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Autore: Adeia Di Elferas    14/10/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Raffaele Sansoni Riario era stato mandato di nuovo dal papa nelle terre della sua parente, questa volta con un duplice compito. Il primo, consegnare una Breve di grande importanza, e il secondo stava nel tentare un'ultima volta di convincere la Contessa Riario a cedere e parteggiare per il papato, come sarebbe stato suo buon dovere, essendo una delle signore della Romagna.

In realtà Raffaele aveva accettato di buon grado quell'improvviso incarico alla luce della lettera oltraggiata che Ottaviano gli aveva fatto recapitare qualche giorno addietro.

Gli era parso tutto molto assurdo, quando aveva letto dalle vive parole del giovane Conte come il Governatore Generale Feo lo avesse schiaffeggiato in pubblico, ma ancora di più era rimasto perplesso nel leggere che Caterina non aveva fatto nulla per punire il colpevole e che, anzi, se l'era presa con Ottaviano, impedendogli anche di ottenere soddisfazione ricambiando, se non altro, il colpo ricevuto.

Per quel che Raffaele aveva potuto constatare indagando con la discrezione tipica dei cauti, i pettegoli, perfino i più agguerriti, che vivevano fuori dal forlivese sapevano poco o nulla di quello che era accaduto, ma gli era bastato varcare il confine dello Stato di Caterina per trovarsi immerso in un'atmosfera di timoroso desiderio di chiacchierare.

L'argomento sotteso a tutti i discorsi, infatti, era proprio lo schiaffo del Feo al Conte, ma nessuno pareva abbastanza ardito da citare apertamente quello che era accaduto. Solo un oste particolarmente ciarliero aveva osato dire qualcosa in più.

Notando gli abiti particolari di Raffaele, che aveva deciso di fare quella sosta non necessaria solo per raccogliere ancora informazioni, l'uomo gli si era avvicinato e aveva sussurrato nell'orecchio del Cardinale: “Avete sentito la storia dello stalliere che prende a ceffoni il Conte?”

E così l'oste, previo cospicuo pagamento, aveva riferito a Raffaele ogni dettaglio, essendo stato lui presente alla scena, e quando il Cardinale gli aveva domandato come mai nessuno sembrava volerne parlare, l'uomo alzò le massicce spalle e commentò: “Son passati già più di dieci giorni e quello ha ancora la testa attaccata al collo. Anche uno stupido a questo punto capisce che la Contessa lo preferisce in tutto al figlio e quindi è ovvio aver paura.”

Al che Raffaele aveva chiesto se la Contessa fosse così temuta da riuscire addirittura a tenere a bada le lingue lunghe dei popolani e l'oste aveva annuito senza indugio: “Chi va contro di lei perde la vita, mio signore – e poi aveva aggiunto, a voce più bassa – e adesso tutti hanno capito che il Governatore le fa fare quello che vuole lui.”

Raffaele aveva ringraziato per tutto ed era ripartito alla volta di Forlimpopoli, dove Piero Landriani era già stato avvisato del suo imminente arrivo. Questa volta il Cardinale Sansoni Riario avrebbe incontrato Ottaviano e Caterina separatamente e avrebbe fatto con loro discorsi molto diversi rispetto a quelli tenuti nel corso della sua ultima visita.

 

Quando arrivò a corte la notizia della visita di Raffaele Sansoni Riario, la prima reazione di Caterina fu di insofferenza. Non aveva alcuna voglia di parlare di politica e sapeva bene che il cugino del suo primo marito era lì anche per quello.

Prima di incontrarsi con il porporato, che aveva espressamente domandato di poterla vedere in privato, questa volta, Caterina aveva convocato i suoi Consiglieri più stretti per un breve consulto in merito ai punti anticipati dal Cardinale nel suo messaggio.

L'assenza del Conte – che dopo lo spiacevole episodio dello schiaffo non aveva più presenziato in nessuna occasione ufficiale – aveva innervosito alcuni dei Consiglieri, ma Caterina aveva trovato la scusa delle scuse, dicendo che il figlio era poco in forma e che non era il caso di scomodarlo per una cosa del genere.

“Restituirvi il feudo di San Mauro è stato un atto di buona volontà da tener presente.” fece notare Luffo Numai, suo malgrado.

La Breve, portata dal Cardinale Sansoni Riario, con cui papa Alessandro VI sanciva definitivamente il ritorno di quel fazzoletto di terra sotto il dominio della Contessa Sforza Riario aveva suscitato reazioni contrastanti tra i Consiglieri.

“Io invece credo che si tratti solo di un modo per rabbonirci e cercare di comprarci.” aveva subito ribattuto l'Oliva, tenendo le mani giunte sul tavolo.

Filippo Delle Selle sbuffò sonoramente: “Ma che dite...! Il papa ha solo fatto giustizia. E poi non sa nemmeno lui da che parte sta.”

Caterina aveva ascoltato i pareri di tutti, ma aveva già deciso in partenza di accettare di buon grado quella restituzione, mantenendo comunque la solita equidistanza dalle parti.

Quando finalmente la riunione si sciolse, Luffo Numai si permise di avvicinarsi un po' alla Contessa e disse: “I faentini chiedono quando faremo cominciare le visite di vostra figlia al giovane Astorre.”

Caterina sbuffò, ben sapendo che quella era la prassi, in caso di lungo fidanzamento. Bianca e Astorre erano obbligato dall'etichetta a passare qualche tempo l'uno alla corte dell'altra, con la scusa di conoscersi meglio.

Aveva accennato questa cosa alla figlia, ma aveva avvertito in lei una certa esitazione nell'accettare, perciò aveva deciso di darle ancora un po' di tempo.

Così, guardando distrattamente Luffo che attendeva con ansia una risposta, la Contessa rispose: “Lasciamo passare l'estate. Quest'autunno, magari.”

L'uomo fece un inchino, nascondendo male il suo disappunto, e si allontanò.

“Penso di tornare in tempo per cena. Se dovessi far troppo tardi, mi fermerò a dormire a Forlimpopoli.” fece Caterina, rivolgendosi a Giacomo.

Il giovane, che per tutta la riunione era rimasto nel suo angolo, gli occhi un po' cerchiati e lo sguardo inquieto e distante, ondeggiò un po' la testa e si lamentò: “Ma devi proprio andarci da sola? Non posso venire anche io?”

Giacomo stava passando delle giornate orribili. Ogni volta che sua moglie lo costringeva a prendere parte a qualche riunione o incontro ufficiale, il Governatore Generale non riusciva a evitare al suo stomaco di chiudersi e alle sue mani di sudare. Temeva sopra ogni altra cosa che qualche nobile forlivese, prima o poi, alzasse la questione dello schiaffo e della sua punizione.

Non era ancora accaduto, ma Giacomo sapeva che alla fine qualcuno avrebbe riportato l'attenzione di tutti su quell'evento catastrofico e allora Caterina sarebbe stata chiamata a decidere, a scegliere tra lui e Ottaviano.

Il Conte si era fatto troppo calmo, aveva accettato con troppa tranquillità l'indifferenza della madre, aveva piegato il capo troppo facilmente. Giacomo era certo che prima o poi quel ragazzino avrebbe trovato il modo per fargliela pagare e quindi era indispensabile anticipare le sue mosse e renderlo inoffensivo, anche a costo di macchiarsi di un peccato orribile.

“No, voglio incontrarlo da sola, così come mi ha chiesto.” ribatté la Contessa.

La donna si preoccupava a vedere Giacomo in quello stato, ma non sapeva che altro fare per rasserenarlo. Era riuscita ad arginare bene la questione in Consiglio, avanzando la scusa della guerra imminente e aveva notato con una certa soddisfazione che anche il popolo non pareva incline a voler una punizione per il Governatore. Che questa tendenza fosse legata solo alla paura, poco le importava.

Giacomo, allora, si congedò dalla moglie, che gli consigliò di starsene un po' tranquillo al Paradiso, magari a riposare o a esercitarsi con la lettura.

Egli abbozzò un sorriso e disse che avrebbe fatto esattamente come diceva lei. Invece, non appena Caterina lasciò il salone per andare a prendere un cavallo e partire per la rocca di suo fratello Piero, Giacomo ripescò da una delle tasche della sua leggera giacca di seta un biglietto che aveva fatto vergare quella mattina da uno degli scribacchini.

Uscito dalla sala, chiamò a sé uno dei servi e gli ordinò senza tante cerimonie di portare quel biglietto all'ambasciatore napoletano che in quei giorni risiedeva in città.

 

“La situazione non è delle più rosee.” ammise Raffaele: “Soprattutto da quando nostro cugino Giuliano è in Francia a sobillare Carlo...”

La rocca di Forlimpopoli offriva un certo riparo dal caldo incredibile di quel giorno di giugno e Caterina aveva apprezzato la scelta del Cardinale di mettersi a parlare in una delle salette più interne. Lo spessore dei muri, in quel punto, era tale da impedire in ogni modo all'afa di raggiungerli.

Stavano sorseggiando un po' di vino romano che Raffaele aveva portato espressamente per compiacere la Contessa, ricordandosi come durante la sua vita in Vaticano, Caterina ne fosse una grande estimatrice.

“La Spagna e il Portogallo, poi, si sono spartiti anche sulla carta il Nuovo Mondo – proseguiva l'uomo, dimostrandosi, forse per la prima volta davanti alla Contessa, addentro nelle questioni politiche del suo tempo – e noi perdiamo sempre più importanza.”

Caterina lasciò che il rosso di Roma le accendesse la gola e poi disse: “Capisco la vostra apprensione e la condivido. Tuttavia mi chiedo perché mi abbiate voluta incontrare con tanta urgenza. Questi discorsi li potevamo fare anche per lettera.”

“Dovevo consegnarvi la Breve del papa.” fece Raffaele, passandosi una mano sulla pelata sempre più spaziosa.

“A parte quello. Perché mi avete fatta venire qui?” insistette la Contessa, immaginando bene cosa avesse portato il Cardinale a Forlimpopoli.

“Ho saputo di quello che è accaduto tra vostro figlio e il Governatore Generale Feo.” buttò lì, tutto d'un fiato, Raffaele.

Il lampo che attraverso gli occhi della donna gli fecero quasi rimpiangere quella sua iniziativa, tuttavia Caterina, negli anni, si era addolcita molto nei suoi confronti ed era una donna diversa da quella che Raffaele aveva cercato di convincere a lasciare Castel Sant'Angelo, prima del Conclave dell'84. Dieci anni avevano lasciato il segno anche su di lei.

“Ho già chiarito l'episodio tanto con mio figlio quanto con il Governatore.” rispose seccamente Caterina, senza alterarsi troppo.

Raffaele alzò il sopracciglio, in un gesto del tutto involontario, e la Contessa capì al volo che il Cardinale sapeva più di quel che voleva dire.

Versandosi ancora un po' di vino, Caterina disse, bilanciando le parole: “Mio figlio Ottaviano a volte sa far innervosire anche le persone più tranquille. Doveva aspettarsi una reazione, prima o poi. In ogni caso, anche il Governatore ha sbagliato, è ovvio, e prima o poi pagherà il suo errore. Al momento, però, abbiamo questioni più importanti a cui rivolgere la nostra attenzione.”

Raffaele sospirò lentamente, cercando di capire cosa ci fosse davvero sotto alle parole della cugina acquisita e decise che lo avrebbe scoperto lasciandola parlare il più possibile, e per farlo aveva bisogno di tempo: “Restate a cena, vi prego. Da troppo tempo non ho il piacere di stare tra mura domestiche a parlare con un parente.”

Era solo il primo pomeriggio, dunque era da ipocriti pensare che non ci fosse il tempo materiale di tornare a Forlì in tempo per cena, ma Caterina, scoraggiata dal caldo che avrebbe dovuto affrontare al ritorno, accettò abbastanza a cuor leggero. Anche se le sembrava impossibile, appena aveva oltrepassato il ponte della rocca di Forlimpopoli, si era resa conto di volere un momento di stacco dalla sua vita a Ravaldino.

 

Giacomo assecondava il passo baldanzoso del suo cavallo, anche se nel suo cuore avvertiva una sensazione terribile e funesta. Si sentiva in colpa ancora prima di cominciare, ma era proprio quella sensazione pulsante di vita, che dal petto si irradiava al collo e a tutto il corpo a spingerlo a proseguire.

Sperava che l'ambasciatore napoletano avesse capito quale fosse il punto pattuito e quando arrivò al piccolo spiazzo tra le piante, il giovane tirò un mezzo sospiro di sollievo nel vedere il profilo asciutto e arcigno del partenopeo che l'attendeva.

Il diplomatico gli fece un breve cenno col capo e Giacomo smontò di sella, conducendo la sua bestia tenendola per le redini.

“Siamo soli?” domandò il Governatore Generale, guardingo.

Il napoletano, i cui occhi brillavano sotto al sole del pomeriggio di giugno, annuì lentamente e notò: “Sono sorpreso da questa convocazione in questo luogo così...” si guardò attorno, con fare volutamente esagerato e concluse: “Bucolico.”

Giacomo era tanto nervoso da non notare nemmeno quell'affettazione e così spiegò: “La mia signora ha pensato che fosse meglio che io vi incontrassi qui affinché nessun diplomatico milanese potesse origliare.”

Mentire era più difficile del previsto: la lingua si impastava, le mani tremavano e la fronte di imperlava di sudore. Giacomo avrebbe preferito un pugno, piuttosto che affrontare quella prova.

“Ebbene, la vostra signora è molto saggia.” fece l'ambasciatore di Napoli, il sorrisetto celato dai baffi: “Dunque siete qui per sentire cosa Napoli può davvero offrirvi.”

Giacomo annuì, incapace di parlare ancora. Cercava di ripristinare la salivazione e di riacquistare il controllo di sé, ma quello che stava facendo era qualcosa di più grande di lui e se ne stava rendendo conto troppo tardi.

“Re Alfonso è ben disposto a darvi protezione, a mandare i suoi uomini nelle vostre terre, a vendicare ogni offesa possibile dei francesi, a patto che voi ci diate libero accesso alla via Emilia e ci sosteniate con i foraggiamenti alle truppe.” elencò il partenopeo, senza giri di parole: “La vostra signora sta facendo gli occhi dolci a tutti, ma non ha deciso di stare con nessuno. Il mio re è molto infastidito da questo atteggiamento. È stata lei a cercare un contatto con lui, qualche mese addietro, ma appare ogni giorno più ovvio che si era trattata di una farsa, tanto per farsi beffa del Moro, che le aveva negato l'invito alla riunione di Ferrara.”

Giacomo ascoltò tutto standosene immobile, le briglie del cavallo in una mano, l'altra appoggiata al fianco.

Il diplomatico straniero sapeva dove colpire. Era stato istruito a fondo sia dai fiorentini sia dai suoi e quando il Governatore Generale aveva chiesto quell'incontro, non gli era parso vero. Poteva essere lui, l'uomo in grado di convincere la Contessa Sforza Riario a cedere. Se ci fosse riuscito, sarebbe tornato a Napoli da eroe e il suo re lo avrebbe coperto d'oro e titoli.

“Capisco i tentennamenti di vostra moglie.” disse piano il partenopeo, azzardando quella mossa, sperando che le sue spie avessero fatto bene il loro lavoro.

Giacomo, assorto com'era nei suoi sensi di colpa, non si rese nemmeno conto di quello che il diplomatico aveva davvero ammesso di sapere con quella semplice frase e così la sua assenza di reazioni diede nuova forza allo straniero.

“Ed è per questo – riprese l'ambasciatore – che il mio re vorrebbe proporvi un accordo preferenziale e personale. Se convincerete la Contessa a firmare un accordo con Napoli, vi aiuteremo a prendere il posto di Ottaviano Riario e faremo di voi il nuovo Conte di Imola e signore di Forlì.”

Giacomo deglutì: “In che modo?”

Il napoletano si tolse un po' di polvere immaginaria dalla giubba, assumendo un'espressione del tutto tranquilla: “Dubito che la vostra signora accetterebbe di deporlo, dunque dovremo trovare il modo di farlo uscire di scena altrimenti. Un incidente di caccia, una caduta da cavallo, una malattia... Quante cose possono accadere a un giovane uomo.”

Giacomo avrebbe voluto potersi sedere. Gli stavano offrendo esattamente quello che lui stava cercando. E allora perché si sentiva così male?

“E se la Contessa non volesse firmare un'alleanza con il vostro re?” chiese il Governatore Generale, avanzando quell'ipotesi con riluttanza.

Il diplomatico si fece di nuovo serissimo e gli puntò gli occhi addosso: “Credevo che voi foste l'unico uomo sulla terra in grado di farle fare tutto, perfino ciò che non vuole fare. Dunque, non dovrebbe essere un problema, se voi vi mettete d'impegno.”

Giacomo fece un cenno secco con il capo, trovandosi, senza alcuna traccia di modestia, d'accordo con lo straniero.

“E se dopo... Dopo... Insomma, se dopo la...” balbettò il giovane, non volendo dire davvero quelle parole.

“Se dopo la morte di Ottaviano Riario...” lo aiutò il napoletano, sentendoselo ormai in pugno.

“Ecco, se dopo lei capisse e non volesse più avere a che fare con voi e mi impedisse di diventare Conte? Che succederebbe?” la domanda di Giacomo lo aveva quasi fatto vergognare e quindi i suoi occhi si erano puntati sul manto erboso sotto ai suoi piedi.

Il napoletano trovò quell'atteggiamento abbastanza infantile dall'essere imbarazzante, ma non lo diede a vedere.

Anzi, rispose con fare incoraggiante e cameratesco, come se condividesse i patimenti del Governatore invece di disprezzarli: “Se la Contessa dovesse opporsi con troppa forza, faremo in modo di sbarazzarci anche di lei.” e in effetti, in tutta sincerità, il napoletano era certo che alla fine sarebbe andata così, perché una donna come la Sforza avrebbe compreso al volo il sotterfugio messo in atto da quel buono a nulla del marito.

Giacomo sgranò gli occhi e li sollevò sul partenopeo, facendo mezzo passo indietro. Il suo cavallo nitrì e diede un colpetto in terra con uno zoccolo, come se anche lui fosse rimasto sconcertato da quell'ipotesi.

“Ma...” per un momento Giacomo non si ricordò più di chi aveva davanti, ottenebrato solo ed esclusivamente dalla portata di quello che si stava decidendo in quello spiazzo di bosco: “Ma lei è la prima, l'unica donna che io abbia mai amato...”

Il napoletano lo guardò, chiedendosi se stesse scherzando o se parlasse sul serio, poi il suo viso si ammantò di un'indecifrabile coltre di pietà: “Sareste il pupillo di re Alfonso...! Con la vostra nuova posizione, potrete avere di meglio, altro che una misera Contessa... Vi vorranno Duchesse, Marchesine, Baronesse... Principesse, perfino.”

“Non mi interessano.” disse subito Giacomo, irrigidendosi.

Per quanto ne fosse sorpreso, il napoletano capì di aver fatto un passo falso, perciò retrocesse un po', dicendo, pur con poca convinzione: “Ma non è il caso di preoccuparsene adesso. Di certo vostra moglie seguirà i vostri consigli e non ci sarà bisogno di arrivare a tanto. Ci basterà eliminare Ottaviano Riario e tutto filerà liscio.”

Giacomo annuì, la gola più secca che mai e il cuore che batteva all'impazzata contro le coste.

“D'accordo, allora. Il mio re vi dà al massimo due mesi. Convincetela a firmare un patto con noi o...” il napoletano lasciò cadere la voce e Giacomo comprese improvvisamente che se non fosse riuscito a rispettare la sua parte di piano, non solo i napoletani non lo avrebbero liberato da Ottaviano, ma si sarebbero rifatti su di lui, rendendo Caterina vedova per la seconda volta.

I due uomini si strinsero la mano e il Governatore Generale lasciò che l'ambasciatore partenopeo lo anticipasse e se ne tornasse in città prima di lui.

Cavalcando immerso nei suoi pensieri, senza vedere nemmeno la strada percorsa dal cavallo, Giacomo arrivò a Ravaldino. Senza intrattenersi con nessuno e dicendo ai servi che non avrebbe cenato, si ritirò al Paradiso.

Quando fu certo di essere solo, si allargò con due dita il colletto della camicia di seta, sentendosi mancare l'aria nei polmoni. Avvertì il desiderio di vomitare e gli sembrò di essere sull'orlo di uno svenimento.

Quando sentì bussare, senza la lucidità di ricordarsi che lei non si annunciava mai, nemmeno con un colpo alla porta, temette che fosse sua moglie e che se lo avesse trovato in quello stato – riverso a terra, mezzo svestito, le guance rigate di lacrime e le mani ad artiglio sullo stomaco – avrebbe capito tutto con un solo sguardo, perché lei era così, lei capiva sempre tutto.

E invece era la cameriera di Caterina che, senza aspettarsi il permesso di entrare, disse a voce alta: “La Contessa ha mandato un messaggio per dire che passerà la notte a Forlimpopoli.”

Giacomo fece un suono gutturale, per dirle che aveva sentito, per evitare che entrasse.

Sì, Caterina avrebbe capito tutto. Se Ottaviano fosse morto, non avrebbe mai creduto a un incidente. Alla fine, quindi, i napoletani avrebbero dovuto uccidere anche lei. Ormai Giacomo aveva risvegliato il cane addormentato e o lui o sua moglie avrebbero conosciuto le sue zanne.

Si era fermata a Forlimpopoli per la notte...

Giacomo si tirò su a fatica e si buttò sul letto. Abbracciò il cuscino di sua moglie e inspirò il suo sentore con il respiro spezzato dai singhiozzi.

Cercando di ricomporsi, smise di annusare il guanciale e si asciugò le lacrime. Doveva farsene una ragione fin da subito e doveva fare del suo meglio per convincerla. Aveva due mesi, non era molto tempo.

Seduto sul letto, Giacomo cominciò a organizzare la sua mente in modo da formulare al meglio il suo piano.

E nel frattempo, perfido come un serpente velenoso, un insieme sconnesso di rancore e sospetto gli rimbombava nella mente, dicendogli monotono e insinuante: 'Lei non ti vuole più. L'hai delusa troppe volte. Si sta stancando di te. Se non la uccidi tu, alla fine sarà lei a uccidere te...'

 
   
 
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