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Autore: _LilianRiddle_    17/10/2016    1 recensioni
Erica annuì, spostando lo sguardo sul campo di girasoli tutto intorno a loro.
Anche Vita si lasciò distrarre da fiori che raccontavano molto più di lei, di una bellezza che non le sarebbe mai appartenuta, che apparteneva solo alle cose fragili.
- Sono così belli – disse, una mano a sorreggerle il mento, proprio dove prima altre mani le scaldavano il viso.
- Quali ti piacciono di più?
- Quelli che si nascondono sotto i fiori gialli come il sole. Quelli che sembrano una goccia di sangue in un mare di luce.
- I papaveri?
- Si chiamano così?
- Sì. Ti sono sempre piaciuti.
- Davvero?
- Sì, a me piacciono i girasoli.
- Quali sono i girasoli?
- Quelli lì gialli. Quelli che si lanciano nel mare e sembra che lo abbraccino.
- Son più belli i papaveri.
- Questo discorso lo avremo affrontato mille volte.
- Non me ne ricordo neanche una.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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-Capitolo 4.4-




Vita aprì gli occhi, aggrottando le sopracciglia davanti ai raggi del sole che, sfrontati, le colpivano il viso.
Era voltata su un fianco ed un braccio bianco le avvolgeva la vita.
Sorrise, pensando al curioso gioco di parole che quella parola creava.
Il profumo di Erica l’avvolgeva e notò con stupore che il suo cuore, solitamente impazzito, quella mattina era calmo, leggero, come addormentato.
Silenzioso.
Le piaceva, quella sensazione.
Le piaceva sentire il calore di Erica sulla sua pelle. Le ricordava l’amore.
Sorrise ai ricordi che le vennero in mente.
La sera prima si erano baciate.
E lei si era resa conto di anelare le labbra di Erica solo quando queste si erano posate sulle sue.
La ragazza, dietro di lei, si mosse.
- Sei sveglia? – chiese Vita, in un sussurro.
- Diciamo di sì.
Il silenzio le avvolse, il rumore delle onde che s’infrangevano sulla sabbia arrivava appena.
Quel giorno anche il mare era calmo, silenzioso.
Il profumo dei girasoli e dei papaveri le riempiva le narici, la salsedine le bagnava le labbra.
Erica piangeva, abbracciata a lei.
La sentiva.
Sentiva il suo respiro irregolare, le lacrime che le sfioravano la pelle.
Il battito disarmonico del suo cuore.
Forse era stato troppo anche per lei, quel bacio.
Forse aveva tirato anche lei fuori ricordi che non ricordava più di avere.
Erica le baciò la spalla, lasciando un segno umido.
La bacio ancora, e ancora, con sempre più urgenza, mentre le mani cominciavano a muoversi sul suo corpo.
Vita si girò a guardarla.
Erica non disse nulla.
I suoi occhi chiari dicevano già tutto quello che Vita avrebbe dovuto sentire per capire.
La baciò, lentamente, frenando il bisogno di lei con la sua calma silenziosa.
Le sfiorò il viso, i capelli.
Non fermò Erica quando si posizionò sopra di lei.
Né quando le sue mani iniziarono a vagare sopra di lei, in cerca di qualcosa che non avrebbero trovato.

 

Tatto.


Il lenzuolo che l’avvolgeva aveva la leggerezza delle cose speciali, come se dovesse coprire un oggetto prezioso, che il mondo, con la sua ruvidezza, avrebbe potuto rovinare. Una mano scostò quel lenzuolo da lei, ma non ebbe il tempo di provare freddo o solitudine, privata di quel velo che la copriva dal mondo. Un altro velo, di carne e ossa, di terminazioni nervose ed elettricità, l’avvolse, facendola sentire sicura.
E calda.

 

Olfatto.


Intorno a lei percepiva l’asprezza della salsedine e la dolcezza della brezza che spirava da quello che era un mare calmo. Come se il mare, con il suo andare e venire, sarebbe mai potuto essere calmo. Si era illusa di poter essere calma anche lei, ma il suo cuore aritmico aveva preso il ritmo forsennato di un altro cuore, che batteva proprio sopra il suo, stordito dall’odore che avvertiva intorno a sé.
Di mare e girasoli.
Di papaveri.

 

Gusto.


Sulle labbra sentiva il sapore del sudore e del sale, un sapore strano, contraddittorio, che le apparteneva e che le ricordava casa, ma che, allo stesso tempo, le era sconosciuto, come quello di una vita nuova. E proprio una Vita nuova si stava riscoprendo, nuda, sotto le mani di Erica, che riscoprivano qualcosa che non aveva mai smesso di appartenerle. Sulla lingua il vago sapore della sua pelle.
 

Udito.


Sentiva le onde del mare che si infrangevano sulla spiaggia, mentre giocavano coi gabbiani, da sempre loro chiassosi compagni. E sentiva le loro voci rotte bisbigliare parole irripetibili, nel silenzio dei loro gemiti.
 

Vista.


Aprì gli occhi, ma non riuscì a mettere a fuoco il mondo che la circondava. Sapeva che le pareti della camera in cui si trovava riflettevano i colori della natura appena fuori da lì. Girasoli che si spingevano quasi fino al mare, il turchese che sembrava abbracciare il giallo come se fosse un vecchio amico. Ma non riusciva a vedere altro che il viso trasformato dal piacere di Erica.
Vedeva i suoi occhi, annegati dentro di lei.
Erica cercava sul suo corpo qualcosa che neanche Vita sapeva se fosse ancora presente.
Nell’aria un profumo di fiori che sapeva di lei, che le apparteneva.

Gli occhi di Erica erano azzurri come una mattina di primavera.
Azzurri come il cielo fuori dalla stanza in cui si trovavano.
La sua mano si mosse da sola verso il volto di Erica, spostandole una ciocca di capelli rossi dallo zigomo.
Il suo cervello registrò con stupore che i capelli rossi della ragazza erano morbidi proprio come sembravano.
Le dita sfiorarono piano la pelle candida, fino ad arrivare a quella morbida del fianco, nuda sotto il suo tocco leggero.
Erica sospirò, avvicinandosi piano verso la sua fronte e posandovi un leggero bacio.
Vita si spinse un poco più vicino alla ragazza, accoccolandosi contro di lei.
- Quanto ti ho amata? – chiese in un sussurrò.
Sentì Erica trattenere il respiro.
- Tanto. Tantissimo.
- E tu?
- Anche io.
- Penso che non sia cambiato nulla.
- Eppure è cambiato tutto.
- Io ti amo ancora come prima.
- Anche io.
- Però non mi ricordo niente di quello che sono stata.
- Niente? Ricordi il nostro primo bacio.
- Continuo a pensare che baciarmi in quel modo non sia stata una buona idea.
- Eppure sei qui.
Il silenzio aleggiò leggero intorno a loro, che ogni tanto si scambiavano piccoli baci a fior di labbra, sul collo, sulla mandibola, come per scacciare quella malinconia che permeava le loro parole.
- Anche se non fossi qui, ti amerei ancora come prima. – disse Vita.
- Lo so. Ti conosco.
- E tu mi ameresti anche se non fossi qui?
- Probabilmente cercherei di farmela passare.
- Come?
- Con qualcun altro.
- Ma qualcun altro non sarà mai come me.
- Sì, lo so. Però a volte serve una distrazione dalle persone che ci fanno male.
- Ti ho fatto male?
- Mentirei se ti dicessi che non me ne hai fatto, Vita.
- Mi dispiace. Sono certa che non volevo.
- No, infatti. Non volevi.
- Anche tu mi hai fatto male, Erica?
- Sì, certo. Ce ne siamo fatte a vicenda.
- Magari capita questo, a chi si ama tanto.
- Magari, sì.
Il silenzio riempì ancora la stanza.
Nessuna delle due voleva affrontare per prima quell’argomento.
Erica aspettava che fosse Vita a chiederglielo.
Sapeva che era solo questione di tempo.
Vita aspettava che fosse Erica a parlarne.
Nessuna delle due, per quella mattina, ebbe il coraggio di rompere il silenzio con parole che avrebbero portato a galla, forse, ricordi troppo dolorosi.
Con un ultimo bacio, Erica si alzò, scappando da quel silenzio carico di frasi non dette.
Vita la seguì con lo sguardo, abbracciando tutta la stanza.
Durante la notte, un nome l’aveva tormentata.
Mia.

Guardava i girasoli che abbracciavano il mare incuranti di tutto.
Guardava il mare che allungava le sue braccia fino quasi a sfiorarli.
C’era bellezza ovunque.
Turchese e giallo.
Profumo di mare, profumo di fiori.
Temeva di annegare in tutta quella bellezza.
La brezza le ricordò che i girasoli e il mare non erano soli nel loro abbraccio silenzioso.
I papaveri spuntavano inaspettatamente, una macchia forse troppo brillante in quel mare di colori pastello.
Chissà com’era possibile che riuscissero a crescere sotto l’ombra di fiori così alti.
Sfiorò i petali con le mani, mentre tornava verso casa.
Mentre tornava verso Erica.
Lei stava cucinando.
Vita pensò di entrare, si appoggiò allo stipite della porta.
Guardava Erica.
Cercava di liberare le briglie del suo passato e, allo stesso tempo, sperava di non ricordare nulla.
Quello che era successo quella mattina, quel perdersi nel corpo dell’altra, le aveva mostrato con chiarezza quanto Erica fosse stata distrutta da tutto quello che era successo e che lei non ricordava.
Non voleva guardare negli occhi di Erica e vederci ancora il vuoto.
Preferì scappare, non affrontarla.
Preferì tornare in camera, avvolta, soffocata, da libri che sapeva essere suoi.
Ce ne erano ovunque.
Si avvicinò alla grande libreria e sfiorò i dorsi dei libri come aveva sfiorato i petali dei papaveri poco prima.
Con la stessa delicatezza reverenziale.
Al profumo di mare e girasoli e papaveri si aggiungeva ora quello di carta e inchiostro, pungente e profondo.
Sapeva, da qualche parte dentro di lei, di aver letto tutti quei libri.
Non riusciva a ricordarne neanche uno.
Chiuse gli occhi, lasciandosi guidare dal tatto e dall’odore.
Quando la sua mano si fermò, aprì gli occhi.
Le sue dita non si erano fermate su un vero e proprio libro.
Sembrava più una cartelletta di pelle nera contenente dei fogli.
Tantissimi fogli.
Era stranamente familiare.
Un tuono la scosse, mentre apriva quella cartelletta.
- Vedo che non hai perso l’abitudine di trovare cose che non dovresti trovare.
Vita alzò lo sguardo su Erica, appoggiata allo stipite della porta.
- Che cos’è?
- Non te lo ricordi?
- No.
Erica non rispose.
Andò ad aprire la grande porta finestra della loro camera da letto e si sedette davanti ad essa, lasciando che il vento disegnasse l’aria con i suoi lunghi capelli rossi.
Vita l’aveva vista così, la prima volta che aveva aperto gli occhi.
- Erica, che cos’è?
- Tu scrivevi. Tantissimo. Qualsiasi cosa e su qualsiasi superficie. Tu scrivevi.
Vita la guardò.
- Sono le mie storie?
- Sono la tua storia.
- Anche quello che non ricordo?
- Anche quello che neanche io so.
Vita si avvicinò ad Erica, posandole la cartelletta sulle gambe.
- Qual è la tua preferita?

 

***


Stranamente, ai fornelli c’eri tu.
Non cucinavi mai per lei.
Non perché non ti piacesse o non ne fossi capace.
Ma perché ti piaceva guardarla cucinare.
Guardarla impegnarsi in qualcosa di così normale.
Familiare.
Sin dalla prima volta che l’avevi vista cucinare per te, la sensazione di familiarità non ti aveva abbandonata.
Ma a te piaceva cucinare.
Anche tu volevi cucinare per lei.
Era per questo che Erica era seduta sulla sedia della tua piccola cucina, mentre tu cercavi di non fare troppi danni ai fornelli.
Il problema di fondo è che la cucina richiede una certa dose di concentrazione.
E tu eri più che concentrata.
A guardare come il sole si rifletteva sui capelli rossi di Erica.
- Vita, l’acqua bolle.
- Lo so. Me ne sono accorta.
Vedesti Erica trattenere una risata.
Dopo rocambolesche avventure, eri riuscita a preparare la pasta.
Senza farti del male.
E senza distruggere la cucina.
- Buona, però. Non pensavo.
La guardasti alzando un sopracciglio.
- Dai, Vita, anche tu avevi dubbi sul fatto che saresti riuscita a prepararmi il pranzo!
- Io non ho mai avuto dubbi sulle mie capacità di cuoca, Erica.
- Davvero?
- Certamente. Quando non sono distratta da altro sono particolarmente brava.
Fu la volta di Erica di alzare un sopracciglio.
Un sorriso furbo le spuntò sulle labbra.
- E da che cosa eri distratta?
- Non credi che il tempo sia eccezionalmente bello, oggi?
- Non sei brava a tergiversare, Vita, te l’hanno mai detto?
Non le desti nessuna risposta.
Avevi paura di scoprirti troppo.
Mettesti i piatti vuoti nel lavello, andasti in salotto.
Quella frase detta con leggerezza ti aveva turbata.
Erica ti seguì, senza spezzare il tuo silenzio.
Si avvicinò ai mille vinili che avevi accumulato negli anni, leggendone i titoli.
Ne sfilò uno quasi alla fine, ti sembrò di scorgere il nome del cantante.
David Bowie.
Le note di “Heroes” iniziarono a riempire la stanza.
L’agitazione a cui il tuo corpo e la tua mente erano così abituati ti faceva mancare il respiro.
- Vita.
Ti sentisti chiamare, da qualche parte dentro la tua testa.
Ma c’era troppo casino per poter ascoltare tutte le voci che s’inseguivano dentro di te.
Il tuo cervello registrò un tocco delicato intorno alle spalle e sotto le ginocchia.
Sentisti uno spostamento d’aria e il profumo di Erica tutto intorno a te.
Ma non riuscivi a dar voce ai tuoi pensieri.
Erano troppi, ti vorticavano in testa troppo velocemente.
Ti rendesti conto che eri sdraiata.
Pensasti che chiudere gli occhi e dormire avrebbe aiutato.
Accanto a te qualcuno ti sfiorava i capelli.

Ti svegliasti con il cuore che batteva violentemente contro la tua gabbia toracica.
Non ricordavi di esserti mai svegliata con il cuore tranquillo.
Silenzioso.
Il suo battito aritmico ti bloccava il respiro in gola.
E sentire la presenza di Erica accanto a te non ti calmò.
Sentivi il suo respiro regolare, doveva essersi addormentata insieme a te.
Ti alzasti lentamente, il più piano possibile, per non svegliarla.
Era così bella quando dormiva.
C’era bellezza ovunque.
E come sempre quando la bellezza ti colpiva, il viso ti si colorò di rosso.
Chissà se era lo stesso colore dei capelli di Erica.
Il colore dei papaveri.
Mettesti sul fuoco l’acqua per fare il the e rimanesti a fissarla finché non bollì.
Il the ti bruciò la gola, ma ti convincesti che quel liquido caldo e profumato avrebbe sciolto la freddezza che sentivi in mezzo alla gabbia toracica.
C’era qualcosa in fondo alla tua mente.
Ricordi, sensazioni, che giravano e giravano, sempre più veloci.
Sempre gli stessi.
Sapevi che cos’erano, a chi si riferivano.
E non volevi pensarci, non ora.
Non con Erica nell’altra stanza, non senza il modo di fermarli, una volta lasciati liberi.
Avevi bisogno di uscire.
Di fermare i tuoi pensieri.
Lo sguardo corse alla tua camera.
Erica ti guardava, il panico negli occhi.
Tu afferrasti la borsa, volgendo lo sguardo alla porta.
- Non farlo.
Non le rispondesti.
- Perché?
Non rispondesti neanche a quella domanda, cercando di non pensare alla paura che traspariva dalle parole di Erica.
La ragazza ti si avvicinò, cercò di sfiorarti il braccio.
Forse cercava di non farti andare.
Ma tu sapevi come fuggire e lei non aveva mai tenuto nessuno.
Uscisti da casa tua con il tuo nome nelle orecchie, un sussurro soffocato nell’aria.
Il tuo cuore aritmico perse un battito.

 

***


Quel nome – Mia – le vorticava nella testa.
Le rimbombava dentro dolorosamente, una stilettata di dolore a cui non sapeva abituarsi.
L’agitazione congenita che la caratterizzava la portò a pensare di chiedere a Erica se quel nome volesse dire qualcosa o se fosse solo il ricordo di un sogno.
C’era qualcosa che le bloccava quella parola sulle labbra.
Una strana agitazione, uno strano cambiamento del battito del suo cuore.
Come se il suo stesso corpo fosse terrorizzato dallo scoprire di più.
Come se non volesse scoprire di più.
Ma quel nome significava qualcosa, lo sapeva.
Quel nome era importante.
La cartelletta di pelle nera attirò la sua attenzione.
L’avevano abbandonata sul tavolo in salotto.
Chissà se davvero c’era tutta la sua vita, lì dentro.
Chissà se davvero c’era tutta Vita quella che era, quella che era stata, quella che non sapeva di essere – lì dentro.
Si sedette in poltrona, voltando la copertina pesante.

Non seppe quanto tempo rimase a leggere.
Quando Erica la trovò era nella stessa posizione di molte ore prima.
Vita non era neanche arrivata a metà di quel libro strano, ma una marea di ricordi - voci, sensazioni – stava tornando dagli abissi della sua mente.
Erica le si avvicinò da dietro, sbirciando da dietro la sua spalla la storia che stava leggendo.
Aveva uno strano sguardo.
Come se l’agitazione congenita di Vita fosse passata anche a lei.
- Non sei ancora arrivata alla mia preferita.
- Qual è?
- Penso che lo capirai da sola, quando ci arriverai.
- Perché?
- Perché lo capirai.
Rimasero in silenzio, Vita guardando i fogli tra le sue mani, Erica guardando il mare fuori dalla finestra.
Era così calmo che faceva paura.
- Tu le hai lette tutte, le mie storie?
- Sì, tempo fa.
- Quindi conosci tutta la mia storia.
- Più o meno.
- Perché sei rimasta?
- Non sono rimasta.
- Sei qua.
- Me ne sono andata, tempo fa.
- Chi è Mia?
A lungo si è scritto e parlato del silenzio.
Della sua presenza-assenza.
Del suo vuoto pesantissimo.
Eppure nulla può prepararti alla sua forza distruttrice.
Erica non parlava.
Aveva aperto la porta finestra che girava tutto intorno alla casa senza dire nulla.
Forse aspettava che il vento le portasse le parole che non sapeva dire.
- Continua a leggere.
- No.
Erica sospirò.
Non rispose, uscendo dalla stanza.
Non voleva raccontarle quella parte della sua storia.
Della loro storia.
Raccontarle di Mia, della depressione.
Dei problemi.
Si era detta che non aveva ancora raccontato nulla a Vita perché non era ancora pronta ad affrontarlo, perché aveva ricordato troppi pochi momenti belli.
In realtà era lei a non essere pronta, a non riuscire a ricordare quello che era successo.
L’aveva chiuso in una scatola della sua mente e aveva lasciato tutto lì, evitandolo e basta.
Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto, aspirandone il fumo acre mentre l'accendeva.
Teoricamente, aveva smesso di fumare tempo fa.
Praticamente, a volte aveva ancora bisogno che nicotina e catrame riempissero di fumo i suoi polmoni e i suoi problemi.
Si chiese che cosa sarebbe successo se fosse scappata.
Se avesse preso le sue cose e avesse abbandonato la sua casa.
La sua vita.
Vita stessa.
Si passò una mano sul volto, scompigliandosi i capelli tanto amati da Vita.
E dal vento.
Il profumo di mare e girasoli stava iniziando a darle la nausea.
Tornare in casa, d’altra parte, era impossibile.
Avrebbe dovuto affrontare il suo passato.
Il suo, quello di Vita.
Avrebbe dovuto farlo, prima o poi.
Pensava solo di avere più tempo.
Rimaneva sempre fregata dal tempo.
- Mia aveva gli occhi scuri e i capelli chiari.
Erica sussultò.
Non si era accorta di avere di fianco Vita.
Sapeva che le lacrime riempivano i suoi occhi.
- Hai trovato le foto?
- Me lo ricordo.
- Ti ricordi anche il resto?
Vita annuì, lo sguardo traballante e un sorriso spento.
- Conoscevo Mia da sempre, eravamo cresciute insieme. L’una per l’altra eravamo tutto quello di cui avevamo bisogno. Prima amiche, poi amanti. L’amavo in un modo… non penso di poter amare qualcuno come ho amato lei.
Aveva i capelli biondi e gli occhi scuri, grandi. Aveva sempre un sorriso distratto ad incorniciarle il volto, come se stare al mondo, come se il mondo stesso, la deliziasse.
Siamo state insieme diciotto anni.
Era tutto, per me.
Una sera siamo uscite con i nostri amici. Al ritorno eravamo in macchina, guidava lei perché io avevo bevuto un po’. Era brava a guidare. Un’auto passò col rosso, ad una velocità assurda. Ce ne accorgemmo troppo tardi. Quando mi risvegliai ero in ospedale. La prima persona che vidi fu mia madre. Piangeva, continuando a sussurrarmi che le dispiaceva tanto. Mi faceva male la testa, le luci mi davano fastidio. Entrò un dottore, che scoprii dopo essere un neurochirurgo. Mi disse che aveva dovuto operarmi alla testa, che c’erano state delle complicazioni, ma che era andato tutto bene, alla fine. Mi chiese se riuscissi a parlare. La prima cosa che dissi fece piangere mia madre ancora di più.
Dov’è Mia?
Il dottore aveva detto che non c’era stato nulla da fare. Che avevano provato di tutto per tenerla in vita, ma che i danni riportati erano troppo gravi. Non ce l’aveva fatta.
Guardai il dottore, poi mi rannicchiai su me stessa.
Da quel momento non mi ricordo molto.
So di essere stata nel reparto di chirurgia per una settimana e che ne passai altre tre in psichiatria. So che mano a mano che la mia coscienza tornava, Mia se ne andava dalla mia mente.
Quando uscii da lì, partii per l’università. Il più lontano possibile che potei. Speravo di scappare dai miei fantasmi, ma mi seguirono anche qua. Fu quando capii che non sarei fisicamente riuscita a scappare da quello che mi era successo che iniziai a drogarmi.
La prima volta che mi feci una dose, rividi Mia.
Era nitida davanti a me, gli occhi scuri e i capelli chiari, il sorriso distratto. Sembrava ancora deliziata dal mondo. Io la bellezza non riuscivo più a vederla, ma vedere lei mi faceva bene.
Sapevo i rischi che mi avrebbe portato la droga. Ho iniziato a farmi di LSD. I trip in cui cadevo erano sempre diversi, ma in tutti c’era Mia.
In alcuni mi parlava, ma una volta che la coscienza tornava in me di lei non c’era traccia. Farmi era diventato l’unico modo per sentirmi viva ancora.
Presi l’abitudine di calarmi una dose la mattina, appena mi svegliavo. Così, per quando uscivo di casa, Mia era accanto a me.
Non mi resi subito conto dei vuoti di memoria. Una mattina mi sveglia e di quello che avevo fatto il giorno prima ricordavo solo Mia. Sapevo che non era normale, sapevo che avevo un problema.
Ero una tossicodipendente, una drogata. Avrei potuto far del male a qualcuno e probabilmente non me ne sarei nemmeno resa conto.
Ma era l’unico modo per rivedere Mia, Erica, capisci?
Era l’unico modo per non sentirmi sola.
Quando suonasti per me al parco, ero fatta. Eppure, nonostante questo, ti vidi. Vidi te, Erica. Davanti a me, con una chitarra in mano. Pensavo che nessuno avrebbe mai potuto tirarmi fuori dal baratro in cui ero caduta. E poi sei arrivata tu e io ti ho vista e Mia è sparita. Io ero fatta, ma tu ti sei messa a suonare ed è come se fossi tornata a respirare dopo tanto tempo. -
Vita fermò il movimento errante delle mani.
Erica piangeva.
Piangeva tanto, gli occhi che sembravano davvero il mare.
E nessun sorriso di girasoli ad illuminarli.
- Non sono pronta per sentire questa parte della tua storia, Vita. Non sono pronta. Smettila.
- No.
- Ti prego.
- Tergiversare non è da te.
- Non… non so cos’è da me.
- Lo so io. Ti conosco.

  
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