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Autore: Adeia Di Elferas    27/10/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La corte dei Gonzaga sembrava una fucina in piena attività, in quell'agosto.

Isabella Este divideva le proprie attenzioni tra la figlia Eleonora, ancora di pochi mesi, e gli affari di Stato e in questo modo lasciava libero il marito Francesco di pensare solo alla guerra.

Quella divisione dei compiti, che voleva la Marchesa intenta a sciogliere le diatribe di governo, ad ascoltare le questue e a redigere le direttive economiche e sociali di Mantova mentre il marito si occupava del riarmo dei soldati e della discussione pressoché quotidiana della campagna che sarebbe cominciata a breve, permetteva al loro Stato di respirare.

Se Isabella poteva confrontarsi con una situazione che, per quanto esasperata dalle tensioni politiche, era a lei ben nota, Francesco stava passando ore molto più agitate.

I veneziani erano rimasti molto perplessi dal comportamento del Gonzaga e non si fidavano più di lui come un tempo. Quando l'uomo aveva espresso il desiderio di andare a visitare il suocero Ercole Este a Ferrara, immediatamente dalla Serenissima era arrivato l'ordine categorico di non partire.

Secondo i veneziani, infatti, Ercole era troppo filofrancese e apertamente filomilanese e questo cozzava con la loro linea di pensiero. Francesco era uno dei loro soldati più preziosi, dunque non volevano per nessuna ragione vederselo soffiare dai loro nemici più odiati.

Francesco non aveva digerito la cosa e aveva cercato un modo per riprendersi la propria autonomia o quanto meno per far spregio ai veneziani. Ne aveva parlato con Isabella, una sera, mentre entrambi controllavano la balia che metteva a dormire la piccola Eleonora e alla fine erano giunti alla medesima conclusione.

“Sanseverino sta cercando appoggi per scendere nel modenese – aveva detto Isabella, riprendendo una delle prime idee che avevano accennato all'inizio della serata – assecondiamolo.”

Giovan Francesco, figlio illustre di Roberto Sanseverino, stava in effetti incontrando più resistenze del previsto, mentre faceva avanzare la discesa dei suoi soldati milanesi verso Modena. Non opporsi, neppure blandamente, assecondando così gli Este che stavano dando man forte a Sanseverino, sarebbe stata una mossa sufficientemente spregiudicata da far ribollire i veneziani di rabbia, ma non abbastanza grave da indurli a una vendetta.

Il Marchese Gonzaga aveva così accolto le parole della moglie con un sorriso e già il giorno appresso aveva contattato Sanseverino e gli aveva accordato il suo appoggio.

 

Alfonso d'Aragona era rimasto molto sollevato, quando suo figlio Ferrandino era tornato alla sua corte con un trattato firmato dalla Contessa Sforza Riario. A dirla tutta, non era certo che il suo erede sarebbe riuscito a strappare una concessione simile alla Tigre di Forlì, e perciò la sua curiosità si era fatta improvvisamente difficile da tenere a freno.

In cuor suo, aveva sperato che la Sforza alla fine cedesse, se non altro per cercare di salvare il fratello dalle grinfie dello zio, ma dall'altro era più che sicuro che mai avrebbe sottoscritto un accordo tanto svantaggioso.

“E dunque com'è adesso questa Tigre di cui tutti sembrano avere paura?” domandò il re al figlio, mentre gli riaffioravano ricordi vaghi di parecchi anni addietro, quando era stato ospite di Girolamo Riario.

All'epoca la Contessa gli era parsa una donna molto fredda e molto provata da una vita insoddisfacente. Era rimasto molto colpito dall'amicizia che sembrava avere con Virginio Orsini, ma nulla di più. Gli sembrava solo una moglie annoiata e costretta a convivere con un uomo senza valore che disprezzava. Anche se aveva sentito molte cose su di lei, in quell'occasione non aveva avuto modo di saggiarne le qualità.

Ferrandino si era levato il cappello, e, agitandolo in aria con fare sprezzante, rispose: “Più che una Tigre, quella donna donna mi è parsa un gattino.”

Alfonso si accigliò, notando nel figlio una lieve riluttanza nel parlare. Non poteva esserne certo, ma se conosceva Ferrandino, quella era la sua reazione di fronte a una proposta amorosa respinta.

“E i suoi figli... Dei piccoli selvaggi.” proseguì il Duca di Calabria, sporgendo in fuori le labbra con disappunto: “Tali e quali a lei. E sembra che non sappia nemmeno di averli per casa. Ora capisco perché Dio non permette alle gatte di saper contare più di tre cuccioli per volta...”

A quelle parole Alfonso non aveva avuto più dubbi e aveva etichettato il resoconto di Ferrandino poco attendibile, almeno in merito al carattere e all'avvenenza della Contessa che, da quel che ricordava, era la sua dote più marcata.

“Va bene, figlio mio, lasciamo perdere – concluse Alfonso, che aveva di meglio a cui pensare – ora che abbiamo un accordo, è il momento di muoverci. A te il fronte e l'esercito. Non mi deludere.”

Ferrandino, mettendo a frutto la sua ferrea istruzione militare, drizzò la schiena e rispose al padre con tono marziale: “Non vi deluderò.”

 

Giacomo Feo non perdeva occasione per fermare nei corridoi questo o quell'ambasciatore dei Regno di Napoli per chiedere quale fosse stata la reazione di Alfonso d'Aragona al trattato che Ferrandino aveva fatto firmare alla Contessa.

Le prime volte, i diplomatici partenopei lo avevano blandito facendogli notare che era troppo presto per avere già una risposta, considerata la strada che separava le terre dei Riario da quelle degli Aragona, ma dopo qualche giorno, persero tutti quanti la pazienza e cominciarono a dare risposte sgarbate e irritanti.

“Il patto ormai è firmato!” esclamavano, per zittire il Governatore Generale, che si angosciava con mille domande superflue; oppure lo guardavano in tralice e buttavano lì: “Se avesse avuto da ridire, state certo che lo sapreste.”

Quando poi Giacomo avanzava qualche richiesta velata sul futuro di Ottaviano, cercando di capire se e quando i napoletani si sarebbero mossi per eliminarlo una volta per tutte, gli ambasciatori davano sempre la medesima risposta, come se fossero tutti segretamente d'accordo: “Tempo al tempo, Governatore, prima vediamo se la vostra signora rispetterà i patti che ha contratto con noi.”

Nel frattempo, Caterina aveva ordinato a tutti i suoi castellani e Governatori di far rispettare i suoi editti al meglio e aveva predisposto ogni cosa affinché qualunque attacco a Imola o Forlì potesse essere arginato, almeno fino all'arrivo degli alleati aragonesi.

Mentre ancora il piccolo Stato della Sforza si affannava in vista del grande pericolo che incombeva, Ferrandino d'Aragona partì da Napoli alla testa dell'esercito partenopeo.

Il 18 agosto le terre del cesenate vennero letteralmente invase dai Napoletani. Il Duca di Calabria si fermò a Cesena, occupando il palazzo dei Guerra, mentre le sue truppe occuparono le campagne, requisendo cibo e spazio, spingendosi fino al confine con lo Stato dei Conti Riario.

 

Giovan Francesco Sanseverino, che si era visto derubare con la forza della Contea di Cajazzo ad opera di Alfonso d'Aragona, era riuscito a scendere nel modenese con più agio del previsto.

Non solo gli Este, ma anche i Gonzaga gli avevano accordato grande libertà di movimento e gli avevano anche dato la possibilità di avvalersi del loro aiuto logistico, almeno fino al suo arrivo a Bologna.

Seguito dalla prima parte dell'esercito francese – in realtà per il momento composto solo da italiani, quasi tutti della zona del milanese – Sanseverino arrivò a Bologna il 23 agosto, in una giornata afosa e spenta. Portava con sé mille tra fanti e balestrieri e un ingente numero di cavalleggeri.

Non era certo di quella mossa strategica. Avrebbe preferito aspettare anche il grosso dell'esercito, prima di cominciare la discesa verso sud, ma gli ordini del Moro erano stati chiari e non andavano disattesi per nessun motivo.

Accanto a Giovan Francesco, alla guida dell'esercito c'era il fratello, Gasparo Sanseverino, detto Fracassa. Fu proprio lui a far pressioni al fratello, che avrebbe voluto aspettare qualche tempo nel bolognese, prima di riprendere il cammino.

“A Cotignola ci aspettano seicento lance, l'Aubigny e Don Giuliano che porta con sé tutta l'artiglieria – aveva detto Fracassa, dando di gomito al fratello – con tutto quel ferro, come puoi aver paura di qualche spada napoletana?”

E così erano ripartiti quasi subito verso Cotignola, dove si sarebbero riuniti con l'artiglieria e il resto della fanteria.

 

I Duchi di Milano erano tornati a Pavia da pochi giorni, ma le condizioni di Gian Galeazzo erano già ritornate critiche come quando erano partiti a fine luglio per le terre parmensi.

Isabella non riusciva a spiegarsi quell'improvviso peggioramento in altro modo, se non collegandolo alla presenza di Franceschino Beccaria, un coppiere scelto ai suoi tempi dal Moro, la cui presenza a Pavia non poteva essere messa in discussione per non far adirare i suoi familiari, che reggevano il feudo di Zerbolò e si erano sempre dimostrati fedeli a Gian Galeazzo e a suo padre prima di lui.

Lo stesso Duca aveva rifiutato categoricamente l'ipotesi di allontanare quel ragazzo, quando Isabella aveva provato ad avanzare la sua idea e così nel castello di Pavia, giorno dopo giorno, si sentivano i lamenti di Gian Galeazzo e le recriminazioni di sua moglie.

Da Milano, senza che nessuno avesse fatto richieste del genere, arrivarono medici di ogni specie, quasi una processione di esperti, che cercavano di dare un senso a quei sintomi improvvisamente recidivati. Nausea, vomito, dolori addominali, dissenteria, dolori e rigidità articolari, accessi febbrili.

Alcuni tra i dottori più illustri esistenti, Cristoforo da Soncino, Giovanni Matteo Ferrari da Grado e Ambrogio Grifi, si lanciarono in altisonanti diagnosi, ammettendo con una certa onestà intellettuale, di essere di certo in torto, ma non di sapere che altro immaginare.

Parlarono di indigestione, di malaria, di congestione e di altre malattie dalla più varia origine, ma quando uno dopo l'altro lasciarono il capezzale del Duca di Milano, tutto quello che poterono fare fu di stringere con fare paterno la spalla della povera Isabella e incitarla a essere forte.

Bona di Savoia assisteva impotente a quel via vai di medici e non riusciva a trovare un miglior consiglio da dare al figlio se non di stare a letto e riposare.

Gian Galeazzo allora la guardava, alzava appena un sopracciglio e rispondeva seccamente: “Come se potessi fare altrimenti...” e contorcendosi per un nuovo attacco di dolori, si rigirava di lato e non parlava più per qualche ora.

 

La notte profumava ancora d'estate. Settembre era appena cominciato e anche se portava con sé giornate cariche di tensione e impegni gravosi, la notte sembrava incantata.

Giacomo Feo non riusciva a dormire. Quella mattina era arrivata a Forlì la notizia ufficiale che voleva Carlo VIII in marcia verso l'Italia. Probabilmente, facendo due conti, il re di Francia era già in territorio italiano. Con i napoletani che premevano dal cesenate e i l'avanguardia francese che le spie volevano diretta verso Cotignola e Villafranca, non c'erano motivi per sentirsi in pace.

Eppure Giacomo quella notte si sentiva esattamente così.

Si era svegliato poco dopo essersi addormentato e si era subito accorto che non sarebbe riuscito a riprendere sonno.

Quella coda d'estate era quasi fatata. Il cielo era limpido e anche stando al chiuso la luce della luna era tanto forte da illuminare un po' l'ambiente.

Giacomo si era alzato dal letto con movimenti discreti, per non svegliare la moglie e aveva infilato la vestaglia che teneva appoggiata sulla poltroncina. Aveva aperto un po' la finestra e una leggera aria fresca aveva invaso la stanza e poi si era messo all'inginocchiatoio. Aveva ripetuto nella sua mente, in silenzio, una serie di preghiere in latino che sapeva a memoria e che non capiva del tutto, il capo chino come un penitente.

Finito di pregare, Giacomo si perse per un momento ad ascoltare il proprio respiro lento e quello della moglie, il cui sonno sembrava stranamente tranquillo. In quelle notti faceva spesso incubi e qualche volta farfugliava qualche frase sconnessa senza svegliarsi del tutto, mentre in quel momento sembrava pacifica pure lei.

Era scoperta, come se avesse un caldo tremendo, eppure teneva un braccio sul ventre e uno a coprire appena il seno, come se in realtà volesse difendersi da uno spiffero gelido. Era supina, i capelli sparsi sul cuscino, le labbra appena schiuse e la fronte distesa, e a Giacomo sembrava la cosa più bella del mondo.

Giacomo si mise a sedere sulla poltroncina e, due dita appoggiate sulle labbra, si mise a fissare il corpo nudo di sua moglie, lambito dalla luce fredda della luna.

Se non avesse saputo per certo che ella aveva partorito sette volte, non vi avrebbe creduto. Le sue forme erano piene, floride, armoniose e prive di quei segni che ci si sarebbe attesi da una pluripara.

La sua pelle era liscia, senza cicatrici, senza segni di alcun tipo, tanto sottile che si potevano intravedere il sangue blu che le scorreva nelle vene e, quando si muoveva, si poteva indovinare il profilo di ogni muscolo, forte e potente per gli allenamenti che portava avanti con una regolarità d'impronta militare che non l'accompagnava da una vita.

Il suo ventre non aveva perso la forma che doveva avere anche quando era una ragazzina e i suoi fianchi erano solidi e larghi.

Giacomo indugiò a lungo sulle sue mani, appoggiate con tanta delicatezza a coprirla un po'. A volte si domandava come facesse a mantenerle tanto morbide. Anche se usava le sue creme e a volte le immergeva in una delle sue pozioni, era incredibile pensare che non portassero i segni della corda dell'arco o dell'elsa della spada.

L'uomo guardò ancora a lungo la moglie, immerso in aura più mistica che umana. Durante quell'osservazione meticolosa e attenta nel silenzio della notte, Giacomo si sentì più un asceta in adorazione davanti a una Madonna, che non un uomo.

Però, quando Caterina sospirò nel sonno e si mosse un po', in procinto di risvegliarsi, Giacomo si sentì di colpo tornare fatto di carne e sangue e il desiderio prese a pulsare rapido e prepotente dentro di lui.

E col desiderio, nel suo cuore tornò anche la guerra, scacciando la pace che quella notte di settembre era riuscita a dargli per qualche ora.

“Non riesci a dormire?” chiese la Contessa, reprimendo uno sbadiglio e notando con la coda dell'occhio la finestra un po' aperta.

Giacomo si strinse nelle spalle. Avrebbe voluto impedire alla moglie di coprirsi, ma non disse nulla. La guardò mentre tirava il lenzuolo per proteggersi dall'arietta fresca che entrava dalla finestra.

“Stavo pensando.” disse piano il Governatore, senza accennare a tornare a letto.

Caterina face un paio di respiri profondi e commentò: “Io almeno di notte cerco di non farlo.”

Giacomo non rispose, facendosi più corrucciato, e, abbassando gli occhi, concluse: “E ho anche pregato, per quel che sono riuscito.”

La Contessa strinse un momento i denti, poi commentò, cercando di non suonare offensiva: “Apprezzo la tua fede e a volte la invidio – disse – ma dubito che basterà qualche Pater Noster per risparmiarci dalla guerra.”

A quel punto Caterina si era aspettata una risposta accomodante di Giacomo, che avrebbe cercato di difendere la sua posizione con il suo solito ingenuo ottimismo.

Invece il marito sussurrò: “Lo so.”

Colpita da quell'affermazione così lapidaria e priva di speranza, la Contessa si mise seduta e guardò verso Giacomo. La luce della luna lo illuminava solo per metà, gettando ombre sinistre sul suo volto.

“I napoletani sono quasi nelle nostre terre – fece Caterina, parlando con il medesimo piglio con cui parlava ai soldati – i francesi arriveranno presto e prima di loro ci saranno i fratelli Sanseverino. Ci saranno giornate difficili, ma stando assieme possiamo farcela.”

“Non ci credi nemmeno tu.” controbatté Giacomo, scontroso.

Caterina a quel punto si alzò. Non si badò di cercare qualcosa da mettersi addosso. Si parò davanti a Giacomo e tentò di scuoterlo.

“Conosco Giovan Francesco Sanseverino. Era uno dei comandanti dei soldati che mio zio aveva mandato a Forlì ad aiutarmi a liberarmi dagli Orsi.” disse la donna: “In quell'occasione avevo conosciuto meglio uno dei suoi fratelli, ma i figli di Roberto Sanseverino ragionano tutti allo stesso modo.”

Giacomo sollevò lentamente il volto verso la moglie, chiedendosi che intendesse dire con quelle parole.

“So dove ci attaccheranno, se davvero ci attaccheranno prima dell'arrivo di re Carlo.” concluse Caterina.

Il marito scosse il capo: “Non puoi saperlo.”

“Sono diretti a Cotignola e Villafranca, questo lo sappiamo. Tutti noi ci aspettiamo che scendano verso Forlì, magari fermandosi prima a Faenza, per poi infastidire i napoletani a Cesena.” continuò Caterina, seguendo l'immagine che aveva nella mente: “E invece io credo che torneranno sui loro passi e ci attaccheranno, sì, ma a Mordano.”

Quella rivelazione fece sgranare gli occhi a Giacomo, che rimase senza parole. Un attacco del genere, secondo lui, non aveva senso. Tuttavia, non era un esperto di tattiche, lo riconosceva, quindi la sua opinione non aveva molto peso.

“Volevo parlarne domani, con la luce del sole, così almeno saremmo stati entrambi un po' meno inclini a pensieri bui – fece la Contessa, andandosi a sedere sulle ginocchia di Giacomo, che la lasciò fare – ma ho in mente di mandarti a Mordano e a Tossignano a preparare la difesa. Il tempo stringe e anche se i napoletani dovessero mettersi in marcia alle prime avvisaglie di scontro, difficilmente farebbero in tempo a salvare una parte consistente della popolazione.”

Giacomo le passò una mano lungo la schiena e annuì: “Va bene, ci andrò.” disse.

Sapeva che quello della moglie sarebbe diventato un ordine ufficiale, nel caso in cui lui avesse provato a rifiutare, e dunque tanto valeva dimostrarsi di buona volontà.

“Dai, torniamo a letto. Dormiamo un po'.” provò a dire Caterina, accarezzando una guancia del marito, un po' ruvida per via della barba che stava ricrescendo.

Egli non si oppose, e permise alla moglie di prenderlo per mano e ricondurlo fino al loro giaciglio.

Si coricarono e, mentre entrambi facevano il possibile per riuscire a riaddormentarsi, Giacomo fu colto da una curiosità improvvisa: “In queste notti hai spesso incubi – disse, guardando di sottecchi la moglie alla luce della luna – cosa sogni, la guerra?”

Caterina si sentì un po' a disagio. Tirando il bordo del lenzuolo fino alle spalle, prese fiato e ci mise qualche secondo prima di dare una risposta.

“Quella la sogno quasi ogni notte, da quando ho preso parte per la prima volta a una battaglia nell'esercito degli Orsini – confermò – ma gli incubi che mi agitano di più sono altri.”

Giacché Giacomo aspettava, palesemente in attesa di maggiori spiegazioni, la donna confessò: “In questi ultimi tempi ho ripensato molto al mio passato e forse per quello... Continuo a sognare il giorno in cui hanno assassinato mio padre. E il giorno in cui mi hanno fatto sposare Girolamo. I due incubi si alternano e a volte mi fanno quasi impazzire...”

Di fronte a quell'inattesa dichiarazione, a Giacomo non restò molto da fare, se non allungare un braccio e stringere a sé la moglie, sperando di farle coraggio.

In quel clima incantato, con il profumo della fine dell'estate che ancora filtrava dalla finestra un po' aperta, i due si riaddormentarono stretti in un solido abbraccio, cercando l'uno nell'altra l'appoggio e il coraggio necessari ad andare avanti.

 
   
 
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