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Autore: Adeia Di Elferas    20/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Isabella d'Aragona non sopportava più la vista del marito che languiva, la pelle verdastra e gli occhi rivoltati indietro, contorcendosi a intervalli regolari per i dolori della sua malattia.

Lo aveva lasciato nel letto che era mattina presto e giunta la sera lo aveva ritrovato ancora lì, incapace anche solo di alzarsi un momento.

Ripugnata da quello spettacolo, Isabella aveva arricciato il naso, colpita dal fetore della malattia e aveva preso senza indugio carta e penna per scrivere a Ludovico il Moro. Mettendo da parte tutto il suo orgoglio, Isabella implorò lo zio del marito di lasciarli partire per una vacanza venatoria nel parmense, dove avevano alcune riserve speciali di caccia.

Addusse molte motivazioni per quella richiesta e, fingendo un'ingenuità che non avrebbe mai ingannato nessuno, suggerì apparentemente in modo involontario, che allontanando ancora di più Gian Galeazzo dal cuore del Ducato, Ludovico avrebbe potuto fare ancor di più quel che preferiva.

La metà di luglio era passata da poco e Pavia sembrava una tomba di calore e afa e Isabella si sentiva morire ogni volta che tentava di prendere una boccata d'aria aprendo una delle finestre.

Quando arrivò la risposta del Moro, la Duchessa restò molto colpita e grata per l'improvvisa buona sorte. Ludovico aveva accettato, a patto che restassero via meno di un mese.

Senza prendersi il disturbo di scrivere un ringraziamento, Isabella fece preparare in gran fretta quel giorno stesso i bagagli e prima che scendesse la sera, lei e il marito – che faticava perfino a star seduto in carrozza – erano già sulla strada che li avrebbe portati nel parmense.

 

Re Alfonso aveva preso molto sul serio la preliminare richiesta di alleanza giunta dalla corte di Forlì e per trattare con la Tigre aveva scelto suo figlio Ferdinando, noto a tutti come Ferrandino.

Il giovane Duca di Calabria avrebbe compiuto in agosto venticinque anni ed era l'emblema, secondo il padre, di tutto quello che un re doveva essere. Aveva già accarezzato l'idea di lasciare prematuramente lo stato a lui, abdicando in suo favore, ma prima voleva che la linea della guerra contro i francesi fosse ben definita e chiara.

Ferrandino aveva accettato di buon grado la decisione paterna di mandarlo a Forlì e si aveva assicurato che avrebbe sfruttato quell'evenienza per guardarsi in giro e capire le reali potenzialità di quelle terre. Come capo dell'esercito di terra, Ferrandino sentiva come una sua specifica mansione verificare di persona l'orografia e la strutture del luogo.

Alfonso, con il petto gonfio d'orgoglio paterno, aveva salutato il figlio dai lunghi capelli biondo rossicci e gli aveva augurato ogni bene, ricordandogli una volta di più quanto sarebbe stato complesso far cedere la Sforza: “Almeno strappale un accordo di mutuo scambio, se proprio non cederà in pieno.”

Alfonso ricordava bene quando era stato alla corte dell'allora Conte Girolamo Riario. In quell'occasione vestiva ancora i panni di Duca di Calabria, ora titolo passato al suo erede, e non avrebbe mai scordato la forza d'animo che aveva scorto in Caterina Sforza.

Se trattare con Girolamo Riario era stato semplice ai limiti del ridicolo ed era bastato alzare un po' la voce e fare lo spaccone per fargli accettare ogni sua richiesta, Alfonso sapeva bene che con la sua vedova non sarebbe stato altrettanto semplice.

La sua spia gli aveva riferito il patto stretto con Giacomo Feo, l'amante, o meglio, il marito segreto della Contessa, ma il re diffidava degli stupidi e quell'uomo pareva a tutti gli effetti un vero stupido.

Era da stupidi, infatti, credere che la Tigre avrebbe accettato di punto in bianco di chinarsi al volere di Napoli. Ad Alfonso, quindi sarebbe bastato un piccolo trattatello, qualcosa che permettesse loro di usare la via Emilia in prima battuta senza avere troppe responsabilità di controparte.

Ferrandino, così, si presentò a Forlì nel cuore nell'estate, in pieno luglio, indossando i suoi sfarzosi abiti alla spagnola e facendo reverenze e occhi dolci a tutte le donne che incontrò lungo le vie della città.

L'arrivo di un simile ambasciatore aveva subito riacceso le tensioni tra Giacomo e Caterina. Se il primo, infatti, voleva presenziare a tutti i costi all'incontro tra la Contessa e il figlio del re di Napoli, la seconda preferiva evitare di tenere con Ferrandino un colloquio alla presenza del marito.

Anche se negli ultimi giorni Caterina si era fatta convinta che appoggiarsi un minimo a Giacomo fosse ormai indispensabile, ancora non si fidava abbastanza di lui. Il figlio del re non era un ambasciatore qualsiasi e con lui più che con chiunque altro sarebbe stato indispensabile e pesare gesti e parole, cercando di ottenere il massimo risultato e la miglior uscita possibile.

Una parola tirò l'altra e se la Contessa accusava il marito di voler prendere parte all'incontro solo perché geloso, Giacomo le rinfacciava la condotta che lei aveva avuto con Alfonso Este qualche mese addietro, sostenendo che quella visita gli era bastata per capire che non doveva mai abbassare la guardia.

“Comandante di un esercito a venticinque anni scarsi!” aveva esclamato il Governatore Generale, riferendosi a Ferrandino: “Un noto impenitente, che per di più è cresciuto in una corte piena di letterati, poeti e pittori!”

Caterina trovava ridicola l'arringa del marito, ma non ebbe di che ridere quando Giacomo diede l'affondo finale: “Scommetto che se potessi avere uno come lui, non esiteresti un attimo a buttarmi da una finestra come un giocattolo rotto!”

A trattenere la Contessa da una reazione molto violenta fu l'annuncio dell'arrivo alla rocca del figlio di re Alfonso.

“Come vuoi, puoi restare, ma non renderti ridicolo.” soffiò allora Caterina, passando accanto al marito, mentre si affrettava ad andare ad accogliere il prestigioso ambasciatore.

Giacomo strinse i denti, ma si rese conto che la moglie gli aveva dato il permesso di assistere al primo incontro tra lei e Ferrandino e tanto gli bastava. Era troppo teso per quello che sarebbe potuto accadere e, se era vero che avvertiva una gelosia preventiva salirgli in gola, era altrettanto vero che il suo interesse andava soprattutto a quello che Caterina avrebbe detto in termini di politica.

Giacomo si giocava la vita, con quel delicato patto tra Napoli e Forlì. Doveva sapere con precisione ciò che sarebbe stato deciso.

 

Ferrandino era già sceso di sella e si stava ravviando i lunghi capelli biondi che tendevano al rosso.

Teneva il cappello in una mano e i suoi abiti erano di foggia finissima, ma sufficientemente leggeri per una giornata così calda.

L'erede di Alfonso d'Aragona stava ridendo di gusto a una battuta fatta da uno dei suoi uomini di scorta e per prima cosa Caterina notò il suo viso ancora molto infantile, in netto contrasto con il suo fisico forgiato da lunghi allenamenti, alto e slanciato, perfetto per un principe.

Giacomo, che seguiva la moglie a pochi passi di distanza, si spostò con nervosismo una ciocca di capelli dalla fronte e fece un gesto infastidito con la testa, come se stesse scacciando una mosca. Quel napoletano già non gli piaceva. Eppure doveva farselo piacere, se ci teneva a restare con la testa attaccata al collo.

“Quale onore avervi in questa umile corte, caro cugino.” fece Caterina, avvicinandosi a Ferrandino, che ancora non l'aveva notata.

Quando il giovane principe smise di ridere e puntò i suoi occhi svegli sulla Contessa, i suoi lineamenti si distesero e le sue labbra accennarono un sorriso: “L'onore è tutto mio, mia signora. Spero che da questa mia visita si possano ottenere grandi cose, tanto per Napoli, quanto per il vostro Stato.”

Dopodiché il Duca di Calabria passò a osservare Giacomo Feo e parve fare due calcoli. Caterina sentì una goccia di sudore freddo scenderle lungo la schiena e si domandò quanto le spie napoletane avessero potuto capire di quello che accadeva tra le mura di Ravaldino. Tuttavia Ferrandino allargò il proprio sorriso e fece un'espressione un po' divertita che riuscì a sciogliere la tensione di tutti.

“Mi chiedevo se voi foste il Conte – fece il giovane, alzando una mano verso Giacomo, che si accigliò, cercando di assumere una postura sufficientemente marziale – ma mi sovviene che il Conte Riario ha appena quattordici anni.”

“Quindici, in realtà.” lo corresse Caterina, nella speranza di orientare il discorso su un piano il più innocuo possibile: “Lo potrete incontrare questa sera a cena. Purtroppo a quest'ora segue le sue lezioni e i suoi precettori non vogliono che si distolga dallo studio fino a quando non sarà in grado di governare da solo.”

Ferrandino sollevò una spalla e spostò il peso da un piede all'altro: “Come dar loro torto? Avere una solida educazione è fondamentale per un capo di Stato. Suvvia, non indugiamo, abbiamo molte cose di cui discutere o sbaglio?”

Caterina gli diede ragione e gli presentò Giacomo, cercando di dare al marito l'importanza che la sua carica gli dava. In realtà la Contessa cominciava a essere un po' intimidita dalla sicurezza ostentata dal giovane Aragona, ma non vedeva come fare per ridimensionarlo. Così accettò e pregò una delle sue guardie di far portare qualcosa da bere e da magiare nella saletta che aveva fatto preparare appositamente per quell'evenienza.

“Ricordo quando vostro padre ha fatto visita alla mia corte, qualche anno fa, quando mio marito, il Conte Girolamo Riario, era ancora in vita.” fece Caterina, cercando di far pesare la sua esperienza e la differenza d'età che, per quanto non mirabolante, poteva fare la sua parte.

Ferrandino, che aveva capito al volo il gioco della Contessa, cercò di prenderla in contropiede fin da subito, dicendo allegro: “Mio padre sa essere un vero insolente, sapete? Scommetto che vi ha presi in ostaggio obbligandovi a cenare con lui e i suoi generali e che prima della fine della cena sia anche riuscito a spillarvi promesse e concessioni.”

Caterina cercò di rispondere con un sorriso, ma il tono rilassato del giovane napoletano la stava mettendo in crisi. Si sarebbe aspettata un minimo di imbarazzo e invece il suo ospite sembrava quasi divertirsi.

“Grazie – disse Ferrandino ai servi che avevano appena portato da bere e da mangiare – molto gentili.” e poi tornò a guardare Caterina: “A proposito, sono molto colpito dalla vostra forza d'animo. So bene cos'è accaduto in questa città, quando vostro marito è stato assassinato.”

La Contessa chinò un po' il capo, in muto ringraziamento, ma non alimentò la conversazione per non dare l'impressione di essere troppo arrogante o troppo modesta spiegando quello che era in effetti successo dopo la morte di Girolamo.

La donna allora si avvicinò al tavolo su cui stava il vino e il cibo e, dopo aver appurato che non mancasse nulla, congedò i servi. Preparò un calice per il suo ospite, uno per sé e uno per Giacomo, che però rifiutò con un gesto della mano.

“Bene, ora che siamo soli...” la voce di Ferrandino si era fatta più sottile e i suoi occhi indagavano il profilo di Caterina con un'insistenza che infastidiva Giacomo ancor più del tono suadente del napoletano.

“Cosa può offrire un'alleanza con Napoli a uno Stato come il mio?” chiese la Contessa, fingendo di non notare né il viso tirato del marito né quello acceso di malizia del Duca di Calabria.

Ferrandino alzò il calice e bevve un sorso. Le sue labbra si contrassero in un inequivocabile segno di disapprovazione. Quel vino non era dolce nemmeno la metà di quello che si poteva trovare alla corte di suo padre Alfonso. Tuttavia, ragionò, era meglio del vino scadente che avrebbe bevuto una volta in guerra, quindi non si fece tanti problemi e un due altri lunghi sorsi vuotò il bicchiere.

“Protezione.” rispose, appoggiando il calice al tavolo e assumendo una postura elegante, tipica di chi era nato e cresciuto per essere un giorno re: “La sicurezza di non essere spazzati via dai soldati francesi, quando arriveranno.”

“Le vostre sono parole molte vaghe. Voglio numeri e garanzie.” ribatté la Contessa: “Dire solo che ci proteggerete non significa nulla.”

Ferrandino si passò la lingua sulle labbra e disse: “Ebbene, ecco cosa posso dirvi. Mio padre è intenzionato quanto me a frenare la discesa dei francesi e a salvare mia sorella Isabella dalla tirannia di vostro zio Ludovico. Per far ciò dispiegheremo il nostro esercito al completo e il vostro Stato sarà tra i pochi scudi di cui potremo servirci.”

“Detta così, sembra che siate più voi ad avere bisogno di noi che non viceversa.” constatò Caterina, mentre il pomo d'Adamo saliva e scendeva nel collo sottile del partenopeo: “E comunque Carlo di Francia potrebbe anche decidere di scendere dalla costa occidentale e in quel caso a noi non servirebbe affatto la vostra protezione.”

“Se anche scendesse a ovest – controbatté Ferrandino all'istante – dubito che resisterebbe alla tentazione di mandare parte del suo esercito anche a est.”

Caterina non aveva ancora toccato il suo vino, esattamente come Giacomo, che giocherellava con il suo bicchiere, passandoselo da una mano all'altra.

La Contessa stava per dire qualcosa, per chiedere qualche delucidazione in più su quell'affermazione, ma Ferrandino l'anticipò. Alzò l'indice, come a zittirla e fece un paio di passi verso di lei.

Quando le fu abbastanza vicino, le disse, a voce molto bassa: “Ho sentito molto parlare di voi, so di cosa siete capace e so bene che con voi parlo alla pari, se parlo di guerra.”

Giacomo, che stava a qualche metro da loro, avrebbe voluto farsi più vicino per sentire che mai stesse dicendo il napoletano, ma temeva che la sua iniziativa sarebbe stata vista da Ferrandino come ridicola e da Caterina come imperdonabile. Perciò bevve un po' del suo vino, sperando che i due tornassero in fretta a parlare a un tono udibile da tutti.

“Siete sola, a quanto ne so.” continuò Ferrandino, lanciando un'occhiata fugace e insinuante verso il Governatore Generale: “O per lo meno, senza un uomo valido al vostro fianco e questo sarà un problema, quando dovrete far fronte a un assedio.”

Caterina strinse i denti, incapace di smentire prontamente una simile insinuazione. Al contrario, lasciò Ferrandino libero di parlare, quasi sperando che potesse davvero darle una soluzione decente per la sua situazione.

“Se deciderete di diventare alleata di mio padre, il re di Napoli – continuò Ferrandino, in un sussurro appena udibile, allargando le spalle, come a mettere in mostra il fisico dalla muscolatura guizzante e asciutta – potreste guadagnare molto più di quel che credete.”

La Contessa comprese all'improvviso quello che il Duca di Calabria le stava offrendo e per un momento rabbrividì. Avrebbe voluto poter rispondere liberamente che non poteva e non voleva legarsi a nessun altro uomo che non fosse Giacomo, suo marito, ma ovviamente non sarebbe stata una mossa saggia.

Preferì recitare la parte della vedova afflitta: “Le vostre parole mi lusingano, ma sono ancora in lutto per la morte di io marito, il Conte.”

Ferrandino retrocesse improvvisamente, mettendosi a ridere di gusto: “Come dite voi!” esclamò usando finalmente un tono udibile anche da Giacomo, che stava friggendo in silenzio nel suo angolo.

“Se permetterete alle nostre truppe di stanziare e foraggiarsi nelle vostre terre e se ci lascerete libero passaggio sulla via Emilia e se ci prometterete di non concedere ai francesi la medesima grazia – riprese Ferrandino, una mano sul fianco e l'altra che si agitava in aria come a mostrare le meraviglie celate dalla sua dichiarazione – noi saremo pronti a imbracciare le armi per difendervi, in caso di aggressione.”

Caterina, che avvertiva uno strano calore al collo, che saliva in ritardo rispetto alla galante provocazione che le era stata mossa, scosse un po' la testa e commentò: “È molto quello che mi chiedete. Foraggiare un esercito come quello napoletano non è compito da poco.”

Ferrandino mostrò i palmi e fece un sorrisetto indolente: “Ma è quello che serve a mio padre e dunque queste sono le nostre condizioni.”

Giacomo guardava alternativamente la moglie e il Duca di Calabria e avrebbe voluto vedere le labbra di Caterina aprirsi per accettare, senza altre chiacchiere, così avrebbe messo in salvo tutti e lui sarebbe stato libero dall'incubo che gli tormentava i sonni e le veglie.

E invece la Contessa sospirò e, appoggiando le labbra al bordo del proprio calice, senza bere veramente, disse: “Dateci un giorno per pensarci. Domani vi darò la mia risposta.”

Ferrandino strinse gli occhi, un po' incredulo di fronte a una simile resistenza, ma poi, rivolgendosi a Giacomo, sillabò: “E io aspetterò con ansia.”

Poi il partenopeo tornò a guardare Caterina: “Stasera sono vostro ospite, quindi. Spero che ci sia anche un po' di musica. Ho voglia di ballare.”

La Contessa confermò che i musici sarebbero stati presenti al ballo e disposti a ottemperare a ogni sua richiesta, nei limiti del possibile.

Lasciando la sala, Ferrandino ne approfittò per gettare gli ultimi ami di quella pesca pressoché infruttuosa.

Prima prese di mira Giacomo, dicendogli, in tono un po' canzonatorio: “Ma voi siete muto? In tutto il tempo non avete detto una parola!”

Il Governatore Generale rispose laconicamente: “Io parlo quando vengo interpellato.”

Ferrandino aveva alzato le sopracciglia, con l'ultima stoccata: “Per essere il Governatore Generale delle rocche e delle truppe non mi sembrate troppo interessato alla guerra...”

E infine Ferrandino ne ebbe ancora anche per Caterina.

Le si avvicinò, proprio sulla soglia e, con il pretesto di passare assieme a lei dall'uscio, le sfiorò una mano con la sua, dicendo, questa volta a volume abbastanza alto da poter essere di certo sentito anche da Giacomo: “Spero che ripenserete non solo all'alleanza con mio padre, ma anche a qualcosa di più... personale. Una bella donna come voi non può restare sola.”

La Contessa ritirò istintivamente la mano, ma Giacomo colse solo la sua occhiata penetrante nei confronti del Duca di Calabria e per lui, che la conosceva molto bene, quel tipo di sguardo era una pugnalata nel cuore, perché oltre al fastidio che sottintendeva, denunciava anche un certo interesse.

Tuttavia, quando Caterina e il marito si ritirarono al Paradiso per prepararsi in vista del banchetto di quella sera, Giacomo non trovò il coraggio di parlare apertamente alla moglie dei suoi tormenti e si crogiolò nella più cupa gelosia fino all'ora della cena.

 
   
 
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