Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    24/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

 

Caterina decise all'istante che non sarebbe uscita dalla rocca per accompagnare la ripartenza del drappello napoletano e, appena rimase sola con il marito, gli si rivolse parlandogli a voce bassa, ma implacabile: “Bene, Giacomo, complimenti. Ora riunisci il Consiglio e va a dire ai nobili di Forlì che quando i napoletani si stanzieranno nelle nostre terre, i nostri cittadini moriranno di fame per foraggiare i nostri alleati.”

Giacomo, che per tutto il tempo non aveva pensato ad altro se non a far firmare alla moglie il trattato e salvarla così dalla minaccia di morte dei napoletani di cui lei era all'oscuro, si rese conto solo in quell'istante di aver commesso l'ennesimo imperdonabile errore.

“Ma...” fece il giovane, allentandosi sempre di più il colletto e cercando con mano tremante l'elsa della spada, sperando che sentire il freddo ferro sotto le sue dita gli avrebbe dato più sicurezza: “Magari... Insomma, magari i francesi non ci attaccheranno mai e a quel punto... Non dovremo mai... Insomma...”

Gli occhi verdi di Caterina e la linea severa assunta dalle sue labbra erano pregne di disgusto e incredulità: “Ma che stai dicendo? Certo che i francesi attaccheranno. Ci sarà la guerra e ne usciremo distrutti. Siamo uno Stato troppo piccolo: a queste condizioni sarà una tragedia.”

Giacomo boccheggiò un momento, alla ricerca disperata di una parola che potesse scagionarlo, ma la moglie non gliene diede la possibilità: “Sparisci. Vai a organizzare un consiglio, di' loro ogni cosa e spera che non ti facciano a pezzi.”

Mentre Caterina raggiungeva la porta, Giacomo, che più d'ogni altra cosa avrebbe voluto domandarle dove stesse andando, riuscì solo a gridare: “Non ti ho chiesto di fare la guerra per me!”

“È esattamente quello che hai fatto!” ringhiò Caterina di rimando, già oltre l'uscio.

 

La Contessa andò a passo di marcia alle stalle. Abbaiò contro uno degli stallieri affinché le sellasse in fretta un cavallo veloce e, nell'attesa, passò dall'armeria dove prese una spada a caso e quando tornò alle scuderie trovò uno stallone scuro che l'aspettava.

Montò in sella e partì come una furia. Uscì dalla rocca senza dire a nessuno dove era diretta, perché nemmeno lei avrebbe saputo rispondere. Intravide, nel passare sul ponte, il drappello napoletano e la su rabbia si fece ancora più viscerale.

Cavalcò per oltre due ore a spron battuto, nei boschi, fino a portare il suo stallone allo sfinimento.

Solo quando si accorse di quanto la bestia fosse sudata e in affanno si decise a fermarsi. Non riusciva nemmeno a orientarsi, ma confidava nell'istinto del cavallo, che avrebbe ritrovato la strada di casa con sicurezza, quando sarebbe stato il momento.

Lo legò a una pianta, all'ombra, in un punto riparato. Il sole di luglio la colpì in pieno, quando prese a camminare con la spada tra le mani in una zona in cui la vegetazione era un po' più rada.

Si sentiva bruciare di rabbia per quello che aveva accettato e per il modo subdolo e scorretto con cui Giacomo l'aveva indotta a cedere alla proposta napoletana. E una delle cose che più la facevano infuriare era l'accorgersi di non essere in grado di punirlo.

Iraconda e furente, si piazzò dinnanzi a un tronco particolarmente robusto e cominciò a colpirlo con il taglio della spada. Mentre le schegge di legno si alzavano in aria come schizzi di sangue, Caterina immaginò che al posto dell'albero ci fosse il suo primo marito, Girolamo, e poi suo padre Galeazzo Maria, poi il cancelliere Cicco Simonetta, poi suo zio Ludovico, i fratelli Orsi, suo figlio Ottaviano, Monsignor Savelli, l'ambasciatore Sfrondati, Ferrandino d'Aragona e tutti quanti, uno dopo l'altro.

Solo quando il tronco prese le sembianze di Giacomo, Caterina riuscì a fermarsi. Non sarebbe riuscita a fargli del male nemmeno con il pensiero.

Senza più forze, si accasciò contro il tronco ormai rovinato e gettò la spada di lato. Seduta sui trucioli che lei stessa aveva creato, si prese la testa tra le mani e cominciò a pensare a un modo per sopravvivere ai mesi che l'aspettavano.

 

“Per favore! Fate silenzio!” la voce anziana, ma ancora sicura di Luffo Numai nulla poteva contro la confusione che si era subito creata in Consiglio.

Giacomo presiedeva la riunione, stando sullo scranno che di solito spettava a sua moglie e già quella cosa aveva surriscaldato gli animi. Quando poi aveva annunciato che Forlì era scesa a patti con Napoli, erano cominciate le prime recriminazioni. Quando aveva fatto leggere da Numai i termini precisi dell'accordo, poi, era esplosa la rivoluzione.

Giovanni Delle Selle, alzando ambo i pugni al cielo, stava gridando al tradimento. Ettore Ercolani chiamava alla catastrofe. Alberigo Denti e Bartolomeo Codiferro faceva a gara a chi urlava con più vigore e tutti gli altri non erano da meno.

Quando, dopo un lasso di tempo difficile da calcolare, finalmente i Consiglieri cominciarono a essere stanchi di dar fiato alla bocca, Giorgio Castellini impose la propria voce su tutti chiedendo al Governatore Generale: “E perché mai la Contessa non è qui a prendersi la responsabilità di questa scelta scellerata?!”

Giacomo, pallido e sudato, stava contorcendo le mani l'una nell'altra. I suoi occhi persi incrociarono quelli di Luffo Numai, che lo accusava silenziosamente. Ormai il peggio era stato fatto, ma c'era una cosa che il Governatore poteva fare per sua moglie. E così la fece.

Si alzò in piedi, in un silenzio irreale che si era creato in seguito alla domanda di Castellini. Si puntellò con le mani al tavolone e cercò dentro di sé il coraggio necessario. Aveva come l'impressione di essere intento a annodarsi da solo la corda con cui l'avrebbero impiccato.

Tuttavia, dopo un'esitazione di qualche secondo, disse: “La Contessa ha mandato me in Consiglio, perché sono io che ho curato questo accordo e io il responsabile di queste decisioni.”

Come previsto seguì una pioggia di insulti, di critiche e di mezze minacce, ma Giacomo si accorse con grande sollievo che tutte quelle male parole gli scivolavano addosso.

Mentre si consumava quell'ennesima dimostrazione di insofferenza da parte dei nobili forlivesi verso le scelte fatte dal Governatore Generale Feo, Francesco Oliva, che aveva assistito fin dall'inizio standosene vicino alla porta, uscì senza dare nell'occhio.

Ormai la sua fedeltà era rivolta alla Contessa Sforza Riario, che l'aveva accolto alla sua corte quando Ludovico Sforza lo aveva liquidato senza tante cerimonie. Dunque, che poteva fare per rendersi utile in una simile situazione? Il suo primo pensiero fu quello di rispolverare certe sue amicizie milanesi. Se c'era una cosa, infatti, che un ex ambasciatore poteva fare, era mettersi a cercare informazioni riservate sul nemico.

Quando Luffo Numai riuscì finalmente a riportare la ragione nella sala, Giacomo riprese la parola e interrogò i presenti sui provvedimenti da prendere per prepararsi a un eventuale attacco francese e al foraggiamento dei napoletani.

“Ma i ricavati del Giubileo straordinario...” disse a un certo punto Giacomo, quando Giovanni Delle Selle gli ricordò la povertà delle campagne di Forlì e delle terre vicine e Imola.

“Siete un illuso, se pensate che con le elemosine si possa finanziare una guerra.” ribatté con sdegno Ettore Ercolani: “I soldi raccolti bastano a mala pena per finire il nuovo convento, senza contare che con i venti di guerra che si stanno alzando, i pellegrini sono sempre meno e ripartono sempre più in fretta, spesso lasciando solo pochi spiccioli nelle nostre casse.”

“Però, almeno, nel frattempo i muratori e i manovali che lavorano al convento sono ben retribuiti...” tentò Giacomo, che cominciava a rendersi conto dell'azzardo che aveva fatto inducendo la moglie a firmare l'accordo con Ferrandino d'Aragona.

“Presto la gente non se ne farà nulla dei soldi.” fece Alberigo Denti, sporgendo in fuori il mento a punta e guardando gli altri Consiglieri uno a uno come se volesse convincerli in via definitiva della sua tesi.

“Perché?” domandò Giacomo, sentendo la terra tremare sotto i suoi piedi.

Denti si voltò allora verso di lui, lo sguardo torvo e la mascella contratta: “Come perché?” chiese, apparentemente sconcertato: “Siete stupido o cosa?”

Ci fu un breve moto di solidarietà da parte di molti Consiglieri e solo Luffo Numai provò ad andare in soccorso di Giacomo, richiamando Denti con un debole: “Non mancate di rispetto al Governatore Generale!”

Tuttavia lo stesso Giacomo lo invogliò a continuare e così il Consigliere spiegò: “Se tutto il cibo, che già non è molto, parliamoci chiaro, andrà ai napoletani, che se ne faranno i forlivesi dei soldi, se non ci sarà più né pane, né grano, né carne, né altro da comprare?!”

Quell'invettiva riaccese il caos in Consiglio e Giacomo ne uscì solo quando era ormai scesa la sera, riaggiornando la riunione al giorno seguente.

Troppo teso per mangiare, il Governatore andò subito al Paradiso, dove trovò la moglie, che lo aspettava seduta alla scrivania.

I due si guardarono e per quanto avessero entrambi moltissime cose da dirsi, nessuno dei due riuscì ad aprir bocca.

Fu la Contessa la prima a prendere l'iniziativa, alzandosi e avvicinandosi a Giacomo con intenzioni molto chiare. Il Governatore si lasciò trascinare dalla moglie in quello che era solo un modo per scaricare la rabbia e la tensioni accumulati quel giorno.

“Andrà tutto bene.” sussurrò Giacomo, quando si trovarono abbracciati e sfiniti nel loro letto.

Caterina si strinse appena di più al marito e bisbigliò, scuotendo leggermente il capo: “No, non andrà tutto bene.”

 

L'agosto in campagna era arido e rovente. Il clima secco di cui si godeva in quei giorni, per quanto le temperature fossero quasi insopportabili, erano un toccasana per le articolazioni doloranti di Giovanni Medici.

Approfittando di quel clima a lui favorevole, stava affilando la spada all'ombra del porticato, quando suo fratello gli passò accanto e gli fece segno di seguirlo.

Passarono accanto al laboratorio di ceramiche che Lorenzo aveva fatto trasferire proprio in quelle settimane lì a Cafaggiolo, trasformando quella che era stata per anni la residenza estiva del Magnifico in un laboratorio, e Giovanni per un breve istante invidiò i ceramisti. Il loro ea un lavoro a volte faticoso e che a lungo andare rovinava le mani, ma almeno non dovevano affrontare il suo stesso dilemma. Quello che lui e suo fratello volevano fare era alzare le spade contro i loro stessi parenti, contro la loro stessa città, per strappare a un loro cugino il potere che forse non dovevano nemmeno desiderare.

“Novità?” chiese alla fine Giovanni, quando lui e Lorenzo furono finalmente tra le mura domestiche, in presenza di Semiramide e di alcuni uomini di fiducia a cui era stato affidato il compito delicatissimo e cruciale di reclutare con discrezioni soldati e cittadini pronti a ribellarsi a Piero il Fatuo.

“Savonarola ha ottenuto il distacco dalla congregazione lombarda anche dei conventi domenicani di San Gimignano, Fiesole, Prato e Pisa.” spiegò Lorenzo, il viso imperlato di sudore tanto per il caldo quanto per l'agitazione del momento: “Ha creato una congregazione toscana di domenicani e ne è diventato il Vicario Generale.”

Semiramide si lasciò scappare un'esclamazione di sorpresa, mentre Giovanni non trovò commenti particolari da fare.

“Con questa mossa, Savonarola sta diventando l'uomo più potente della Toscana.” concluse Lorenzo, gli occhi bassi.

“Per noi è una bella notizia, no? Toglie potere a Piero.” disse Semiramide, guardando il marito con un'ansia che ormai non la lasciava nemmeno nel sonno.

Lorenzo si grattò un attimo il mento sfuggente, poi ammise: “In effetti per il momento per noi è una cosa buona, ma quando sarà il momento, il potere smisurato di Savonarola sarà un problema.”

“Quando sarà il momento ci penseremo.” disse uno degli uomini presenti, seguito subito da altri che rassicurarono i fratelli Medici quel tanto che bastava.

“Dobbiamo essere pronti – fece Giovanni, rigirandosi l'elsa della spada che ancora portava con sé tra le mani – dopo questa, una mossa falsa di Piero è inevitabile.”

Lorenzo annuì con forza, diede una rapida pacca sulla spalla al fratello e poi congedò tutti, ricordando loro i rispettivi compiti.

Giovanni fu l'ultimo a lasciare la saletta delle armi, appena dopo Semiramide che, mesta, si era avviata verso l'interno della casa, probabilmente per tornare dai figli.

Il mondo sembrava impazzito. Dall'altra parte del vasto mare avevano scoperto una terra nuovo e inesplorata e Spagna e Portogallo se la stavano spartendo senza remore di alcun tipo. La Francia voleva far sua l'Italia intera e Dio solo sapeva cosa stava ancora accadendo a est, laddove gli Ottomani alimentavano un conflitto dopo l'altro.

Giovanni lasciò la spada mezza affilata su uno dei tavoloni della sala delle armi e uscì, deciso a farsi una cavalcata in mezzo al verde. Quella sera, forse, avrebbe cercato la compagnia di qualche donna del popolo, come faceva ogni tanto, e il giorno dopo avrebbe ripreso le sue consuetudini.

Tutti quanti, secondo lui, avevano un loro preciso ruolo nel mondo e il suo era quello di seguire il fratello maggiore e ridare lustro al nome dei Medici.

Mentre, quel pomeriggio, cavalcava sotto al sole dell'agosto e mentre, quella sera, si abbandonava nell'abbraccio di una giovane barberinese che non aveva mai conosciuto prima, Giovanni si sforzò di non pensare a quello che sarebbe accaduto il giorno seguente e ci riuscì meglio del previsto.

 

Isabella d'Aragona e Gian Galeazzo Sforza, i Duchi di Milano, erano nel parmense da poco meno di un mese e quelle terre e la lontananza da Pavia sembravano aver fatto miracoli.

Già dopo pochi giorni, il Duca aveva cominciato a migliorare sempre di più. I dolori lo avevano abbandonato poco per volta, fino a lasciarlo del tutto. Il suo umore si era fatto disteso, fino a essere allegro e spiritoso. Isabella stentava a riconoscerlo.

Gian Galeazzo aveva ricominciato a godere delle cavalcate in mezzo alla campagna, della compagnia della moglie e perfino dei momenti di pace passati all'ombra di qualche pianta mentre Isabella gli leggeva qualcosa o mentre i musici suonavano qualche melodia napoletana.

Quel netto miglioramento aveva aperto nella mente della Duchessa un dubbio. Si stava convincendo sempre di più che la malattia del marito non fosse tanto legata alla sua condotta di vita, visto che anche nel parmense beveva e mangiava come preferiva, ma piuttosto a qualche maleficio o a qualche altra diavoleria che il Moro riusciva a propinargli quando erano nelle sue vicinanze.

Una sera, Isabella prese il coraggio a quattro mani e, appena dopo cena, parlò apertamente al marito, con il quale, prima di quel momento, non aveva osato accennare nemmeno per sbaglio il Ducato, la guerra o qualsiasi altro argomento politico.

“Tuo zio Ludovico – gli disse, mentre sedevano nel salottino illuminato da qualche candela, cercando di catturare l'aria fresca della sera che entrava dalle finestre aperte – ha finalmente commesso un errore che potrebbe essergli fatale.”

Gian Galeazzo strinse le labbra, tentato di zittire la moglie. Non stava così bene da anni e non aveva alcuna voglia di angustiarsi la digestione con certi discorsi. Malgrado ciò, l'urgenza che avvertiva nella voce di Isabella lo zittì.

La donna riprese, rincuorata da quel silenzio: “Quando mio padre ha occupato Bari – a quelle parole Gian Galeazzo sgranò gli occhi, incredulo nel sentire che quella città, formalmente di Beatrice Este, era ora sotto il controllo diretto di Napoli – tuo zio ha fatto pressioni su Carlo di Francia, che ha subito dato l'ordine di scendere in Italia.”

“Carlo di Francia sta scendendo in Italia?” il Duca di Milano si puntellò sul divanetto, sconvolto.

Isabella annuì con gravità: “Le ultime notizie che sono riuscita ad avere sono queste. Dicono che arriverà nelle nostre terre prima della fine di agosto.”

Mentre Gian Galeazzo deglutiva rumorosamente, Isabella, che gli sedeva accanto, gli prese una mano tra le sue.

Con un tono che voleva suonare rassicurante, proseguì: “Però Ludovico ha commesso un errore che gli costerà il Ducato. Accanto a Carlo c'è il Duca Luigi d'Orléans e pare proprio che egli ha già avanzato in modo molto aggressivo delle pretese su Milano.”

“Come? E perché?” Gian Galeazzo scrutava il volto della moglie chiedendosi quando fossero accadute tutte quelle cose e come avesse fatto la sua Isabella a restare al corrente di ogni dettaglio per restando come lui isolata nel castello di Pavia.

Era evidente che sua moglie non era una donna comune.

“Perché i Visconti sono imparentati coi Valois per matrimonio e quindi secondo Luigi Milano, che non ha un erede chiaro, spetto alla corona di Francia.” fece Isabella, scegliendo accuratamente le parole.

Il Duca, avvilito, si morse il labbro: “Se invece io fossi stato all'altezza non avrebbe avanzato questa richiesta? È questo che intendi dire?”

Isabella alzò le spalle: “No, avrebbe trovato di certo un'altra scusa. Fatto resta che Ludovico si sta tirando in casa i nemici. È come il cavallo di Troia, Carlo VIII è Ulisse e tuo zio è Priamo.”

Gian Galeazzo si accigliò, ripensando a quando aveva studiato i poemi epici da ragazzino e a quanto li avesse trovati inutili. Era sorprendente scoprire che invece sua moglie li aveva fatti tanto propri da saperli sfruttare per leggere al meglio la situazione presente.

“Torniamo a casa, adesso che stai bene.” disse Isabella, sporgendosi appena verso di lui, le mani strette attorno alle sue: “Riprendiamoci Milano. Insieme. Riprendiamoci Francesco e diamo a tutti i nostri figli un futuro. Fermiamo Ludovico, adesso che è debole. È in mezzo a una tempesta e non se ne rende conto. Torniamo a Pavia, portiamo dalla nostra parte i nobili del Ducato e poi torniamo trionfanti a Milano. Mio padre ci darà l'appoggio militare per farlo e noi saremo suoi alleati contro Carlo di Francia e vinceremo questa guerra.”

“Tuo padre non vuole Milano per sé?” chiese Gian Galeazzo, quasi cercando un appiglio per evitare di dover mettere in atto quel piano rischioso.

“Sapendo che io sarei Duchessa e mio figlio il prossimo Duca, mio padre non annetterà mai Milano a Napoli, mi ama troppo per farlo.” assicurò Isabella, con forza.

“E tu faresti tutto questo assieme a me?” domandò Gian Galeazzo.

La moglie annuì, senza parlare. I suoi capelli rossi rilucevano alla luce delle candele e la sua pelle delicata sembrava brillare di luce propria e i suoi occhi parlavano per lei.

“Come puoi volermi ancora, dopo tutto quello che ti ho fatto?” la voce del Duca era appena un sussurro, ma Isabella si sentiva trionfante.

Sicura del fatto suo, la giovane donna disse: “Io ti perdono tutto. Ti perdono tutta la storia di Rozone, quella della figlia del tintore di Vigevano, tutto, tutto quanto, non voglio che ne parliamo più. Tu perdono ogni cosa. Ma ti prego, aiutami a riprenderci Milano.”

Gian Galeazzo chiuse per un istante gli occhi. I suoi lineamenti si contrassero in un'espressione combattuta.

Solo dopo un'attesa che stava per far vacillare Isabella, il Duca di Milano accettò: “Va bene, dunque. Riprendiamoci Milano.”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas