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Autore: Ellery    18/10/2016    3 recensioni
Francia, Marzo 1942 - Un piccolo caccia della Royal Air Force viene abbattuto nella campagna francese, lungo il Fronte Occidentale. Per i due piloti non c'è alcuna speranza: catturati da una brigata tedesca, torturati per informazioni su una importante azione militare degli Alleati. Allo spietato capitano Weilman si contrappone il Maggiore Erwin Smith, altrettanto desideroso di ottenere informazioni; almen fino a che qualcosa non scatterà nella mente del giovane ufficiale, portando alla luce vecchi debiti e promesse.
Aveva cercato in tutti i modi di tenere su l’aereo, tirando al massimo la cloche, sterzando ripetutamente per non costringere il piccolo caccia allo stallo, ma era stato tutto inutile: le ali non riuscivano a catturare correttamente l’aria, trapassate come erano, mentre dal motore usciva una scia di fumo nero.
La ff, a più capitoli, si propone di partecipare alla Challenge AU indetta sul forum da Donnie TZ. Prompt: Historical AU! IIWW = seconda guerra mondiale.
Genere: Guerra, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Farlan, Church, Hanji, Zoe, Irvin, Smith
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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24. Ali spezzate
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Moriers, dintorni di Orleans.

 
Erwin ritrasse la mano, stringendola al petto. Sul dorso comparvero delle sottili stille rossastre a deturpare la pelle. Quell’idiota lo aveva morso!
Aveva cercato di trattenere Levi, di impedirgli di lasciare la cantina, ma era stato tutto inutile: aveva sopportato calci e gomitate, ma quando i denti erano affondanti nel palmo si era ritrovato costretto a mollare la presa.
L’Inglese era corso via, senza che potesse fermarlo.

«Imbecille!» gridò, consapevole che l’altro non poteva più sentirlo. Levi era scappato, abbandonando l’unico rifugio per fiondarsi tra le stradine di un paese sconosciuto, alla ricerca di un ragazzino troppo curioso. Perché non lo aveva ascoltato? Sarebbe uscito lui stesso a cercare Armin, ma gli altri dovevano rimanere al sicuro, nello scantinato. Invece, quello zuccone non aveva voluto sentire ragione: aveva balbettato qualcosa su delle colpe e su uno strano discorso fatto di aerei ed illusioni, prima di fuggire.
Erwin allungò il passo, raggiungendo rapidamente i gradini.

«Vado a riprenderli!» sussurrò, mentre una mano tremante arrivava a catturare un lembo della sua giacca. Carla si era avvicinata, pizzicando la stoffa per trattenerlo.

«Non andare» quelle parole contenevano troppa paura e disperazione «Morirai, se andrai fuori. Rimani qui… ti prego. Resta con noi»

«Non posso. Devo andare a salvarli»

«Morirai, lo capisci?»

«Anche loro moriranno, se non faccio qualcosa!» si rese conto d’aver involontariamente alzato la voce.

«Sono già condannati! Rimani qui!» il volto della francese era trasfigurato in una maschera di terrore. Non assomigliava affatto a quello della madre premurosa e gentile che fino a poche ore prima li aveva accuditi e sfamati. Le dita tremanti erano ancora serrate sulla sua giacca, mentre gli occhi invasi dalle lacrime non si allontanavano dall’ingresso spalancato della cantina.

«Non posso abbandonarlo.»

«Morirai! Non andare!»

«Non posso»

Gettò un ultimo sguardo alla cantina: Eren si era stretto al petto di sua madre, che ancora ripeteva quelle poche frasi a filo delle labbra tremanti. L’altra donna, invece, singhiozzava silenziosamente, seduta su una vecchia fascina di paglia umida.
Poi corse su per le scale, lasciandosi il buio alle spalle.
 

***
 

Levi oltrepassò una svolta, lasciando lo sguardo spaziare sui resti di Moriers. Nessuno vagava per le strade: persino i gatti avevano trovato riparo tra le scatole abbandonate, i cesti rovesciati o sotto i porticati. Nei pollai, lo starnazzare era cessato, mentre il latrare dei cani si udiva distante, proveniente dalla periferia. Nulla osava interrompere il grave silenzio calato; soltanto il rombo dei motori in avvicinamento, a sottolineare l’ennesimo passaggio nei cieli sopra Moriers.

Alcuni edifici erano crollati e le macerie si erano riversate nelle vie, mentre il fumo grigio contornava quello spettacolo apocalittico. A tratti, qualche alto e disperato grido spaccava l’anomala quiete, prima di tornare ad affievolirsi del tutto.

Di Armin, al momento, nessuna traccia: aveva percorso le strade principali, gridando il nome del bambino, ma senza ottenere risposta. Aveva seguito scoli e vicoli, perlustrando i cortili delle abitazioni, ma non aveva scorto nulla. Aveva davvero senso, quella ricerca? Per quanto ne sapeva, Armin poteva aver trovato rifugio presso un’altra abitazione. Forse era corso da Grisha, allo studio medico. Oppure si era nascosto nei campi…

Erano ipotesi che, tuttavia, non lo convincevano: da un lato, la sua mente si sforzava di elaborare ogni possibilità e di credere che vi fosse ancora speranza. Dall’altro, sentiva che non era così: Armin era ancora là fuori, con gli occhi azzurri incatenati alla vastità del cielo e le dita protese a contare le grigie carlinghe.

Raggiunse la piazza, scandagliando rapidamente il perimetro: nessuna traccia del bambino, nemmeno un piccolo indizio. Solo macerie ancora calde, mattonelle dissestate e…

Un momento! C’era una figura accovacciata su un carretto rovesciato. Tra le ruote spaccate, Armin sedeva con le gambe a penzoloni, il viso sollevato e le braccia aperte, pronto a spiccare il volo.

«Armin!» Levi gridò una, due volte. Le sue gambe presero a muoversi istintivamente, a correre sul selciato ruvido ed insidioso, mentre gli occhi si rifiutavano di staccarsi dall’immagine del bambino che, sorridente, stava sventolando la mancina verso di lui «Vattene! Vai via!» agitò un braccio, come per scacciare un fastidioso insetto il cui ronzio si era fatto, però, sempre più vicino ed incessante. Il rombo dei motori arrivò a sovrastare le sue parole.

«Armin! Arm…»

Fletté le dita, cercando di afferrare la mano del bambino ancora troppo lontana; strinse soltanto il vuoto.  Il tempo parve improvvisamente dilatarsi: scorse Armin salutarlo ancora una volta e l’ombra dell’aereo giungere a coprire l’ultimo dei suoi sorrisi.

Un attimo dopo, una nube lo investì. La sabbia arrivò a ferirgli gli occhi, mentre uno scoppio gli fracassava le orecchie. Si sentì sbalzare all’indietro e trasportare dall’aria, come fosse una semplice foglia secca. La schiena impattò sul selciato, strappandogli un flebile lamento; i colori vorticarono oltre le iridi, mescolandosi in una girandola frenetica. Respirò la polvere, il petto schiacciato da una mano invisibile. Lottò per rialzarsi, annaspando al suolo e cercando disperatamente un appiglio. Qualcosa lo colpì sul viso e sulle mani, forando la stoffa e graffiandogli la pelle.

«Armin!» ripeté, ma le sue parole si persero nel vuoto, coperte da un boato troppo grande per poter essere ignorato.

Rimase steso a terra, incapace di muoversi e di reagire, per un tempo indefinito: poi, dopo il rumore assordante dell’esplosione, il silenzio più assoluto. Gli occhi colsero dei movimenti affrettati, figure che si accalcavano lungo i margini della piazza, rovistando tra le macerie. La bomba doveva essere caduta in un quartiere vicino, ma l’onda d’urto aveva spezzato tutto quanto: tetti diroccati, travi divelte, le imposte a ciondolare inerti lungo gli infissi.

Qualcuno si chinò su di lui. Riconobbe i tratti familiari, il viso robusto percorso dalla paura e dalla preoccupazione. I capelli biondi erano coperti da un sottile strato di terra umida, che solcava anche le guance ed il collo sino al bavero della camicia. Erwin stava dicendo qualcosa: vedeva le labbra muoversi in parole concitate, le braccia indicare un punto oltre le sue gambe ancora stese. Perché non lo sentiva? Le orecchie rimbombavano, impedendogli di ascoltare. Percepiva soltanto un continuo e soffuso ronzio.

«Armin…» sussurrò, nuovamente, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. Doveva riscuotersi e ritrovare la forza per alzarsi e raggiungere il bambino. Forse c’era ancora una speranza, forse potevano salvarlo! Tentò  di piegare le ginocchia, ma il suo corpo non rispose. Sollevò un indice, indirizzandolo al centro della piazza: Erwin avrebbe capito e sarebbe corso a recuperare il bambino…

Inaspettatamente, però, il tedesco si limitò a sollevarlo tra le braccia, senza nessuno sforzo.

«Che stai facendo?!» gridò, cercando di divincolarsi «Armin è laggiù!»

Non si rendeva conto del proprio tono di voce, né della risposta del Maggiore: lo vide muovere nuovamente la bocca, ma senza raccogliere alcun suono. Gli occhi azzurri erano velati di una patina umida e si rifiutavano di tornare alla piazza principale.

«Armin è…» urlò di nuovo, sporgendo il capo oltre le spalle larghe di Erwin. Il suo sguardo incrociò quello ormai spento del bambino, le mani stese a terra in un ultimo cenno di saluto. Il corpicino era spezzato dalla vita in giù, con le gambe dilaniate dalle schegge ed i piedi stortati in un angolo innaturale. Una pozza rossastra si stava allargando lentamente lungo i fianchi, mescolandosi ai detriti ed alla ghiaia del selciato.

Scosse il capo, rifiutandosi di registrare quelle immagini: non poteva essere vero! Era soltanto un orribile incubo. Presto si sarebbe svegliato ed avrebbe scorto Armin intento a sfogliare un libro, seduto sui gradini esterni, proprio come quel mattino. Parevano trascorsi giorni da quel momento e non soltanto poche ore: il ricordo del bambino intento a leggere, del suo sorriso e della curiosità che scivolava lungo il volto infantile, si stava perdendo nei meandri della sua memoria. La propria coscienza lo stava relegando a vecchio frammento di un passato lontano o come parte di un mondo fasullo, come se il piccolo non fosse mai esistito. Era soltanto un meccanismo di autodifesa, lo sapeva: ben presto, il peso della colpa si sarebbe riversato sulle sue spalle e non avrebbe potuto evitarlo. Era una propria responsabilità: era stato lui a parlare ad Armin degli aerei, del volo e della libertà; a dirgli di correre incontro alle carlinghe affusolate, di spalancare le braccia e fingere di poter solcare il cielo azzurro del mattino, invece che metterlo in guardia. Avrebbe dovuto dissuaderlo, spaventarlo, non inculcargli false speranze. A cosa aveva portato tutto ciò? Si era sentito importante, per un momento, come fosse una sorta di mentore per un probabile futuro aviatore. Ora, invece, le ali di Armin si erano definitivamente spezzate. La colpa, naturalmente, era soltanto sua.

Si strinse alla giacca scura del Maggiore, affondando il viso tra le pliche della stoffa. Trattenne il respiro, ignorando il correre dell’altro, quella cadenza affrettata che lo sballottolava su e giù. Il corpo gli bruciava in ogni punto, mentre i respiri si facevano sempre più pungenti e difficoltosi: era come il vuoto gli opprimesse l gola, impedendogli di respirare. Il ronzio alle orecchie si era fatto più intenso: era come se uno sciame d’api lo stesse inseguendo. Chiuse gli occhi, contando lentamente nella propria testa, aspettando che l’incoscienza giungesse a prenderlo.
 

***
 

Quando riprese i sensi, realizzò di trovarsi nuovamente nella stanza di casa Jaeger. Sul comodino giaceva una tazza di the ormai freddo, mentre delle spesse coperte di lana gli avvolgevano il corpo. Le membra non avevano smesso di bruciare: le fitte si erano fatte meno intense, ma costanti; il fiato era ancora corto ed affannato, forse a causa della polvere che gli aveva bruciato la gola ed i polmoni. Oltre i vetri, la sera era definitivamente calata su Moriers e solo la luce di una lampada ad olio rischiarava la camera.

Erwin sedeva al suo capezzale, su una vecchia seggiola male impagliata. Teneva un libro sulle ginocchia, di cui non riusciva a scorgere il titolo.

«Ti sei svegliato» il Maggiore lo fissò con una curiosa nota di apprensione e disapprovazione disegnata sul volto. Era irritato? Probabile. Lo riteneva responsabile, senza dubbio: la morte di Armin era opera sua, sebbene involontaria. Nessuno lo avrebbe perdonato, men che meno la ospitale famiglia Jaeger, né gli altri concittadini. Se c’era un responsabile ad una fine tanto tragica e priva di senso, era indubbiamente lui.

Annuì lievemente.
«Che ore sono?» la propria voce era gracchiante e spenta. Ogni parola era tinta del sapore metallico del sangue.

«Quasi le sette. Come ti senti?»

«Uno straccio» mormorò, controvoglia. Il ronzio alle orecchie era completamente svanito, anche se i suoni giungevano ancora lievemente ovattati.

«Il dottor Grisha ti ha visitato. A parte qualche graffio e contusione superficiale, non hai riportato fratture, né ferite profonde. Sei stato molto fortunato.»

«No, non è vero…»

«Come?» Erwin lo stava guardando con una sfumatura perplessa.

«Ho detto che non è vero. Non sono stato fortunato, nemmeno un po’! Sarei dovuto esserci io» le dita si serrarono meccanicamente sulle coperte, strattonandole «Sarei dovuto essere al posto di Armin! È stata colpa mia, capsici? Solo colpa mia! Se non gli avessi messo in testa quelle balordaggini sul volo, sugli aerei, sul…»

«Che stai dicendo?!» il tedesco lo aveva afferrato per una spalla, scrollandolo delicatamente per interrompere quel flusso di rimpianti.

«Questa mattina, mentre eri da Christa… ho parlato con Armin. Era così entusiasta! Stava leggendo un libro sugli aerei e mi stava confidando i suoi sogni. Voleva diventare un pilota, come…»

«Come te?»

Un mero cenno d’assenso; Erwin proseguì, ignorando il suo tormentare le lenzuola:
«E questo ti renderebbe responsabile? Hai solo parlato della tua passione con un ragazzino. Non hai fatto niente di male, Levi! Non hai di che biasimarti.»

«Oh, sì che ne ho.» distolse lo sguardo, fissando il nulla «Armin è l’ultimo di una lunga lista, ma me ne rendo conto soltanto ora. Perché sono stato così cieco?! Sono un idiota! Come ho potuto credere, anche solo per un istante, che le ali significassero libertà? Ho sempre vissuto con il pensiero rivolto al cielo, contando i minuti che mi separavano dal decollo, da quella vita che tanto amavo e desideravo. Non ho mai pensato che la mia libertà potesse costare così tanto, a persone che nemmeno conosco! Persone che non mi hanno fatto niente, che non sono mie nemiche, ma che hanno solo avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato.

Non me ne sono mai curato, Erwin, e non mi perdonerò mai per questa spirale di leggerezze a cui mi sono abituato: ho sempre finto che andasse tutto bene, che il mio posto fosse lassù, tra le correnti fredde, il vento che sfiora il cupolino baciato dal sole e il rumore delle eliche a ferire una pace irraggiungibile da chiunque, tranne che dagli aviatori. Siamo, temo, la peggiore specie d’uomo: non ci rendiamo conto di quello che facciamo. Passiamo il tempo a fingere che vada tutto bene e che i problemi terreni non ci appartengano: ci crediamo una razza superiore, degna di spiegare le ali e spiccare il volo; di conquistare quell’indipendenza che l’essere umano agogna da secoli. Eppure, quante vite abbiamo spezzato, senza saperlo? Forse non volevamo pensarci oppure, semplicemente, non ce ne siamo mai resi conto: troppo presi ad assaporare la nostra libertà abbiamo dimenticato quella degli altri.

So cosa stai per dire: che siamo tutti dei soldati e che non è colpa nostra. Andiamo dove ci dicono di andare. Obbediamo ad ordini superiori, senza chiederci cosa questo comporterà. Sganciamo bombe dove ci viene indicato: cadranno ponti, ferrovie oppure granai e cascine? Distruggeremo i nostri nemici o solo degli innocenti che pascolano il gregge? Non lo sappiamo. Quanti Armin ho ucciso prima d’ora? Non lo so… e la cosa peggiore, è che nemmeno me ne sono reso conto. Ho sempre parlato con entusiasmo e leggerezza, soffermandomi su quello che provavo a bordo del mio Spitfire, ma… non ho mai pensato che sotto di me, la gente continuasse a macinare problemi, a lavorare nelle campagne che radevo al suolo o a nascondersi negli scantinati e dentro ai magazzini. Sono un maledetto egocentrico? Oppure solo cieco? Non so quale giustificazione sia migliore: è meglio essere egoisti, ma consapevoli… o ignoranti ed ingenui?
Non posso che biasimarmi per quello che ho fatto. Anzi, che non ho fatto: non mi sono mai opposto, ho sempre eseguito gli ordini, convinto che questo mi rendesse un soldato migliore. Sicuro di essere dal lato giusto della barricata, di poter contribuire alla vittoria della giustizia. Sciocco! Non c’è nulla di giusto in quello che faccio, né di onorevole, né di libero! Sono il peggiore degli schiavi, Erwin. Ricordi il tuo discorso sulle marionette?» attese un cenno d’assenso, prima di continuare «Credi sia meglio essere un burattino o il mangiafuoco che tende i fili? Non saprei davvero. Quest’ultimo, almeno, è consapevole di quello che fa: muove le persone come fossero giocattoli, le comanda, le spinge ad obbedire per imbastire la sua scenetta. Le marionette, però… non si rendono conto di quello che fanno: vengono strattonate per le braccia e le gambe, ridono convinte di far sorridere. Forse sono protagoniste di una tragedia, ma non lo sanno. Sui loro volti sono dipinte espressioni allegre, spensierate: è tutto  così ingiusto e falso! E non te ne capaciti: sei parte dello spettacolo, solo questo.

Guarda le mie mani» le sollevò davanti a sé, studiando le scanalature sottili della pelle «Credi che siano immacolate solo perché sono un burattino? Ti sbagli. Sono più sporche delle tue, macchiate di sangue colpevole ed innocente al tempo stesso. Non vedo i volti delle persone che uccido, hai ragione… non li conosco, non li ho mai conosciuti. Sostieni che sia per questo che i morti non vengono a visitarmi nel sonno. Sbagli, nuovamente. Non li vedevo perché non ne ero consapevole. Da questa notte li vedrò, Erwin. I miei incubi terranno compagnia ai tuoi.»

Colse il Maggiore ciondolare il capo e schiudere le labbra, incerto: per una volta, nemmeno l’ufficiale sapeva che cosa replicare. In fondo, entrambi sapevano quanto avesse ragione: quel discorso era rimasto non affrontato per troppo tempo. L’ingenuità aveva ucciso Armin: la curiosità di un bambino, lo zelo impaziente di un adulto desideroso di insegnare, l’ignoranza dei soldati a bordo degli aerei. Era tutto così sbagliato! Levi avrebbe dato qualunque cosa per tornare indietro nel tempo, a quel mattino: si sarebbe seduto nuovamente accanto ad Armin, ma avrebbe preso il libro e lo avrebbe scagliato lontano. Gli avrebbe impedito di leggerlo, avrebbe distrutto i suoi sogni, ma lo avrebbe salvato. Ormai, però, era troppo tardi.

«Credo che tu sia troppo severo, Levi. È vero, quello che dici, ma dimentichi che non sei il diretto responsabile di quanto accade»

«Lo sono» un colpo di tosse spaccò quella risolutezza, costringendolo ad un sorso di the affrettato «Lo sono. Stai per ripetermi che prendo solo ordini, vero? Ne sono consapevole, ma… che cosa dirò a Dio, quando arriverà il mio momento? Immagino che nessuno di noi sia sufficientemente religioso per esserselo chiesto, ma… pensi davvero che potrò cavarmela con un semplice “eseguivo soltanto gli ordini”? Non penso che basterà, come giustificazione. Mi inginocchierò davanti a lui e chiederò perdono, forse… o forse lo chiederò a tutte quelle vite che ho rubato e che mi attendono dall’altra parte per sputarmi in faccia. Non posso lavarmi la coscienza così, semplicemente. Cosa dirò a quelle famiglie che ho spezzato? Agli orfani, alle vedove, ai fidanzati separati troppo presto? Che cosa dirò? Non avrò armi, allora.»

«Temo che tu sia molto stanco, Levi. Forse dovresti rilassarti e…»

«Non volerò più, Erwin. Mai più. Le mie ali si sono spezzate.»

«Stai esagerando. Quando la guerra sarà finita, tornerai nel cielo che tanto ami e desideri; e lo farai da uomo libero, non da soldato»

«No. Lascerò a te questo privilegio. Io, ormai, sono condannato. Come potrei sedere ai comandi e fingere che tutto questo non sia mai accaduto? O credere che il pulsante alla mia destra non servirà a sganciare bombe, ma solo a regolare l’apertura dei flap? Non tornerò lassù. Non lo merito.»

«Hai bisogno di dormire» colse le dita dell’altro scivolare sulle coperte e tirare le lenzuola sin sulle sue spalle.

Allungò una mano, bloccando quella del Maggiore.

«Voglio andare via da qui» sussurrò, accennando al buio oltre i vetri «Partiamo, ti prego»

«Il dottor Jaeger dice che devi riposare»

«Non mi importa. Quello che è successo è colpa mia, Erwin. Questa gente ha tutto il diritto di odiarmi. Non voglio essere curato, non voglio la loro pietà o il loro perdono. Voglio fuggire, ancora una volta. Non costringermi qui, per favore. Non rendermi più prigioniero di quanto già non sia»

«D’accordo. Domani mattina…»

«No! Adesso… voglio partire ora» gettò le gambe oltre le lenzuola, sfilandosi velocemente la camicia da notte. Ignorò il protestare dei muscoli. Rovistò sul vicino baule, alla ricerca dei propri indumenti.

«Va bene. Vado ad avvisare la signora Jaeger»
 

***
 

Carla li accompagnò sino al camion, mantenendo lo sguardo basso. Non rimaneva molto del suo amato paese. La disperazione era calata tra quelle strade, tra le cascine ed i campi un tempo rigogliosi. La distruzione sfregiava Moriers come una orrenda cicatrice, deturpandolo. Ci sarebbero voluti anni per una corretta ricostruzione: i pochi edifici sopravvissuti svettavano sui cumuli di macerie, dove i superstiti, illuminati dalle lampade ad olio, scavavano a mani nude nella speranza di poter salvare ancora delle vite.

«Siete sicuri di voler ripartire?» chiese, senza celare il volto rigato dalle lacrime. Vivere in una realtà fantasma era doloroso: non rimaneva traccia della scuola elementare, dove la campanella era risuonata un’ultima volta prima di spegnersi. La chiesa era danneggiata e l’affresco della Natività completamente cancellato. Nella piazza si accumulavano i corpi esanimi, coperti da lenzuoli ancora freschi di bucato.

«Sì, signora» la voce di Erwin la distolse per un attimo da quei ricordi «Credo sia meglio così. Non vogliamo crearvi altri problemi, né essere un peso. Avete fatto tanto per noi.»

«Sarete i benvenuti quando vorrete tornare» allungò una mano, stringendo affettuosamente quella del Maggiore. «Saluterò Christa per voi»

«Grazie» Erwin si arrampicò al posto di guida, mettendo in moto. Il motore sobbalzò rumorosamente, prima di avviarsi. Richiuse lo sportello, mimando un ultimo cenno alla donna.

Il camion si mosse, imboccando la strada che da Moriers conduceva verso Tours.


 

Angolino: buonasera! Finalmente... torno ad aggiornare. Ci ho messo tantissimo a scrivere questo capitolo, principalmente per motivi personali che mi hanno tenuta occupata e mi hanno impedito di scrivere come desideravo. Poi mi sono cimentata nella Ewin Week per cercare di ritrovare un poco la voglia di scrivere e... niente, eccolo qui! Questo capitolo è stato riscritto quattro volte nella sua parte iniziale: sospetto che Armin non volesse proprio morire, accidenti a lui! è stato più complicato del previsto, in effetti...
Non credo ci siano grossi riferimenti storici in questo capitolo: naturalmente, non so se durante la IIWW abbiano realmente bombardato Moriers o meno (ho cercato indizi su Wikipedia, ma non ho trovato nulla in merito).
Passerò ai ringraziamenti rapidi: la colpa del ritardo è in parte opera di Auriga e Shige (ormai lo sapete u.u) .. un infinito grazie ad entrambe per la pazienza nel sopportarmi e per l'aiuto nelle correzioni: vi omaggerò di un unicorno di vetro non appena questa storia sarà finita. Ringrazio Gazelle per la colonna sonora che mi ha aiutato nella stesura: quando uccido personaggi, ascolto sempre le musiche dei film disney XD
Mi scuso davvero infinitamente per il ritardo nella pubblicazione: spero davvero di poter recuperare presto con i prossimi capitoli.
Grazie infinitamente per aver letto fin qui e, come sempre, se avete pareri / correzioni / precisazioni, mandate pure *_*
Un abbraccio!
  
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