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Autore: Rei_    28/10/2016    4 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Michele dormiva profondamente sotto l'effetto dei farmaci.
Era riuscito a restare sveglio fino alla chiamata di Thomas e dopo era crollato definitivamente. La notizia del suo risveglio e successiva fuga dall'ospedale era girata in fretta, e già tutti i giornali avevano dato la notizia.
Era l'alba, e Nicolò li sfogliava dal tablet distrattamente. Non era riuscito a prendere sonno nemmeno per un secondo a causa di tutti i pensieri che aveva per la testa. Aveva passato l'intera notte a parlare con Michele finché non si era addormentato, commentando ogni telefonata che l'altro riceveva con lo stesso sprezzo che avevano avuto su quel tetto, quando quella sfilza di ipocriti deputati di SD erano saliti per dire a Michele di scendere dopo averlo insultato, quelle stesse persone che ora lo chiamavano fingendosi premurosi. Erano riusciti, in brevi momenti, anche a ridere assieme, come non succedeva da troppo tempo. Ed era solo di quello che avevano bisogno, perché di lacrime, di dolore e di silenzi ne avevano vissuto entrambi per troppi giorni. Anche se, nel profondo, Nicolò era tormentato dalla paura. La paura di chiudere gli occhi e scoprire che era stata tutta un'illusione, che Michele non si era mai davvero svegliato.
Però, mano a mano che le ore passavano, il capogruppo del Fronte si abituava sempre di più all'idea che Michele era davvero fuori pericolo, e più questa coscienza entrava in lui, più anche lui tornava a essere il Nicolò di sempre. Ogni ombra di tristezza, di rimorso e di paura, alla fine, era sparita in fretta com'era arrivata, e Nicolò adesso riusciva solo a ridere della sua ansia trascorsa, come se fosse sempre stato ovvio che Michele si sarebbe risvegliato.
E poi, c'era anche quel senso di vendetta che montava sempre di più dentro di lui e che si era sostituito al senso di colpa. Quella voglia di scoprire i colpevoli e vederli sbattuti in galera, ovviamente non prima di avergli personalmente sputato in faccia. Ogni minimo particolare che veniva raccontato dai giornali sulle indagini riusciva a riempirlo di un'euforia insolita, la stessa che aveva provato quando il suo partito era riuscito a bloccare la legge.
Il rumore lento della porta che si aprì lo distrasse. Non fece particolare caso all'ingresso di Marchesi, forse perché si era abituato a vederlo spesso. Non diede neanche peso al suo viso bianco come un cadavere e alla sua andatura storta, ormai gli era del tutto palese che quell'uomo si faceva di qualche sostanza, ma non era certamente un problema suo.
«Il dottore pensa che con due o tre settimane di convalescenza si riprenderà del tutto» gli comunicò il segretario di Sinistra Democratica.
«Spero sia così» commentò Nicolò.
Riccardo si sedette sul bordo del letto e sfiorò con la mano la testa di Michele.
«Avrei voluto dargli di persona questo, come augurio di guarigione. Ma non importa, confido che glielo darai tu quando si sveglia».
Appoggiò una piccola scatola nera sul tavolo. Nicolò dedusse dalle dimensioni che si trattava di un orologio, probabilmente molto costoso.
«Bel pensiero, ma non penso che sia roba per lui» gli sfuggì, mentre si rendeva conto subito dopo di aver detto una cosa poco educata.
«Forse hai ragione» commentò Marchesi, uscendo dalla porta. Nicolò restò a meditare un attimo. Era quasi curioso di aprire quella scatola per vedere se c'era davvero dentro un orologio, ma poi lasciò perdere.
 
 
Nel suo ufficio erano in sette, tra parlamentari e staff. C'era da uscire con un comunicato, perché la notizia bomba del giorno era che anche Riccardo Marchesi era stato indagato nella maxi-inchiesta.
La notizia era riuscito a lasciarlo incredulo. Non che avesse mai reputato Riccardo Marchesi un gran stinco di santo, però essere indagati per presunti legami con la mafia non era roba da poco. E poi, per tutti in Parlamento quell'uomo era sempre stato considerato uno di quelli onesti, anche se poco ortodossi.
La situazione era critica. I giornali avevano i riflettori puntati sul palazzo, e la politica rischiava di subire una svolta epocale a causa delle persone che, una ad una, stavano affondando, vittime di quei cannoni chiamati avvisi di garanzia, ma Nicolò quel giorno non aveva gran voglia di prendere parte alla solita guerra contro SD. Quando la riunione finì, fece velocemente le scale per arrivare sul tetto, luogo che ormai preferiva rispetto al cortile per fumare, trovandolo meno affollato e più silenzioso. Non appena arrivato, però, si accorse con meraviglia di non essere da solo.
Sul tetto c'era Riccardo Marchesi, appoggiato al muretto, che guardava il cielo con fare indifferente.
Un ghigno di superiorità percorse il viso del capogruppo del Fronte prima che potesse gestirlo.
«Dunque, sembra che anche tu abbia intrallazzi con la mafia. In effetti, quelle scarpe sono troppo anche per lo stipendio di un politico».
Marchesi lo squadrò di traverso.
«Ma guarda, quindi adesso un avviso di garanzia fa già il colpevole? Chissà cosa ne pensa Michele» rispose, tagliente.
Al solo sentire quel nome, Nicolò sentì qualcosa fargli male dall'interno, segno di un senso di colpa che ancora c’era, nonostante tutto ciò che vi aveva messo sopra per coprirlo. Il sorriso gli scomparve subito dalla faccia mentre freneticamente tirava boccate di fumo.
«È una cosa diversa, e tu lo sai benissimo».
Marchesi accigliò lo sguardo, notando il suo cambio repentino di umore.
«Già, perché in quel caso te ne sei andato all’estero piuttosto che stare dalla sua parte».
Prima che il cervello elaborasse una risposta, il corpo di Nicolò si era già scagliato contro Marchesi e lo aveva inchiodato al muro. Non gli importava chi fosse, non gli importava cosa sarebbe potuto succedere se si fosse lasciato andare, in quel momento voleva solo sputare addosso il più possibile il suo odio a quell'uomo. L'adrenalina gli percorreva le vene mentre Marchesi rimaneva impassibile, a ridosso del muretto e a due centimetri dal suo viso.
«Tu non sai un cazzo! Tu non sai cos'è stato stare a guardare mentre una folla lo massacrava, svegliarsi in piena notte in un Paese straniero e scoprire che era stato investito! Non sai cosa vuol dire, tu eri lì a sbrigare i tuoi affari mentre io ogni giorno pregavo che si svegliasse, perché se fosse morto la colpa sarebbe stata mia! Mia! Tu non capisci, non sai cosa vuol dire avere un senso di colpa così profondo da non riuscire a dormire. Sei solo riuscito a minacciarmi con quel video idiota, e non sai nemmeno quanto ho dovuto litigare con me stesso per superare quel maledetto schiaffo! Tu non sai un cazzo!»
Ansimava, con le lacrime agli occhi per tutto ciò che aveva appena rivangato, scavando con la propria rabbia fino in fondo al suo cuore. Marchesi lo fissava con uno sguardo completamente estraneo. Per un breve istante gli sembrò di vedere un luccichio nei suoi occhi, ma poi entrambi ruppero il contatto visivo.
Nicolò lo lasciò, si appoggiò al muretto e si accese un'altra sigaretta. Avrebbe dovuto sentirsi forte per aver finalmente tirato fuori quel peso che aveva, invece si sentiva peggio di prima.
«Non esiste più quel video, puoi stare tranquillo». Nicolò lo fissò, pieno di risentimento.
«E perché dovrei crederti?»
«Non ha importanza se mi credi o no» ribatté lui, «ma sono soddisfatto della tua reazione di prima».
Fece per andarsene. Nicolò lo osservò, completamente confuso.
«Non ho intenzione di sputtanarti davanti alla stampa» gli gridò da lontano, «sarebbe come sparare sulla croce rossa. Sei un gran pezzo di merda, ma è grazie a te che Michele è vivo».
Il segretario di Sinistra Democratica gli sorrise da lontano prima di uscire, e Nicolò non riuscì a frenare il dubbio che quell’uomo si fosse trovato su quel tetto apposta per incontrare lui.
 
 
*
 
 
Michele uscì da quella stanza di ospedale più volte di quante gli fosse permesso. Ogni persona che lo veniva a trovare per lui era una scusa per fare due passi in mezzo alla natura, lontano da quelle pareti delle quali si era decisamente stufato.
Gli eventi si susseguivano con inquietante velocità. I comunicati stampa e le rare comparsate televisive dei coraggiosi che osavano sfidare la furia giornalistica si rincorrevano tra scandali nascenti e crescenti. L'unica nota positiva era che tale scompiglio aveva quasi fatto dimenticare all'opinione pubblica le sue faccende. Michele aveva smesso di ricevere messaggi e chiamate di giornalisti agguerriti, e tanti suoi colleghi lo venivano a trovare più serenamente, ora che era visto come un eroe che, grazie alla sua testimonianza, stava mettendo in manette mezzo Parlamento.
Michele stava lentamente guarendo, riprendendo mano a mano il possesso dei suoi movimenti. In qualche modo stare lì dentro, fuori dalla tempesta politica, lo stava aiutando tantissimo. Le cose gli passavano a fianco ma non lo toccavano mai, e anche le notizie sugli interrogatori del padre e del fratello lo lasciavano piuttosto indifferente.
Arturo e Thomas, poi, non mancavano mai di far sentire la loro presenza, quando non erano impegnati ad esaltarlo davanti ad una telecamera. Il più anziano aveva iniziato a frequentare i salotti televisivi, difendendo il coraggio di Michele, anche se quel coraggio si era tradotto nell'apertura di diversi fascicoli tra i deputati di SD, di cui il più grave era quello su Marchesi, che il giovane non aveva più rivisto né sentito dal giorno della notizia, ritrovandosi solo un vecchio orologio da parte sua sul comodino.
Il segretario di SD, però, era tutt'altro che solo. Tutti i deputati di tutte le correnti erano incaricati di fargli quadrato attorno, abbaiando come cani feroci quando un giornalista poneva domande e insinuazioni sul suo caso, difendendolo a spada tratta in ogni comunicato stampa e attaccando l'opposizione per deviare l'attenzione. Inoltre, un nugolo di esperti di comunicazione produceva le risposte ai giornali, così incorniciate di retorica che mettevano bene a tacere gli spiriti avversi, almeno per qualche giorno.
Infine c'era Marcello Pasqui, il quale non produceva comunicati né rispondeva alle domande, ma si limitava a fulminare con lo sguardo chiunque si azzardasse a puntargli una telecamera addosso.
Accadde che però, un giorno, Michele accese la televisione della sua stanza come ogni mattina e una notizia, al posto di scivolargli accanto come al solito, lo colpì direttamente in pieno petto.
 
"Augusto Chiarelli, attuale vicecapogruppo del Fronte per l'Indipendenza, è indagato per presunti legami alla maxi-inchiesta sulla 'ndrangheta. Il deputato è accusato di spaccio e consumo di cocaina, e ad una prima perquisizione sono rinvenute buste contenenti la sostanza stupefacente, che il deputato, a quanto si apprende, vendeva come intermediario proprio nelle stanze del potere. Nel Fronte per l'Indipendenza ancora non ci sono alcune reazioni alla notizia. Il capogruppo Andreani non ha risposto alle telecamere, mentre la richiesta di dimissioni piove forte dalla base del partito."
 
Michele fissò sbigottito lo schermo. Non poteva crederci.
Solo qualche giorno prima, Chiarelli era venuto a trovarlo insieme ad una delegazione del Fronte. Insieme gli avevano portato dei fiori e gli avevano fatto gli auguri di pronta guarigione, e avevano persino esultato all'idea che finalmente quella parte marcia della politica andasse in galera.
Aspettò per tutto il giorno l'arrivo di Nicolò, pensando spesso alle cose da dirgli per sostenerlo. Ma Nicolò non venne, ne quel giorno, né quello seguente, e Michele fu costretto a sopportare i volti sorridenti dei deputati del suo partito, felici che l'attenzione si fosse spostata verso il Fronte.
La sera del secondo giorno, però, il giovane deputato prese in mano il cellulare e provò a chiamare Nicolò. Il telefono suonò a vuoto, e decise di provare con il suo coinquilino Iannello.
«Pronto?» gli rispose una voce stanca e spossata.
«Sono Michele. Nico è lì?»
«No. Sono giorni che sta in ufficio, anche la notte. Lo sai cos'è successo, no?» rispose scocciato.
«Sì, certo» si affrettò a dire Michele, un po' offeso «beh, grazie lo stesso».
Scrisse un messaggio per Nicolò poi tornò a sdraiarsi, immaginando lo smarrimento dell’altro in quella situazione assurda.
 
 
*
 
 
«Ora puoi aprire gli occhi!»
Riccardo Marchesi scese dallo scooter e si tolse la benda. Davanti a lui c’era il mare, rischiarato solo dalla fioca luce della luna.
«Ma…»
Non fece in tempo a finire la frase che un nugolo di capelli rossi si avventò sui suoi vestiti tra matte risate. Solo poche ore prima avevano trascorso la giornata in importanti riunioni, e Marchesi vide una delle sue camicie migliori cadere sulla sabbia non proprio pulita di Ostia.
«Avevo voglia di farmi un bagno! Dai, muoviti!»
Francesco ignorò le proteste dell’altro e lo spinse in acqua. I suoi boxer si infradiciarono, ed ebbe l’accortezza di togliersi in fretta l’orologio per impedire che si bagnasse.
«Tu sei completamente matto!» gridò Marchesi, mentre Francesco si tuffava in acqua con un’autentica gioia dipinta in volto.
«No, Ric, tu sei matto se pensi che io mi faccia un viaggio da Bologna solo per farmi noiosissime riunioni!»
Francesco gli spruzzò dell’acqua addosso e Riccardo rispose con altrettanti schizzi.
“Se Goffredo mi vedesse adesso…” pensò, imbarazzato ed eccitato allo stesso momento.
Francesco si mise a morto, galleggiando disteso nell’acqua. Riccardo diede qualche bracciata. Non riusciva a ricordarsi l’ultima volta che era andato al mare. Doveva essere stato parecchi anni prima.
«E così domani torni a casa, eh?» chiese distrattamente, cercando di non fargli capire quanto desiderasse che rimanesse.
«Sì. Ma lo sai che ovviamente scapperò al più presto per tornare qui».
Riccardo sorrise, gustando tra sé il pensiero di quando l’avrebbe rivisto.
«Però ti accompagno io in stazione».
«Eddai! Perché ti devi alzare presto apposta?» sbuffò l’altro, «ci vado anche da solo!»
«Perché mi fa piacere!» ribatté Riccardo con fermezza, «e soprattutto perché non rispetti le più basilari indicazioni di sicurezza del partito. Lo so che ti stanno strette, ma sono abbastanza importanti, sai?»
Come previsto, Francesco sbuffò di nuovo, sprofondando di poco nell’acqua.
«Ma dai! Io ho tutto il diritto di girare a volto scoperto, sono loro a doversi nascondere semmai! E poi non ho paura dei fascisti finché ci sei tu».
Riccardo sorrise imbarazzato, e nuotò per un po’ sott’acqua per non far vedere la sua espressione. Francesco era così. Un attimo prima lo trovavi pronto a spaccare il mondo e l’attimo dopo ti spiazzava con frasi di una dolcezza così sincera da lasciarti senza fiato.
Prima di conoscerlo, non avrebbe mai immaginato che lui, proprio lui, sarebbe stato capace di buttarsi a mare a tarda notte con addosso solo dei boxer. Lui, quello che Goffredo aveva preso sotto la sua ala per trasformarlo in un dirigente. Francesco era stato capace di cambiarlo, un miracolo in cui non avrebbe mai sperato.
Un paio di mani lo spinsero più a fondo sott’acqua, ma non gli ci volle molto per ribaltare la situazione, spingendo a sua volta.
Francesco riemerse ansimante e ridente, con i ciuffi rossi appiccicati al viso.
«Allora vuoi la guerra, eh?»
Si inseguirono, nuotando fino al largo, fino a che entrambi finirono le energie e arrancarono sulla sabbia, stendendosi uno sopra l’altro.
Riccardo riusciva a sentire quel corpo leggero avvinghiato al suo, e gli stampò un bacio che sapeva di sale.
Potevano permetterselo. Erano lì loro due, da soli.
«Mi prometti che ti comporterai bene a Bologna?»
«Cosa vorresti dire?» si indignò Francesco, «io mi sono sempre comportato bene!»
«Lo sai cosa intendo» replicò Riccardo, «profilo basso!» L’altro gli stampò un lungo bacio, con fare seducente.
«Non preoccuparti. Sarò di nuovo a Roma prima che lo zio Gof si accorga che la sua scatola di cubani è sparita».
Riccardo gli tirò uno spintone e Francesco rise a crepapelle, rotolandosi sulla sabbia.
Quella sera improvvisata sulla spiaggia di Ostia se la sarebbe ricordata come l’ultima in cui lo avrebbe visto ridere.
E i sigari cubani di Goffredo non furono mai più restituiti.
 
 
*
 
 
Dentro la sala Aldo Moro c’erano tutti. Tutti tranne Chiarelli, unico assente “giustificato”. Le facce erano serie e impenetrabili. Nicolò non ricordava di aver mai presenziato a una riunione di questa gravità. Fino a quel momento, le loro riunioni erano sempre assomigliate quasi a ritrovi tra amici, anche quando la situazione era dura.
Non si capacitava della situazione, non ancora. Stava per espellere il suo vicecapogruppo, e avrebbe dovuto ripristinare l’ordine e la fiducia dei suoi compagni quando nemmeno lui ne aveva più. Il suo cuore batteva intimorito davanti a quella platea con cui aveva condiviso così tanto. Era diventato capogruppo praticamente senza volerlo, aveva fatto tanti interventi in aula e stretto tante mani riconoscenti, e ora stava per assaggiare il rovescio della medaglia, dove avrebbe dovuto gestire da dirigente una situazione esplosiva.
«Compagni» iniziò, incerto sul tono da usare. Nessuno fiatò.
«Compagni e compagne» ripeté a voce più alta, «sappiamo tutti per quale motivo siamo qui. Un uomo, che fino a poco tempo fa era stato uno dei nostri più cari compagni, ha macchiato il nome del nostro partito con un reato indegno. So che ancora non c’è una sentenza definitiva, ma le notizie ci danno notevoli ragioni per ritenere Augusto Chiarelli inadeguato al suo ruolo».
Cercò di contenere la propria rabbia, mentre la intravedeva riflessa negli sguardi degli altri.
«In accordo con altri compagni, propongo a quest’assemblea di votare la sua immediata espulsione dal parti-»
Non fece in tempo a finire la frase che diverse mani si alzarono, richiedendo la parola. Il primo a parlare fu uno dei membri più anziani.
«Conosco Chiarelli da più di dieci anni, compagni. Abbiamo lottato insieme diverse volte, abbiamo portato avanti delle cause che sembravano perse, sacrificando gratuitamente il nostro tempo e le nostre energie. Non posso accettare che per una stupida inchiesta venga sbattuto fuori!» tuonò l’uomo.
Metà sala applaudì e l’altra metà, Nicolò compreso, restò immobile, attonita da quelle parole.
Subito dopo il momento di shock, il capogruppo si rialzò rabbiosamente in piedi, riprendendosi la parola.
«Compagni» replicò seccato, «davvero non capisco come possiate dire una cosa del genere. È abbastanza chiaro che il vicecapogruppo di questo partito è implicato nella faccenda e, se qualcuno ancora non l’ha capito, si sta parlando di mafia! Non vi sembra un motivo sufficiente? Ragionate! Per tutti i deputati degli altri partiti che in questo momento stanno finendo a processo vi bastano capi d’accusa meno gravi per attaccarli nelle interviste. Che figura faremmo salvando il culo a Chiarelli, solo perché è un nostro compagno?»
«La figura di chi non abbandona i compagni in difficoltà!» rispose un altro deputato più giovane. Altri assentirono.
L’uomo che aveva parlato prima si rialzò in piedi, con un sorriso soddisfatto.
«Di certo una figura migliore di chi condanna tutti, ma difende un solo parlamentare di Sinistra Democratica, e chissà per quale motivo!» disse, allusivo.
Nicolò scavalcò il banco che lo separava dall’uomo con un balzo, ma fortunatamente diversi compagni si frapposero tra i due, consci di ciò che stava per accadere. Ci vollero diversi minuti per far tornare la calma e impedire una rissa. Nicolò si rese conto di aver agito impulsivamente come al solito, proprio nella situazione nella quale non doveva assolutamente farlo.
Una volta che si fu calmato, lasciò che tutti parlassero. Restò in silenzio al suo posto ad ascoltare la posizione di ciascuno e a prendere appunti.
Gli capitò di pensare a come si sarebbe comportato Michele al suo posto. Lui era capace di non urlare mai, di non arrabbiarsi, di riuscire a trovare sempre il compromesso. Nicolò lo aveva sempre giudicato troppo morbido, ma in quel momento si rese conto di quanto gli avrebbe fatto bene imparare qualcosa da lui.
Quando nessuno alzò più la mano, riprese la parola.
«Passiamo alle votazioni».
Molte mani si alzarono per votare la sfiducia a Chiarelli. Le contò: erano la maggioranza.
Sospirò. Ce l’aveva fatta, alla fine.
«La decisione di espellere Augusto Chiarelli è stata presa a maggioranza» concluse, «la riunione è tolta».
Tutti fecero per alzarsi dal banco, ma un uomo in piedi si schiarì la voce. Era Giorgio, che fino a quel momento non aveva ancora parlato.
«Prego, compagno Iannello».
Giorgio camminò fino al centro della sala. Il suo sguardo era serio e deciso.
«Compagni e compagne, non vi ruberò molto tempo, solo qualche minuto per ringraziarvi. Ero un lottatore solitario all’epoca, ma con il partito la mia speranza è rinata. Ho lasciato famiglia e amici per portare avanti ciò in cui credevo, tuttavia le più recenti vicende mi costringono a rivedere le mie convinzioni. Sono sempre stato convinto di vivere in un partito fatto di onesti combattenti come me, ma oggi mi avete dimostrato tutti il contrario». Fece una pausa. Nessuno osò fiatare.
«Ho dovuto assistere ad un mio dirigente, una persona di cui mi fidavo, sbattuto sulla prima pagina dei giornali per uno scandalo che ha a che fare con la mafia. E ho anche dovuto assistere a compagni storici di questo partito che lo hanno difeso, in barba alle nostre regole. Mi chiedo come possiamo dare un’immagine degna ai nostri elettori, se tutto ciò non è nemmeno degno dell’istituzione che rappresentiamo».
Nicolò non gli staccò gli occhi di dosso, non riuscendo a credere a ciò che stava sentendo.
«Ma oggi abbiamo fallito, compagni. Abbiamo fallito, e io mi assumo le mie responsabilità, rassegnando le mie dimissioni al più presto. Oggi il partito ha distrutto la mia voglia di lottare. Mi avete deluso, tutti quanti».
Nicolò non poté far altro che rimanere lì, impalato, mentre l’unico uomo che era riuscito a convincerlo a impegnarsi fino a trascinarlo in quella nuova vita si allontanava lentamente dalla stanza, per non farci mai più ritorno.
 
 
*
 
 
Una macchina nera viaggiava nel buio della notte. Il suo leggero rumore riempiva il vuoto delle strade. Tutto era desolato. Il cielo rumoreggiava, promettendo un bel temporale.
Riccardo Marchesi scese dal taxi, impeccabile nel suo abito nero. La cravatta ricadeva perfettamente dritta fino alla cintura di cuoio e le scarpe lucide scintillavano alla luce del lampione.
Rivolse all’autista il più autentico dei suoi sorrisi. Un sorriso che non mostrava da tanto tempo, che aveva quasi dimenticato.
«Grazie, Totò. Nel cruscotto troverai la tua mancia». L’autista si mostrò imbarazzato.
«Ma signore, non ce n’era bisogno!»
Riccardo fece un gesto sbrigativo con la mano e lo salutò.
In Piazza del Gesù la chiesa svettava come sempre alta e maestosa nel cielo. Riccardo salì le scale della sua vecchia sede. L’aria frizzantina gli entrava nei polmoni a ritmo costante, regalando energia ad ogni suo passo.
Per poco però non inciampò quando vide una figura alta scendere quelle stesse gradinate.
«Ric? Che ci fai qui?»
«Potrei chiederti la stessa cosa, Marcè».
Il capogruppo di SD lo raggiunse e Riccardo gli rivolse il migliore dei suoi sorrisi.
«Stavo recuperando del materiale che era rimasto qui, robe di Goffredo. Forse ci torneranno utili per la tua difesa».
«Grazie del pensiero» il segretario gli appoggiò una mano sulla spalla, «io invece credo che passerò la notte qui».
«Ancora vecchi ricordi?»
«Già».
Entrambi tacquero.
«Tutto cadrà nel vuoto, Ric. Ogni accusa. Non hanno prove e non le avranno mai. Non permetterò che il nostro lavoro di anni venga distrutto dai magistrati. Nessuno saprà mai la verità».
Riccardo sorrise di nuovo.
«Lo so. Sei la persona di cui mi fido di più».
L’amico gli rivolse un mezzo sorriso di complicità, poi continuò la discesa.
«Senti, Marcello».
L’uomo risalì le scale subito. Lo fissò, aspettandosi qualche direttiva importante.
«Stai facendo davvero tanto per me, e io non ti ho mai ringraziato abbastanza».
L’altro alzò un sopracciglio, stranito da quelle parole.
«Non ce n’è bisogno, Ric. Io e te siamo dalla stessa parte». Entrambi continuarono lentamente il loro percorso opposto sulla scalinata. Infine, Marcello gridò dal fondo.
«Domani andiamo fuori Roma a fare colazione. Abbiamo bisogno di tranquillità tutti e due».
Riccardo annuì, coperto da un alone di oscurità.
«Certamente. Grazie, Marcè».
Un’altra macchina nera sfrecciò via nel cuore della notte, mentre il buio nascondeva e proteggeva le ferite nascoste.
 
 
*
 
 
Giorgio cercava inutilmente di spingere tutte le sue cose dentro una striminzita valigia.
Nicolò lo osservava dalla soglia della camera. Non aveva detto niente fino a quel momento, non ne era stato capace. Davanti a lui c’era
l’uomo che non si era mai arreso davanti a nulla, l’uomo che aveva combattuto numerose battaglie impossibili da solo e che ora stava rinunciando a tutto.
«Chi non lotta ha già perso» riuscì a mormorare il capogruppo, incapace di assumere un tono di rimprovero «non è questo ciò che mi avete sempre insegnato tu e Teo?»
Giorgio gli rivolse un fugace sguardo desolante prima di ficcare mucchi di carte in una borsa.
«Vero. Io invece ho lottato, però ho perso lo stesso».
Nicolò strinse la mano sullo stipite della porta. Era arrabbiato, ma sapeva che sfogare la rabbia in quel momento non sarebbe servito a niente.
«Non sei stato tu a spingermi ad iscrivermi a questo maledetto partito, a candidarmi alle elezioni? E adesso vuoi mollare tutto così?» insistette, con la voce che tremava.
Giorgio lo squadrò con aria grave.
«Ho rinunciato alla mia famiglia per fare politica. A dare un sostegno a mia moglie, a veder crescere mia figlia, perfino al mio stesso lavoro, perché sentivo che lo stavo facendo per qualcosa di più grande. E adesso dimmelo tu, dopo quello che è successo in riunione, dovrei esserne ancora convinto?»
Nicolò respirò piano. Sapeva di dovergli dire qualcosa, qualcosa che lo convincesse a non rinunciare, ma non era mai stato bravo in quel ruolo, perché lui era il primo che rinunciava quando le cose si mettevano male. Se anche Giorgio mollava, come poteva avere la forza di ricostruire lui tutto daccapo, da solo? Non ne era mai stato capace. Era stato Giorgio a spingerlo in politica, a portarlo nelle piazze, e questo con la sola forza del suo esempio, l’esempio di un uomo a cui non importava di quanta strada ci fosse da fare, perché sembrava sicuro che prima o poi avrebbe raggiunto la meta.
«E Teo? Cosa dirà Teo?»
«Probabilmente perderà la fiducia anche lui. Dopo quello che è successo non lo puoi biasimare» rispose calmo Giorgio.
«Ma perché?» sbottò Nicolò, «perché abbiamo avuto un furfante come capogruppo? Lo abbiamo sfiduciato, questo non è sufficiente?» L’amico si avvicinò a lui con uno sguardo severo.
«Allora non hai capito proprio niente! Il problema non è Chiarelli. Gli errori di uno si possono rimediare, l’opinione di circa metà gruppo no. Erano pronti a difenderlo, capisci? Quello è il vero problema!»
Nico si sentì improvvisamente stupido per non averlo afferrato prima. Cadde seduto sul letto, incapace di ribattere a una tale verità.
«Questo non è più il mio partito. Mi dispiace».
Giorgio uscì dalla porta di casa, con il trolley in una mano e il borsone sottobraccio. Gli occhi verdi di Nicolò lo seguirono fino all’ingresso, sperando che tornasse indietro e contemporaneamente sapendo che non sarebbe mai successo.
Per la prima volta dopo tanto tempo, il capogruppo sentì lo spiraglio di un vuoto inaspettato aprirsi sotto i suoi piedi.
   
 
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