi, prima di tagliare qualcuno senza volerlo.

 

“Che accidenti ti è saltato in mente?! Come ti sei permesso di dare uno schiaffo a mio figlio?!” la voce di Caterina era pregna d'ira e minaccia.

Giacomo non osava guardarla nemmeno per sbaglio. Stava in piedi, le spalle un po' curve, le guance rosse e le orecchie quasi viola, divorato da un insieme confuso di emozioni, che culminavano con l'ardente desiderio di poter tornare indietro.

Sapeva bene quello che aveva fatto e conosceva le punizioni possibili per un simile gesto e per come sua moglie stava inveendo contro di lui, era plausibile pensare che Caterina stesse seriamente pensando di seguire le norme di legge.

“Mi hai messo in difficoltà – fece la donna, come a rafforzare il dubbio del marito – e adesso non so cosa fare!”

La Contessa camminava avanti e indietro, in un atteggiamento di nervosismo che aveva involontariamente appreso nella convivenza con il giovane Governatore Generale. Le mani allacciate dietro la schiena erano tanto strette l'una nell'altra da essere bianche come la neve, in netto contrasto con il suo collo chiazzato.

Giacomo deglutì un paio di volte, poi, con voce incerta, quasi irriconoscibile, provò a perorare la propria causa: “È stato lui a cominciare...”

“Come?” Caterina aveva interrotto di colpo il suo andirivieni, e mentre si rivolgeva al marito, il Paradiso parve improvvisamente troppo piccolo a entrambi.

“Lui... Mi ha preso in giro e mi ha detto cose orribili... Se tu sapessi cosa...” farfugliò Giacomo, sperando in uno spiraglio di comprensione da parte della Tigre.

“Ma cha diamine, Giacomo!” esclamò invece lei, incredula: “Tra voi due l'adulto dovresti essere tu!”

Quell'insinuazione tolse ogni desiderio di difendersi a Giacomo, che si lasciò sgridare come un bambino fino a che Caterina ebbe voce in corpo.

Mentre la donna elencava le sue varie manchevolezze e lo rimproverava per i guai che le avrebbe fato passare e per le spiegazioni che lei avrebbe dovuto di certo dare ai nobili di Forlì per scusare la mancanza di punizioni nei suoi confronti, Giacomo tenne il capo chino e restò muto.

“Userò la scusa della guerra imminente – decise alla fine la donna – dirò che la tua punizione è solo rimandata, che ora mi servi, che non posso condannare a morte un Governatore Generale per uno schiaffo in un momento simile...”

La Contessa ormai parlava più che altro tra sé e sé, perciò Giacomo non osò dire la sua, quando sentì la dicitura 'condannare a morte'. Era certo che Caterina non l'avrebbe mai e poi mai fatto uccidere, ma sapeva che la punizione per quel suo gesto sconsiderato alla fine sarebbe arrivata, in una forma o nell'altra.

Sedendosi sul letto, esausta, la Contessa dichiarò chiusa la questione, e pregò Giacomo di non cogliere mai più le provocazioni di Ottaviano: “Fa così solo perché è geloso.” sussurrò la donna, scuotendo lentamente il capo.

Giacomo non volle sindacare su quel punto. Si sedette accanto alla moglie e restò così, in silenzio, ancora per un po'.

Nella sua mente si faceva largo una nuova rivelazione circa la sua situazione. Doveva fare tutto il possibile per eliminare Ottaviano, o, presto o tardi, quel pestifero ragazzino avrebbe trovato il modo di eliminare lui, checché Caterina ne dicesse.

“Promettimi di stare più attento.” disse la Contessa, a un certo punto, sfiorando la guancia del marito con una mano.

Giacomo annuì e sussurrò: “Lo prometto.”

 

Ottaviano si era rintanato immediatamente nella stanza dello studio, dove aveva trovato Bianca intenta a leggere un poema epico e Cesare, che rileggeva passi a caso del breviario.

Dopo qualche concitato momento in cui il Conte aveva raccontato ai due fratelli quello che era accaduto in mezzo a una delle polverose strade di Forlì, i tre si erano messi a discutere animatamente tra loro, muovendo accuse e proponendo soluzioni spesso scombinate.

“Io ti conosco – disse Bianca, sfruttando uno dei brevi silenzi di Ottaviano, la cui guancia colpita esibiva ancora i segni pulsanti dell'affronto subito – e so di certo che sei stato tu a cominciare! Che gli hai detto?”

Il Conte strinse i denti, assumendo la medesima espressione aggressiva che Bianca ricordava di aver visto a volte sul viso del loro signor padre quando litigava con la loro madre: “Gli ho detto la verità, quello che si meritava, cioè che è solo un mantenuto, un pezzente, e che si dovrebbe vergognare ad andare in chiesa a pregare, quando passa le notti con nostra madre, senza il minimo pudore...!”

Cesare, che dei tre era il più taciturno, si fece brevemente il segno della croce e i suoi occhi iniziarono a fissare il pavimento, come se fosse intento a seguire qualche ragionamento particolarmente complesso.

Bianca, invece, non si dava per vinta: “Ebbene, allora ha fatto bene a darti una sberla!”

Ottaviano torreggiò su di lei, facendo valere la sua statura: “Se credi che abbia fatto bene, sono problemi tuoi. Io so solo che per uno schiaffo a me, dovrebbe finire impiccato in pubblica piazza! Io sono il Conte e lui è solo un morto di fame! Nostra madre avrebbe dovuto reagire subito e difendermi, invece di difendere lui!”

Bianca, allora, provò a giustificare il comportamento materno, benché si trovasse concorde col fratello: “Forse non voleva scatenare una rissa o dei disordini... Se avesse deciso di farlo arrestare là, in mezzo a tutti...”

Il Conte fece una smorfia e poi ghignò, come a sottolineare con una maturità non sua l'ingenuità della sorella minore: “Te lo dico io: a quello non accadrà nulla. Non vedi che lei ha paura di quell'uomo?”

La ragazzina cercò lo sguardo anche di Cesare, che però sembrava ancora immerso nelle sue elucubrazioni, così fece un sorrisetto incerto e disse: “Ma che dici... Ti sbagli... Nostra madre non ha paura di nessuno. Non aveva paura nemmeno di nostro padre.”

“Che non avesse paura di nostro padre è verissimo – concordò immediatamente Ottaviano – infatti ci litigava e lo affrontava di continuo e apertamente, mentre non vedi che non questo stalliere ripulito non fa nulla di tutto ciò? Alla fine fa sempre quello che gli dice lui. Lo vedo, anche in Consiglio. Se lui dice qualcosa che a lei non va bene, non lo riprende mai, non lo zittisce mai, non fa nulla per rimetterlo al suo posto. Ne ha paura.”

“Dobbiamo fare qualcosa.” fece all'improvviso Cesare, risvegliandosi dal suo isolamento: “Messa davanti a una scelta, nostra madre sceglierà sempre lui.”

Bianca guardò prima Cesare e poi Ottaviano e poi alzò le braccia: “Ve l'ho già detto una volta: io non ne voglio sapere nulla.”

“Allora esci. Io e Cesare dobbiamo parlare.” fece Ottaviano, indicandole la porta.

Bianca lasciò a malincuore i due fratelli da soli, un oscuro presentimento che scendeva su di lei come una condanna silenziosa.

Prima che scendesse la sera, una lettera partì dalla rocca di Ravaldino alla volta di Roma.

 
   
 
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