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Autore: Adeia Di Elferas    17/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Raffaele se ne tornava a Roma con nulla di che per le mani, se non una grande ansia che gli era nata nel petto dopo essersi incontrato con il giovane Conte Ottaviano.

Il ragazzino, che la madre aveva mandato con solerzia a parlare con il Cardinale, aveva dipinto un quadro molto drammatico, molto più teso e complesso rispetto a quello che aveva tratteggiato la Contessa durante la loro cena.

Ottaviano aveva parlato senza mezzi termini, spiegando come ormai la madre fosse del tutto succube di Giacomo Feo e della sua sete di potere. Aveva spiegato tutti i comportamenti della Contessa con la sua sottomissione, ormai irreversibile, al Governatore Generale.

Quando Raffaele aveva cercato di sondare meglio il terreno, cercando di capire se Ottaviano stesse parlando per sola gelosia o a ragion veduta, il ragazzino non aveva avuto problemi a dire: “Mia madre ormai teme quell'uomo ed è solo troppo orgogliosa per ammetterlo e cercare aiuto in prima persona.”

Il Cardinale Sansoni Riario, a quelle parole, non aveva potuto fare a meno di richiamare alla mente i discorsi che lui e la Contessa si erano scambiati alla rocca di Forlimpopoli, prima che lui si incontrasse con Ottaviano.

Raffaele aveva notato un'accennata, ma comunque presente, insofferenza di Caterina, nel parlare di Giacomo. Nei confronti di quell'uomo pareva avere qualche riserva, qualche reticenza di ordine diverso rispetto a quelle che aveva avuto durante il loro ultimo incontro, avvenuto circa un anno addietro. Era poco, lo doveva ammettere, ma vista l'abilità di dissimulare della Contessa, vederla storcere un po' le labbra come aveva fatto nel criticare velatamente il Governatore Generale per alcuni suoi atteggiamenti o sentirla reprimere un mezzo sbuffo quando si citava l'episodio dello schiaffo, era già sufficiente per pensare che Ottaviano avesse almeno un po' di ragione.

Quando il Conte aveva detto al Cardinale che era pronto a tutto, pur di sollevare sua madre, i suoi fratelli, e il suo Stato, dall'ingombrante presenza di Giacomo Feo, Raffaele l'aveva esortato a stare calmo, come aveva già fatto molte altre, ma l'aveva anche invogliato a parlarne, seppur sempre con massima cautela, a quelli che erano più fedeli alla Contessa.

“Bisogna che stiano anche loro attenti e osservino – aveva detto il porporato, mentre Ottaviano lo guardava con grande attenzione – e se anche loro ravviseranno ciò che pare ovvio ai vostri occhi, allora sarà il momento di agire, per il bene di vostra madre, dei vostri fratelli, e del vostro Stato, a maggior gloria di Dio.”

Chiuso nella carrozza che lo riparava dal caldo sulla strada verso Roma, il Cardinale Sansoni Riario si passò una mano sul collo umido di sudore e pregò, sperando che almeno in quel frangente Dio potesse dargli sostegno e lungimiranza.

 

Giugno volgeva al termine e per le vie di Roma non si parlava d'altro se non della terribile e inguaribile malattia di Lucrecia Borja, la figlia del papa.

Non appena le voci erano arrivate alle orecchie di Rodrigo, l'uomo si era sentito mancare e aveva trovato appena la lucidità di chiamare a sé le sue staffette più rapide, ordinando loro di prendere i cavalli più rapidi e correre a Pesaro per accertarsi di quello che stava accadendo.

Il papa, che da quando si era dovuto separare dalle sue donne intratteneva con loro una fittissima corrispondenza, non aveva letto nemmeno mezza riga di preoccupazione nelle missive più recenti di Giulia Farnese o di Adriana Mila. Tuttavia, appena ci aveva ragionato un momento, si era reso conto di non aver più ricevuto lettere autografe della figlia.

Se fosse davvero stata malata, era plausibile che Adriana e Giulia avessero evitato di parlargliene per lettera per poter riferire di persona la luttuosa notizia della prematura dipartita della povera Lucrecia?

No, Rodrigo non voleva credere che fosse vero.

Per quattro angosciosissimi giorni, Alessandro VI fu visto passare come un'anima in pena per i corridoi dei suoi palazzi, improvvisamente dimentico della guerra e della politica, del tutto disinteressato a ogni cosa che non fosse la salute della sua figlia prediletta.

Nemmeno Cesare, che si era offerto al volo di galoppare pancia a terra fino al palazzo di Giovanni Sforza, era sulle spine quanto lui.

All'alba del quinto giorno, in una mattina calda, ma benedetta da un fresco venticello che tirava verso il mare, giunse finalmente in Vaticano una brevissima lettera scritta dal pugno di Lucrecia. Si scusava col padre per averlo agitato tanto e spiegava che la sua malattia, che tanto aveva spaventato certi cortigiani del marito, non era nulla di che, solo una brutta reazione al caldo e al cambio di clima.

Rodrigo, che aveva letto il messaggio in solitudine, nel terrore che la lettera nascondesse qualche tremenda verità, scoppiò a piangere per il sollievo e di colpo venne attanagliato dal desiderio bruciante di riavere la figlia sotto la sua ala.

Al diavolo i patti e le consuetudini. Giovanni Sforza sapeva che sposare la figlia di un papa avrebbe comportato delle particolarità tutte da scoprire. Quella era solo una delle tante.

Così pensava Rodrigo, mentre scriveva quasi con furia una lettera di risposta per Lucrecia, implorandola sul finale di tornare a Roma: 'e sii certa – scrisse calcando bene la penna sul foglio – che mai staremo contenti fintanto che personalmente ti abbiamo visto'.

A quella lettera scritta solo col cuore, Rodrigo ne fece subito seguire un'altra, stavolta scritta con la testa, indirizzata espressamente al genero, Giovanni Sforza.

Lo invitò – sempre con quel modo di esprimersi che sottintendeva più un ordine che non un mero consiglio – a lasciare la condotta milanese, i cui pagamenti, da quando Ludovico il Moro sedeva sullo scranno del Duca, erano risaputamente sempre in ritardo e mai all'altezza degli accordi presi, e a prendere il comando di un'armata napoletana, che di certo re Alfonso gli avrebbe concesso in cambio di una lauta paga.

'Rispondete non appena ricevete questa mia', aveva precisato Alessandro VI.

Chiuse entrambe le lettere, il papa si prese un momento per riflettere, ma, prima di cambiare di nuovo idea, affidò le missive alla staffetta che era appena giunta da Pesaro e le ordinò di tornare all'istante sui suoi passi per consegnare le risposte al lieto messaggio di Lucrecia.

 

Da quando Caterina era tornata a Forlì, dopo la notte passata a Forlimpopoli, Giacomo aveva evitato categoricamente di parlare con lei di politica e di guerra.

Sapeva che i tempi stringevano e avrebbe voluto poter risolvere tutto in fretta, portando sua moglie dalla parte giusta, senza dover per forza arrivare a un gesto estremo come permettere ai napoletani di ucciderla.

In quei giorni, la Contessa non era molto presente a se stessa. Aveva avuto un paio di mattine pesanti e un breve accesso febbrile aveva fatto impensierire non poco il suo medico, che però l'aveva subito rassicurata, dicendole che probabilmente quella volta era davvero solo un piccolo colpo di calore.

La donna non aveva voluto parlare con Giacomo di quello che lei e il Cardinale Sansoni Riario si erano detti di preciso e aveva liquidato ogni sua domanda con spiegazioni molto vaghe e frasi fatte sull'organizzazione della difesa.

Con il passare lento dei giorni, soprattutto con la scusa di aiutare la moglie che sembrava in difficoltà per via del caldo, Giacomo si era offerto di sostituirla nelle riunioni più innocue, come quelle con i rappresentanti dei contadini o quelle regolari con gli Anziani. Caterina aveva accettato con sollievo quella proposta, fornendo al giovane indicazioni molto precise su cosa dire e come rispondere a eventuali lamentele e gli aveva impedito in modo molto chiaro di esprimere opinioni personali in sua assenza.

Solo all'inizio di luglio, quando tornò a Forlì una delle spie più abili di Caterina, la Contessa e il marito ritornarono a parlare di politica, ma solo nel segreto della loro camera da letto.

L'uomo di Caterina tornato da Firenze aveva descritto alla perfezione il caos che regnava sulla città. Aveva riferito con dovizia di dettagli la confusione che dominava ogni angolo della città che era stata di Lorenzo il Magnifico e la desolazione delle sue campagne.

I Piagnoni dominavano quasi ogni vicolo e le parole tonanti del Savonarola risuonavano come moniti in ogni angolo. Piero il Fatuo, secondo il forlivese, non aveva alcuna possibilità di risollevare la sua sorte, soprattutto da quando aveva bandito dalla città i due cugini, Lorenzo e Giovanni, e altri parenti che remavano contro di lui.

Gli oppositori del figlio del Magnifico continuavano a parteggiare per i Medici esuli e inneggiavano a una repubblica, sul modello veneziano, o, se possibile, ancor più democratica e libera.

Caterina aveva capito subito che in quella confusione, nessuno, tra i fiorentini, avrebbe seguito gli ordini di Piero Medici. Dunque, se i napoletani avessero voluto passare per lo Stato fiorentino, o se lo avessero voluto fare i francesi, non avrebbero trovato alcuna resistenza e questo metteva ancora più a rischio la Romagna, Forlì in particolare, giacché era sul loro confine.

La Contessa non perse tempo e scrisse vari Editti, uno dopo l'altro, il più importante dei quali era stato diramato subito anche a Imola. Si imponeva ai contadini di ritirarsi in luoghi il più possibile sicuri, in rifugi e in posti riparati, con massima cura per le donne e i bambini, perché presto, molto presto, o i francesi o i napoletani avrebbero cominciato a fare scorribande per le campagne, che lo si volesse o meno.

Gli altri ordini erano di natura varia e andavano da direttive militari a ritocchi al bilancio in vista di quella che sarebbe stata un'invasione.

“Se Firenze è davvero così messa male – stava dicendo Caterina, quella sera, mentre la sua cameriera personale le districava qualche nodo dei capelli – Napoli non aspetterà più e non lo farà nemmeno la Francia.”

Giacomo aspettava con ostentata pazienza che la serva finisse il suo lavoro e si massaggiava distrattamente un ginocchio, tenendo gli occhi fissi sul camino spento.

Già le candele sembravano emanare troppo calore, in quell'afosa notte di luglio e, tenendo chiuse le finestre per non far entrare zanzare e altri insetti, il Paradiso sembrava un piccolo forno. Il Governatore Generale si era messo sbracato, con il camicione aperto, incurante della presenza della moglie di Bernardino. Ormai non si accorgeva nemmeno più della presenza di quella donna, tanto era avvezzo a vederla prendersi cura di Caterina.

Un breve colpo di tosse catturò l'attenzione di Giacomo, ma la Contessa fece subito segno con la mano di non preoccuparsi.

La serva finì di pettinare la sua signora e poi si congedò, augurandole la buona notte.

Rimasti soli, Caterina e Giacomo rimasero per un po' in silenzio, ognuno immerso nei suoi pensieri.

La Contessa stava ripensando all'editto vergato per i contadini. Temeva che molti di loro non avrebbero ottemperato alle sue richieste per non perdere il raccolto. A poco sarebbe servito provare a spiegare che gli ammanchi di cibo sarebbero stati bilanciati dall'acquisto presso altre corti, una volta finita la prima parte della guerra.

Il Governatore Generale, invece, pensava allo scorrere incessante del tempo e all'occhiata malevola e un po' disillusa che l'ambasciatore napoletano gli aveva fatto quella mattina.

Improvvisamente, come preso da un'inarrestabile tentazione, Giacomo schiuse le labbra. Doveva dire tutto a Caterina, partendo dal principio, anche a costo di sembrare uno sciocco. Doveva spiegarle ogni cosa, ogni ricatto, ogni minaccia. Lei avrebbe saputo di certo come fare per uscirne, per salvarsi, per togliersi da quel vicolo cieco...

“Sì?” fece la donna, notando l'iniziativa del marito, che si era bloccato non appena aveva provato a parlare.

Tutta la risolutezza di Giacomo era svanita non appena aveva incontrato gli occhi verdi ramati di castano di Caterina. Il suo sguardo fiero e deciso lo aveva intimidito come faceva i primi tempi, quando si stavano innamorando l'uno dell'altra.

“Niente.” sussurrò il giovane, sollevando appena l'angolo della bocca, nel tentativo di sorridere per non destare dubbi.

'Se le dici la verità – gli sussurrò la sua mente, malevola – ti disprezzerà e ti odierà, perché quello che hai fatto è orribile e da vili e si vendicherà.'

“C'è qualcosa di cui vuoi parlarmi?” indagò Caterina.

Non poteva raccontarle apertamente tutto, ormai Giacomo se n'era convinto, ma poteva sfruttare quel momento a suo vantaggio.

Grattandosi distrattamente il lobo dell'orecchio, il Governatore Generale disse: “Ora che siamo certi che Firenze non è più una sicurezza, sei certa che la guerra scoppierà a breve, giusto?”

Caterina annuì, accigliandosi un po', chiedendosi dove Giacomo volesse andare a parare. Lo guardò mentre si metteva in piedi e soffocava uno sbadiglio. La prese per mano e la tirò a sé.

Quando parlò di nuovo, lo fece a voce più bassa: “Direi che se non altro per motivi di tempo, ci conviene allearci con Napoli.”

La Contessa puntò gli occhi chiari in quelli più scuri del marito. Non le piaceva il tono suadente che stava usando e le sembrava che sotto quell'ennesimo tentativo di persuasione ci fosse qualcosa di più, ma non riusciva a capire cosa.

“Mi pare ormai ovvio che tuo zio non ha intenzione di offrirti qualcosa in cambio del tuo favore e dubito che i francesi sarebbero più brillanti.” proseguì Giacomo, che però leggeva nello sguardo della moglie una certa diffidenza: “Napoli, l'hai detto anche tu, sarebbe nel giusto. Vogliono strappare agli Aragona il loro trono e delegittimare il re. Non mi pare una ragione onorevole per una guerra, non pensi?”

Caterina, almeno su quel punto, era d'accordo. E, pur con riluttanza, doveva ammettere che pure lei era convinta che il Moro non le avrebbe dato nemmeno mezza ricompensa, in caso di alleanza. In più, la Contessa non l'aveva ancora perdonato per aver attirato Ottaviano a Ferrara senza consultarla.

Sentiva il petto del marito salire e scendere appena più rapidamente del normale. Quell'argomento pareva infervorarlo come nient'altro. Forse aveva ragione lui... In fondo, era giunto il tempo di schierarsi, o gli eserciti, tanto napoletani quanto francesi, avrebbero invaso comunque il suo Stato, per quanto lei potesse millantare un'inespugnabilità che per il momento era solo sulla carta.

Ci sarebbe stata davvero tanta differenza, per il suo nome e la sua posizione, scegliere Napoli o Milano? Non erano forse gli Aragona imparentati per matrimonio con gli Sforza, e per più di un legame? Re Alfonso era il vedovo di Ippolita Sforza, zia di Caterina. I suoi figli erano per metà degli Sforza. E Gian Galeazzo aveva avuto tre figli da Isabella d'Aragona. Napoli, ormai, era quasi più milanese della stessa Milano.

“Se mi ami...” iniziò Giacomo, mentre la moglie era ancora immersa nei suoi pensieri.

Quelle parole, dette a quel modo, a Caterina ricordarono troppo da vicino quelle che lei stessa aveva rivolto a Girolamo Riario per convincerlo a prendere Castel Sant'Angelo assieme a lei. Si trattò solo di un fugace istante, ma a Caterina bastò per sentirsi debole e indecisa, incapace di prendere seriamente in mano la situazione.

La sua neutralità aveva ritardato gli scontri di vari mesi, dando il tempo tanto a lei quanto agli altri di organizzare meglio le difese, ma non si sentiva ancora pronta e scendere in guerra.

“Non fare così.” fece la donna, cercando di apparire perentoria.

Giacomo ormai la conosceva abbastanza bene da poter scorgere nella sua espressione afflitta tutte le sue incertezze. Con il cuore che batteva più rapido, per lo sconforto che quel suo gesto gli portava, il giovane affondò il suo attacco, senza pietà.

“Se mi ami, accetta le proposte di re Alfonso.” concluse Giacomo, stringendo le spalle della moglie, un po' per dimostrarle che lui c'era e che era saldo nel suo proposito e un po' perchè lui stesso aveva bisogno di sentire che lei c'era e che era ancora forte e fiera come quando l'aveva conosciuta.

Proprio per questo sentimento, Giacomo quasi si trovò a sperare che la sua donna rifiutasse, magari anche di malagrazia. Sarebbe stato ben disposto a cominciare un litigio di quelli che passano alla storia, pur di rivedere in Caterina quella fiamma che tanto amava.

E invece la moglie deglutì un paio di volte, lo sguardo basso e la schiena un po' curva, come se lasciasse alle mani del marito tutta la responsabilità di tenerla dritta.

“Va bene – disse Caterina, senza intonazione – cominceremo seriamente i trattati con Napoli. Se non altro, loro sono la parte lesa, in questa guerra.”

Giacomo la osservò per un lungo momento. Era come avere di fronte una donna diversa, qualcuno che lui non conosceva.

Caterina si odiò per essere stata tanto remissiva, ma sapeva che ormai non sarebbe più tornata indietro. Aveva preso la sua decisione e non vedeva, in effetti, che altre scelte avesse, arrivata a quel punto.

Giacomo si odiò per aver piegato tanto facilmente sua moglie al suo volere e, se non avesse avuto così tanta paura, avrebbe disfatto tutto, lì, subito, senza aspettare più. E invece, pur sentendosi un verme, ostentò una certa soddisfazione e diede un lungo bacio a Caterina.

Per qualche minuto si baciarono quasi con distrazione, entrambi intenti a capire cosa era davvero successo quella sera. Quando entrambi riuscirono a elaborare meglio ciò che era accaduto, per motivi diversi si infiammarono entrambi.

Non potendo dare la colpa all'altro per la propria condotta, sia Giacomo sia Caterina sfogarono quel sentimento devastante trasformandolo in passione. Si presero con rabbia, come a volersi imporre all'altro, in uno strano gioco di potere che non avrebbe mai portato a nulla, e quando finalmente furono troppo stanchi e svuotati per continuare, si chiusero tutti e due in un silenzio pensoso e si tennero stretti, aspettando insonni che arrivasse l'alba di un giorno nuovo.

 
   
 
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